Il pensiero di DARIA BIGNARDI
Sarah e Yara, Avetrana e Brembate: lo strazio è lo stesso, anche se trova manifestazioni diverse. E allora, per favore, non pontifichiamo
Non sono mai stata tra quelli che stigmatizzano i programmi televisivi su Avetrana, anche se non ne ho mai visto uno. Capisco che in questa storia nera gli ingredienti del romanzo popolare ci siano tutti, a cominciare dagli attori: la vittima innocente giovanissima e bella, la madre testimone di Geova altrettanto bella e maltrattata dalla vita, i genitori separati che vivono uno al Nord e l’altro al Sud, la presunta giovane assassina invidiosa della cugina, lo zio utile idiota, le sorelle divise, la povertà e l’adozione da parte della famiglia più benestante. Nei drammi di Shakespeare, a parte i testimoni di Geova, era stato già raccontato tutto. I programmi morbosi e gli articoli morbosi, basta non leggerli e non guardarli: peggio di un articolo morboso c’è solo un articolo che fa la morale all’articolo morboso.
Ma ora sono io a calarmi nella parte di chi fa la morale al moralismo, perché trovo irrispettosi, affrettati e vagamente razzisti i paragoni che in questi giorni molti stanno facendo tra il mondo, il paese e lo stile di vita della famiglia di Sarah Scazzi e quelli di Yara Gambirasio. Molti commentatori plaudono alla sobrietà e alla riservatezza della famiglia bergamasca ostentando paragoni con il cosiddetto «circo di Avetrana», come se la responsabilità dell’accanimento mediatico sia stata dei parenti e compaesani di Sarah Scazzi e non dei giornalisti.
E subito è partita la macchina della semplificazione e del quadretto stucchevole: ora tutto quello che riguarda la famiglia di Brembate di Sopra deve rientrare in questo quadretto, dalla descrizione della scuola di suore dove studiano i figli alle tapparelle pudicamente abbassate della villetta di mattoni, al ritratto del padre che continua compostamente ad andare al lavoro. Persino i volontari bergamaschi vengono descritti di poche parole, quindi implicitamente più seri e nobili dei volontari pugliesi.
Quante ragazzine spariscono ogni giorno nel mondo? Tantissime, purtroppo. Ma il dolore dei genitori, un dolore che non riesco nemmeno a immaginare, penso sia lo stesso, anche se il modo di esprimerlo o non esprimerlo, raccontarlo o non raccontarlo, è diverso. Se proprio non possiamo fare a meno di indagare tra dettagli e retroscena e di spremere suggestioni ancor prima di conoscere i fatti, almeno cerchiamo di non ricamare, di non pontificare, di non affrettarci a confezionare maschere e a improvvisare lezioni di sociologia. I protagonisti di queste tragedie sono genitori, persone, non personaggi da film. Rispettiamoli.
Sarah e Yara, Avetrana e Brembate: lo strazio è lo stesso, anche se trova manifestazioni diverse. E allora, per favore, non pontifichiamo
Non sono mai stata tra quelli che stigmatizzano i programmi televisivi su Avetrana, anche se non ne ho mai visto uno. Capisco che in questa storia nera gli ingredienti del romanzo popolare ci siano tutti, a cominciare dagli attori: la vittima innocente giovanissima e bella, la madre testimone di Geova altrettanto bella e maltrattata dalla vita, i genitori separati che vivono uno al Nord e l’altro al Sud, la presunta giovane assassina invidiosa della cugina, lo zio utile idiota, le sorelle divise, la povertà e l’adozione da parte della famiglia più benestante. Nei drammi di Shakespeare, a parte i testimoni di Geova, era stato già raccontato tutto. I programmi morbosi e gli articoli morbosi, basta non leggerli e non guardarli: peggio di un articolo morboso c’è solo un articolo che fa la morale all’articolo morboso.
Ma ora sono io a calarmi nella parte di chi fa la morale al moralismo, perché trovo irrispettosi, affrettati e vagamente razzisti i paragoni che in questi giorni molti stanno facendo tra il mondo, il paese e lo stile di vita della famiglia di Sarah Scazzi e quelli di Yara Gambirasio. Molti commentatori plaudono alla sobrietà e alla riservatezza della famiglia bergamasca ostentando paragoni con il cosiddetto «circo di Avetrana», come se la responsabilità dell’accanimento mediatico sia stata dei parenti e compaesani di Sarah Scazzi e non dei giornalisti.
E subito è partita la macchina della semplificazione e del quadretto stucchevole: ora tutto quello che riguarda la famiglia di Brembate di Sopra deve rientrare in questo quadretto, dalla descrizione della scuola di suore dove studiano i figli alle tapparelle pudicamente abbassate della villetta di mattoni, al ritratto del padre che continua compostamente ad andare al lavoro. Persino i volontari bergamaschi vengono descritti di poche parole, quindi implicitamente più seri e nobili dei volontari pugliesi.
Quante ragazzine spariscono ogni giorno nel mondo? Tantissime, purtroppo. Ma il dolore dei genitori, un dolore che non riesco nemmeno a immaginare, penso sia lo stesso, anche se il modo di esprimerlo o non esprimerlo, raccontarlo o non raccontarlo, è diverso. Se proprio non possiamo fare a meno di indagare tra dettagli e retroscena e di spremere suggestioni ancor prima di conoscere i fatti, almeno cerchiamo di non ricamare, di non pontificare, di non affrettarci a confezionare maschere e a improvvisare lezioni di sociologia. I protagonisti di queste tragedie sono genitori, persone, non personaggi da film. Rispettiamoli.
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