domenica 7 aprile 2024

GUSTAW HERLING-GRUDZINSKI E LA SUA CASA DI NAPOLI

 

A Napoli, nella signorile via Crispi, sede di prestigiosi uffici e di svariati consolati, c'è la casa dove abitò lo scrittore polacco Gustav Herling-Grudzinski (1919-2000), tra i più grandi del Novecento. Catturato dai bielorussi, fu condannato a due anni di gulag, su cui scrisse il libro Un mondo a parte (Inny świat. Zapiski sowieckie (1953, già pubblicato in ingl. nel 1951; trad. it. Un mondo a parte, 1958) a lungo ignorato dalla critica e respinto dalle case editrici. In esso, per la prima volta svelava al mondo l'esistenza dei lager sovietici e gli orrori che le vittime vivevano lì dentro. Il filosofo inglese Bertrand Russell, di questo libro scrisse: “Dei molti libri che ho letto sulle esperienze delle vittime delle prigioni e dei campi di lavoro sovietici, Un mondo a parte di Gustaw Herling è il più impressionante e quello scritto meglio. Egli possiede a un grado assai raro il potere della descrizione semplice e vivida, ed è del tutto impossibile mettere in dubbio la sua sincerità in ogni punto".
Grudzinski proveniva da una agiata famiglia ebrea. In prime nozze sposò la pittrice Krystyna Domanska, morta suicida pochi anni dopo e poi, nel 1955, Lidia Croce, figlia del filosofo Benedetto Croce. Scherzando, Gustav si definiva "un polacco-napoletano" ed è Napoli la città in cui è morto ed è sepolto. Per tutta la vita scrisse denunciando i crimini commessi dal regime sovietico. 
In quella casa qualche volta era stato Piero Craveri, nipote di Benedetto Croce e mio professore all'Università Federico II di Napoli. Insegnava Storia delle istituzioni parlamentari. Craveri, primogenito di Elena Croce (primogenita di Benedetto) era un signore d'altri tempi. Aveva svolto anche attività politica al comune di Napoli. Era stato eletto senatore nel 1985. Mi ha fatto un certo effetto sapere della sua scomparsa. Se ne è andato il giorno prima della Vigilia di Natale 2023. Craveri era uno storico di area liberale. Si è occupato di studiare a fondo la figura di Alcide De Gasperi, di cui riconosce i meriti nella costruzione dell'Italia nel primo dopoguerra. Nei suoi ultimi libri, lo studioso esprimeva pessimismo sulle istituzioni rappresentative italiane. Forse ha ragione: gli è toccato in sorte di parlare di statisti come De Gasperi, per arrivare ai "politici" che ci ritroviamo oggi. 


venerdì 22 marzo 2024

CORSO ACCELERATO DI IMBECILLITA' SUICIDA

(MARCELLO VENEZIANI) - Ma in che mondo ci stanno portando? Dunque ricapitoliamo la situazione per chi si fosse distratto, avesse perso il filo complessivo della situazione o si fosse messo in contatto con il mondo solo adesso, dopo aver vissuto da automa. Stando a quel che abbiamo appreso in questi giorni, noi dovremmo scendere in guerra con Putin, chiudere un occhio sugli eccidi di Gaza perché non sono un genocidio, interrompere ogni tentativo di arginare i flussi migratori, non celebrare le nostre feste religiose ma solo il ramadam, inserire nella Costituzione non più il diritto alla vita ma il diritto ad abortire, seguire le prescrizioni woke nelle scuole, nelle università, sui social, in famiglia e nelle relazioni pubbliche e private, ovunque. A suggerirci questo catechismo non sono isolati maestrini che si sono bevuti il cervello, ma nell’ordine i vertici dell’Unione europea e di alcuni suoi governi nazionali, come la Francia.

L'ARTICOLO COMPLETO

domenica 17 marzo 2024

DIRITTO AL RIPOSO E ALLA STANCHEZZA

(🖊️Silvia Morosi @silvia.morosi) IL DIRITTO AL RIPOSO (E ALLA STANCHEZZA) - «Ogni individuo ha diritto al #riposo e allo svago… | Instagram


(🖊️Silvia Morosi @silvia.morosi) IL DIRITTO AL RIPOSO (E ALLA STANCHEZZA) - «Ogni individuo ha diritto al #riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite», recita l’articolo 24 della Dichiarazione universale dei diritti umani (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948). In una società iper-produttiva, che ha fatto dell’avere l’agenda piena uno status e si è dimenticata del tasto “off”, ci sentiamo spesso in colpa se ci prendiamo del tempo per staccare. Del tempo per noi. Il tema mi sta a cuore e ci rifletto da mesi: ma siamo davvero sicuri che il riposo e la #stanchezza non siano due diritti per cui battersi senza vergogna?


domenica 10 marzo 2024

SCRITTRICI DIMENTICATE

 

Se per "canone" si intende l'insieme dei testi che chi insegna storia letteraria considera imprescindibili letture di ogni persona colta...

venerdì 1 marzo 2024

ELOGIO DELLA SPREZZATURA IN BALDASSARRE CASTIGLIONE

Baldesar Castiglione -Il libro del Cortegiano 


XXVI. 


Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosi il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simileal reFerrando minored'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosi da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. M a avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande 

ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'I studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, aria dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l'arte ed un cosi intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Q ual di voi è che non rida quando 11 nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? 

Qual occhio è cosi cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosi la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare? 


sabato 10 febbraio 2024

GLI STUDI DEL GRUPPO "ISTRIA ITALIANA"


(Daniele De Folchi) -  Sabato Febbraio 2024 ,noi del gruppo di ricerca ISTRIA ITALIANA commemoriamo il giorno del ricordo,istituito dal senatore Roberto Menia con Legge n.92 del 30 Marzo 2004.

Con desiderio di brevità, senza un pensiero sentenzioso, e con coscienza di persona e collettività giusta, e tralasciando le passionalità, le faziosi valutazioni, e le polemiche inutili e dannose che in un giorno come questo mancherebbero di rispetto a tutti quelli che subirono il dramma dell'esilio, vogliamo ricordare, sì ricordare.
Ricordare e commemorare a perpetua memoria l'esodo delle genti italiani dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia,che tra il 1943 e il 1948,dovettero subire le angherie, le uccisioni,e gli infoibamenti da parte del tumultuoso giustiazialismo slavo e che, a guerra finita, si videro costretti ad abbandonare la loro terra natia per gli atti coercitivi dei partigiani slavo comunisti.
Tanti perirono dentro le foibe o nei campi di concentramento di Goli Otock o Borovnica,tanti altri abbandonarono la regione istriana, quarnerina, e dalmata risalendo fino a Trieste o imbarcandosi sul traghetto Toscana(visibile anche qui in foto)che da Pola portava a Venezia e Ancona.
Un esilio di 350000 persone che non aveva più nulla. Non aveva più i loro negozi, le loro botteghe, le loro case,i loro terreni, il contatto con la loro terra, e con i proprio affetti.
Arrivati in Italia vennero stipati lungo tutto lo stivale, in caserme, depositi, e luoghi di fortuna.
In questi campi vi rimasero per anni, prima di riuscire a rifarsi una vita,in Italia o altrove.
Una ferita e una lacerazione di un passato che si ripercuote ancora nel presente, di un tempo che trascorre ma che non passa, che solo da qualche anno vede la possibilità di farsi conoscere e di dare giusto merito alle indicibili sofferenze delle genti dell'Istria, Fiume, e Dalmazia.

venerdì 9 febbraio 2024

FAUSTA CIALENTE: L’AVVENTURA DI RADIO CAIRO


A guerra dichiarata, com’era da prevedere, restammo senza notizie, gli uni e gli altri. Potevamo comunicare solo con i messaggi della Croce Rossa o attraverso la Svizzera dove, per fortuna, una sorella di mio marito visse a Losanna durante quegli anni. L’Egitto, occupato dagl’inglesi ch’erano costretti a far la guerra ai fascisti e nazisti in Libia, era effettivamente un paese nemico.

Per quanta indignazione potesse sollevare in noi lo spettacolo d’una seconda guerra mondiale (a poco più di vent’anni dalla fine della prima) che si sarebbe potuta evitare, con tutti gli orrori a cui ci fece assistere, se la chiara lezione che ci aveva dato la guerra in Spagna e il trionfo del franchismo fossero almeno serviti a far intendere agli stati europei, Francia e Gran Bretagna in prima linea, che non bisognava, per l’eterna paura del “bolscevismo”, proteggere i fascismi, non mi sentii sperduta come la prima volta. La grossa esperienza non era stata inutile. Perciò, quando nell’ottobre del ’40, dagli ufficiali inglesi della propaganda mi venne offerto d’iniziare una trasmissione antifascista alla radio del Cairo, accettai subito; non con entusiasmo, perché sarebbe stato difficile averne nelle condizioni in cui mi sarei trovata, già lo sapevo, collaborando con quello che avrebbe dovuto essere il “nemico ufficiale” e del cui sincero antifascismo dubitavo assai; ma lo sentii lo stesso come un preciso dovere. Era un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io.

Dovetti quindi trasferirmi da Alessandria al Cairo e in un primo momento non ritrovai gli entusiasmi che la bellissima città, superbamente adagiata sulle rive del Nilo, aveva sempre suscitato in me col suo paesaggio, i suoi colori e i suoi odori – poiché un paese è fatto anche di questi, sopra tutto in Oriente. Il duro lavoro che avevo accettato, i problemi che dovevo affrontare, mi fecero, durante anni, in apparenza una solerte e precisa funzionaria; in realtà svegliarono una persona che non avrei mai supposto di poter essere, con tutta la malizia, l’arroganza, la capacità d’intrigo e d’aggressione che richiedevano la quotidiana difesa dell’indipendenza e dell’efficienza del nostro lavoro; perché non ero sola, evidentemente, avevo i miei bravi e fedeli collaboratori che per fortuna m’erano stati imposti. Non ero più la “scrittrice”, avevo perfino dimenticato d’esserlo stata, mi sembrava che non avrei più potuto perder tempo a “inventare storielle”, la crudeltà della guerra mi faceva vedere questo come la cosa più inutile del mondo. Avevo torto, ma così è stato.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 222-223.

(Alle pp. 232-233 parla della morte di Renato Cialente)


La scrittrice Dacia Maraini, nella sua consueta recensione per Quante Storie, ci parla dell'avventurosa vita di Fausta Cialente così come ritratta nel romanzo "Radio Cairo" di Maria Serena Palieri.

FAUSTA CIALENTE: EQUIVOCO SU MUSSOLINI


Mia madre pensò subito ad avvertirmi: Mussolini era, secondo lei, il nuovo genio benefico d’Italia e ci stava conducendo verso i più alti destini; mi raccontò pure, ridendone, come una volta, mentre era sua ospite a Gradisca e c’era stata una gran manifestazione per un passaggio del “duce”, l’avesse veduta tutta spòrta dalla finestra, col rischio di precipitare sotto, applaudirlo con entusiasmo fino a “rompersi le mani”, il viso inondato di lagrime.

Quella che io avevo creduto intelligenza non era stata altro. Dunque, se non una buona cultura musicale e letteraria. Incapace oggi ancora di farle intendere come la sua città stesse già soccombendo a tutti i punti di vista da quando aveva la “fortuna” di appartenere al regno d’Italia. Naturalmente, non sollevai nessun problema del genere, nemmeno quello, vergognoso, del razzismo fascista contro gli sloveni, tanto non avrebbe capito, o, peggio ancora, non mi avrebbe creduta; e il mio soggiorno a Malborghetto fu piacevole, il clima di mezza montagna mi aveva presto guarita e con me la zia era gentile e affettuosa.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 219-220.

domenica 4 febbraio 2024

FAUSTA CIALENTE: LA RICCA CULTURA LEVANTINA

Straniera, o distaccata, mi sentivo anche in Egitto, e non poteva essere altrimenti benché il paese e la vita che facevo mi piacessero. Avevo buoni rapporti con la mia nuova famiglia israelita nonostante avessero quasi tutti aderito sentimentalmente al fascismo, fin quando la persecuzione contro gli ebrei, con la sua rude scossa li costrinse ad aprire gli occhi e il cervello. A mia suocera, finché era vissuta, avevo voluto molto bene; era una donna incolta ma gran signora, intelligente e generosa, che tendeva però a comandare energicamente sui figli e sulle figlie, e a tutti mi preferiva perché la rispettavo e le obbedivo; con grande tenerezza mi occupavo della mia bambina er ero felice quando mia madre veniva a trascorrere qualche mese nelle ville che abitavamo nei quartieri residenziali lungo il mare, circondate da giardini verdi e fioriti in tutte le stagioni. Ricordo il suo stupore nel vedere come la vita intellettuale fosse in quegli anni vivace e diffusa in Levante. Il teatro francese e inglese veniva regolarmente, e così le grandi orchestre e i grandi solisti; ogni stagione ci recava qualcosa di nuovo o di attraente, la Palestina ci mandava il famoso complesso teatrale dell’”Habima” col Dibbuk, il Golem, il Re David, l’Uriel Acosta, e benché non conoscessi affatto l’ebraico non perdevo nessuna di quelle straordinarie rappresentazioni; e lo stesso mi accadeva col teatro greco e i suoi prestigiosi attori.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 211-212

FAUSTA CIALENTE: LA MARCIA SU ROMA. LE COLPE DELLA BORGHESIA

Mi ero sposata qualche anno dopo la fine della guerra e avevo lasciato l’Italia mentre il fascismo, che s’era apertamente messo al servizio d’una miope politica di conservazione, andava facendosi le ossa. La borghesia, fossero gl’industriali del nord o gli agrari del sud, aveva più che mai l’aria di volersi finalmente vendicare sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto – le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse – e si proponeva senza ulteriori indugi ad agguantare il potere. Il caso volle che al mio primo viaggio di ritorno dall’Egitto, mio marito ed io assistessimo a Milano alla partenza della “Marcia su Roma”. Una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti era radunata in Piazza del Duomo, nel semibuio d’una sera d’ottobre; pochissima gente intorno e dalla Galleria, dove noi eravamo, partirono qualche fischio e qualche applauso, ma nulla di più. Già si sapeva che quei bravi sarebbero comodamente andati in treno e difatti, scendendo poi l’Italia per imbarcarci a Brindisi, li avremmo ritrovati a Firenze, dove per l’ultima volta avrei incontrato la sorridente e affettuosa Myrrhine. Ma, prima di partire, andammo a salutare mio padre e mia madre che abitavano di nuovo a Milano (non si erano ancora separati, come avvenne in seguito), e raccontammo quel che i giornali del mattino avevano annunciato. Mio padre posò il sigaro sul posacenere e guardandoci in viso disse freddamente: «Lo so… ed ora ne avremo per trent’anni».

(Sbagliò di dieci). Io lo guardai esterrefatta, non avevo capito dal suo tono gelido se assistevamo a qualcosa che, secondo lui, si doveva o no accettare, ma, riprendendo il sigaro e dopo averlo riacceso aveva aggiunto con impassibile disprezzo: «Siamo un gran popolo di cialtroni».

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 207-208

FAUSTA CIALENTE: VACCINATA CONTRO L’IRREDENTISMO E STOMACATA DALLA GUERRA

Dopo il disastro di Caporetto e quanto l’aveva preceduto, c’era forse d’aver fiducia in chi comandava tuttora la guerra? S’ero da tempo vaccinata contro il fatale “irredentismo adriatico” (e Fabio[1] aveva pagato di persona l’errore in cui l’avevano fatto
crescere e maturare) la guerra alla quale assistevo mi aveva non solamente stomacata, ma suscitava in me un odio che sentivo inguaribile: l’odio contro qualsiasi forma di nazionalismo o razzismo (“sti maledeti sciavi, ‘sti maledeti austriacanti, ‘sti maledeti ebrei”), contro ogni sopraffazione, quindi; in più avevo già imparato (e gli anni a venire me l’avrebbero confermato) che i primi a pagare e ad essere travolti sono sempre i poveri, le guerre sembrano inventate per loro, giacché è la miseria che meglio insegna a resistere e a durare. I tenui germogli del vacillante patriottismo che m’era sembrato di sentir nascere in me dopo Caporetto erano dunque già periti. E quando vennero i giorni della fine intorno a quel 4 novembre, andai anch’io insieme ai miei compagni a gridare la nostra gioia per le strade e le piazze, sì; ma soltanto perché la guerra era finita e finito l’inutile massacro.

  

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 202-203.


[1] Il cugino della scrittrice, morto nella Prima Guerra Mondiale

martedì 30 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: CERTA BORGHESIA CI PREPARAVA IL FASCISMO

Verso il 20 ottobre i bollettini cominciarono a dar notizia di qualche movimento che doveva essere straordinario, la gente si eccitò leggendo che il nemico concentrava tutte le sue forze; anche le donne leggevano e mi sembrava che fossimo s’un palcoscenico (come le Wieselberger, nei bei tempi) dove sentivamo di partecipare a qualcosa di molto grosso o molto importante; qualcosa che finalmente soddisfaceva tutti. Forse si va verso la fine, forse era nel giusto chi aveva predetto “il prossimo inverno non più in trincea”. Di nuovo un “Natale tutti a casa”? C’era di che far venire la nausea. Anche i miei compagni erano pieni d’agitazione, la stessa che doveva essere nelle famiglie poiché tutti avevano qualcuno al fronte; ed io tacevo.

La catastrofe fu immediata. Ci sentimmo colpiti come se un’enorme trave ci fosse caduta sulla testa. La cosa peggiore fu l’inaudita rapidità della disfatta; le linee di difesa dalle quali sarebbero dovuti partire i nostri vantati attacchi, in pendenza o meno che fossero, ci sembrarono di biscotto, di marzapane, il nemico se le divorò in pochi giorni. Il 24 ottobre Caporetto era caduta, poi cadde anche il Monte Maggiore (eran nomi che giorno dopo giorno ci scottavano come cera bollente), le vie furono quindi sciaguratamente aperte; prima sentimmo annunciare che gli austro-tedeschi erano giunti a Cividale e i comandi ordinavano alle nostre armate di ritirarsi sul Tagliamento, poi la botta finale, tremenda: il 4 novembre s’erano ancora ritirate e fermate, sì, ma sul Piave! quello che avrebbe così a lungo “mormorato”.

E non era tanto l’idea della disfatta militare che significava, oltre i morti, centinaia di migliaia di prigionieri, tutte le armi cadute in mano al nemico, le vettovaglie perfino, quanto lo spettacolo dei poveri civili in fuga, le case, i campi, gli averi abbandonati, vecchi, donne e bambini gettati in furia allo sbaraglio; non erano certo diventati “profughi di lusso” come i nostri ricchi triestini.

Mio padre fu assai colpito ma rimase stranamente calmo, non ebbe in quei giorni nessuna delle furiose reazioni condite d’abbondanti invettive che ci avevano sempre amareggiato. In silenzio spostava le bandierine. Per il Piave disse: qui forse potranno veramente fermarsi e tenere.

Una specie di patriottismo s’era svegliato anche in me, ed era logico. Per quanto educata fin da bambina a vedere le cose in una luce realistica, e quasi mai dilatata la loro importanza, l’idea del “nostro suolo calpestato dal nemico” mi sconvolgeva, era un prezzo troppo alto che pagavamo all’imprevidenza e insufficienza dei comandi, all’ottusa stupidità dei governi e dei politici. Tuttavia non potevo allora capire, né, con me, i miei giovani amici, che la furibonda reazione di certa borghesia sedicente patriottica ci preparava il fascismo; c’era chi aveva ben calcolato quanto una disfatta poteva generarlo! Lo capimmo più tardi a guerra finita tornarono i combattenti e li vedemmo insoddisfatti, delusi e stomacati da ciò che trovarono nel paese: chi s’era tranquillamente imboscato o spudoratamente arricchito, altri avevano tutto perduto, e ai giovani o quasi giovani reduci la ricompensa che la nazione offriva dopo tanti rischi, rinunce e sacrifici era un avvenire incerto, deludente o misero addirittura; nulla da stupire quindi se tanti di essi, spesso in buona fede, qualche tempo dopo si lasciarono trascinare sulla via sbagliata.

Com’era da prevedere, dopo il clamore della disfatta restammo senza notizie di Fabio. Mia madre scriveva a Milano e pregava le sorelle di farci avere al più presto ciò che la famiglia avrebbe certamente ricevuto prima di noi. Cercavamo di dominare l’angoscia e di ammettere, ragionando, che nella confusione creata da un simile disastro le notizie sarebbero giunte con gran lentezza; tuttavia speravamo. Ch’egli fosse vivo, almeno questo.

Al momento del crollo Fabio era da tempo sull’altipiano di Asiago (nessuno di noi l’aveva mai saputo), il luogo era già stato teatro di furiosi combattimenti tra il maggio e il luglio del 1916; nell’estate del ’17 aveva avuto quella che s’era poi chiamata battaglia dell’Ortigara e là tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sempre del ’17, poco più d’un mese dopo Caporetto nell’offensiva che la storia indicò come battaglia delle Molette, il 5 dicembre Fabio era caduto.

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 189-192


FAUSTA CIALENTE: LE "MALE ARTI" DELLE DONNE

Nessuno di noi avrebbe voluto “tanto”, un simile confronto disumano tra eroi e vili, chiusi in un dramma ch’era di tutti, ormai. Una sola cosa volevamo, che finisse, finisse al più presto. Di quel che succedeva in Russia poco si riusciva a sapere, ma che fosse stato eliminato lo zarismo c’era sembrato un fatto positivo. Erano crollati in marzo, quei bravi signori, però la guerra seguitava sulle linee orientali e continuavano ad esservi impegnate le forze austro-tedesche, che non s’erano quindi spostate in massa sul “nostro fronte. Il solo effetto che da noi si poteva cogliere era che gli scioperi nelle fabbriche si facevano più frequenti e più aggressivi, la parola “rivoluzione” circolava da un pezzo – e mio padre corrugava la fronte. Non gli piaceva, quella parola, era chiaro; e nemmeno che le donne, costrette a sostituire gli uomini e a farsi operaie, si agitassero tanto e andassero per le strade urlando a contestare la guerra, a chiedere pane e pace. A me sembrava giusto, invece, una finestra s’era, per esse, fortunatamente spalancata sul mondo e sulla realtà, ma a lui le donne piacevano a casa, era indubbio; ancora meglio nel letto degli uomini, le “male arti” a loro esclusivo servizio, anche se camuffate nel matrimonio.


Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 184-185

domenica 28 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: MEGLIO LA GUERRA CHE IL SOCIALISMO

Continuava a bollire e a fumare la pozzanghera della guerra ch’esalava l’odore soffocante del sangue, un ininterrotto fiume di sangue giacché erano in tanti a morire; e per quanto la
propaganda ufficiale seguitasse a presentarci la sua quotidiana mistificazione degli avvenimenti bellici e mentisse spudoratamente sulla psicologia del fronte e dell’interno, cioè dei combattenti e della popolazione, la verità si faceva strada, se non altro attraverso le lettere che giungevano dalle trincee alle famiglie. Non so in che modo riuscissero a gabellare l’arcigna censura giacché erano piene di rabbiosa amarezza e denunciavamo lungo il corso di quell’atroce 1916 l’inutilità e il grottesco d’una guerra che non era affatto per una “nobile causa”, scrivevano, e che serviva sopra tutto ad arricchire i pescicani, a saziare la loro ingordigia e a tener quieta una borghesia che ipocritamente li trattava da eroi e li colmava di lodi, ma era ben contenta, sotto sotto, che fossero occupati a scannarsi con gli austriaci e non liberi, invece, di sviluppare il temuto socialismo da cui si era sentita minacciata; ma essi, al fronte, pagavano con la vita quell’ignobile commedia, e le famiglie, all’interno, la pagavano con privazioni e stenti sempre maggiori. Poi si cominciò a dire di diserzioni e fucilazioni, probabilmente queste erano notizie che nessuno osava scrivere, le portavano dal fronte i soldati in licenza, ma poi non restavano sospese come nebbia nel chiuso delle famiglie, insidiosamente le parole circolavano, circolavano, erano come un orlo di fango che arrivava dappertutto.


Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 179-180

sabato 27 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: IRREDENTISMO E DINTORNI

Gli sloveni, poi, ardentemente cattolici e clericali, sospettavano gl’irredentisti d’essere in gran parte massoni, quindi nemici della chiesa, colpevoli ad ogni modo d’aver commesso il sacrilegio, all’unità d’Italia, d’aver spodestato il Papa. Ma nemmeno i più obiettivi degli osservatori stranieri avrebbero potuto, a quei tempi, prevedere l’immane tragedia alla quale andavano tutti incontro. Ai nipoti regnicoli, cioè italiani, che sarebbero entrati in scena ben più tardi, sarebbe toccato l’amaro destino di assistere al crollo di tanta potenza e tante illusioni, e non perché avessero amato quella potenza e accolto per buone quelle illusioni, ma perché a conti fati la catastrofe della prima guerra mondiale venne a costare all’Europa dieci milioni d’inutili morti.

Ciò che più avrebbe colpito chi avesse voluto esaminare da un punto di vista strettamente economico e sociale la questione irredentista intorno agli anni di quelle liete vendemmie e quei balli alla Filarmonica, avrebbe senza dubbio scoperto, o almeno imparato, come per salvarsi dalla secolare oppressione di Venezia, Trieste aveva dovuto concedersi ai duchi d’Austria pochi secoli dopo il mille; e per molto tempo aveva vivacchiato sfruttando un hinterland che le era completamente straniero, anche per il linguaggio, ma era il solo retroterra di cui poteva disporre. Era quindi curioso, ma soprattutto indicativo d’un certo carattere che una comunità tra il 1500 e il 1600 era calata da dodicimila a cinquemila abitanti, avesse nondimeno continuato a parlare in città e lungo tutto il litorale il suo dialetto veneto; e proprio questo linguaggio avessero astutamente imparato, storpiandolo, i carniolini, i carinziani, gli stiriani. I triestini, imperterriti, non imparavano nulla e ostentavano già allora l’intenzione di condurre traffici e commerci adoperando unicamente il loro dialetto. Ma se intanto non decadeva, Trieste, non era per il buon volere o la generosità degli Asburgo ai quali s’era data in braccio, ma per l’inarrestabile decadenza di Venezia; e se ciò la rendeva sempre più libera di sviluppare i suoi commerci in terra e in mare, fatalmente la incorporava sempre di più nel nascente impero austriaco e andava diventando la porta occidentale d’un immenso retroterra orientale, un destino al quale sembrava naturalmente, geograficamente legata; e la lingua tedesca, quella almeno, avrebbe dovuto parlarla. Una storia così lontana nel tempo che i triestini destinati all’irredentismo adriatico, anche se non l’ignoravano, preferivano fingere d’averla dimenticata, o tutt’al più con l’avvicinarsi dei tempi moderni si accontentavano di vantare, come immancabilmente faceva il padre, il pittoresco cosmopolitismo della città, passato e recente, e quel “mitteleuropeo” ch’era diventato il carattere peculiare di Trieste e della sua cultura. Troppi avvenimenti s’erano accavallati nell’Ottocento che aveva visto nascere non soltanto il padre e la madre, ma anche le loro quattro figliuole, e i sussulti che dopo la bufera del ’48 avevano via via provocato la guerra del ’66, la compiuta unità d’Italia, l’impiccagione di Oberdank, non avevano fatto altro che accrescere ed esasperare l’irredentismo dei triestini non austriacanti, che l’unità consideravano incompiuta, quindi notoriamente invisi al cattolicissimo imperatore.

Era nata intanto, intorno al 1890. La Lega Nazionale in sostituzione di un Pro Patria che Vienna aveva condannato con un decreto di scioglimento perché s’era permesso d’inneggiare pubblicamente alla nascita, in Italia, della “Dante Alighieri”; ma la nova associazione non nascondeva affatto il proposito di continuare a raccogliere fondi per istituire nuove scuole italiane là dove un sentimento d’italianità o d’irredentismo sembrava indebolito o minacciato. Alla Lega avevano subito aderito con entusiasmo il “maestro” e tutta la famiglia, anche le figlie giovinette, e più tardi ancora i nipoti triestini. Era il tempo in cui il liberalmassone Felice Venezian capeggiava l’irredentismo in Trieste, quindi anche la Lega Nazionale, e il suo nome raggiava nella famiglia come una stella di sempre crescente splendore.

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 43-45

giovedì 25 gennaio 2024

MASSONI CELEBRI

(Grande Oriente) - “Sebbene sia ignoto ai più, molti dei grandi personaggi che hanno dato un sostanziale contributo alla storia dell’umanità negli ultimi tre secoli aderivano alla Massoneria…

Saranno quindi elencate alcune di queste personalità che, da Liberi Muratori, hanno dato un notevole apporto al progresso culturale della società: quale fulgido esempio del lavoro iniziatico necessario al raggiungimento dei più alti traguardi umani.”

(fonte: Gianmichele Galassi, Apprendista Libero Muratore, Secreta Ed. 2013)


Letterato e filosofo francese, fu iniziato il 7 aprile 1778 a Parigi, nella Loggia delle Nove Sorelle. Era Venerabile di quella celebre loggia il famoso astronomo LALANDE. Voltaire entrò nel Tempio massonico guidato da Beniamino Franklin, allora ambasciatore a Parigi, e dal Conte de Gobelin. Morendo, pronunciò la frase: “Muoio adorando Dio, amando i miei fratelli, non odiando i miei nemici e detestando la superstizione”.
Voltaire (François Marie Arouet) (1694-1778)
Stampatore americano; pubblicò il primo libro nelle colonie, le Costituzioni di Anderson del 1723. Autore, ufficiale postale, uomo di stato, scienziato e filosofo, Franklin fu di fondamentale importanza per la creazione degli Stati Uniti.
Benjamin Franklin (6 Gennaio 1706 – aprile 1790)
Fu iniziato nel dicembre 1784 presso la Loggia 'La Beneficenza', della quale era Venerabile Otto Von Geremingen, diventò compagno nel 1785. Dopo pochi giorni dalla sua Iniziazione M. si recò in visita presso la più famosa Loggia Austriaca 'La Vera Armonia', nella quale più tardi fu iniziato il grande compositore e amico Haydn.
Wolfang Amadeus Mozart (Salisburgo 27 Gennaio 1756 – 6 dicembre 1791)
E’ stato uno scrittore, poeta e drammaturgo irlandese. Scrittore impudente dalle parole semplici, ma coll'intento di suscitare una riflessione nel suo lettore, prediligeva la scrittura aforistica con l'espressione dei paradossi, al punto da essere citato ad esempio nei moderni dizionari.
Oscar Fingal O’Flaherty Wills Wilde (Dublino, 16 ottobre 1854 – Parigi, 30 novembre 1900)
Scrittore britannico che, assieme ad E. Allan Poe, è considerato il fondatore di due generi letterari: il giallo ed il fantastico. Doyle è padre e maestro assoluto del sottogenere definito “giallo deduttivo”, reso famoso da Sherlock Holmes, il suo personaggio di maggior successo.
Sir Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930)
Premio Nobel per la letteratura nel 1908, riceve nel 1921 la laurea ad honorem dell'Università di Parigi. Kipling entra in Massoneria nell'aprile del 1886, all'età di 21 anni, a Lahore, nella Loggia "Hope and Perseverance" (N. 782).
Joseph Rudyard Kipling (Bombay, 30 Dicembre 1865 – Londra,18 gennaio 1936)
Medico e batteriologo inglese, membro della Royal Society nel 1942 e premio Nobel (1945) per la medicina e la fisiologia, quale scopritore della penicillina. Fu M:.V:. , nel 1935, della R:.L:. “Misericordia” N. 3286 all'Or:. di Londra. Nel 1942, fu eletto Primo Grande Diacono della Gran Loggia d'Inghilterra. Fu Sommo Sacerdote nel Gran Capitolo Royal Arch Mason of England.
Sir Alexander Fleming (1881-1955)
È stato fondamentale compositore, direttore d'orchestra e arrangiatore della storia del jazz. È considerato uno dei maggiori compositori americani del Novecento, oltre ad essere stato un originale pianista.
Edward Kennedy “Duke” Ellington (Washington, 29 aprile 1899 – 24 maggio 1974)
Attore cinematografico americano, famoso per la sua voce, la camminata e la prestanza fisica, così divenne l'icona della forza Americana. Nel 1999, l'Istituto Cinematografico elesse Wayne la tredicesima stella del cinema di tutti i tempi. Appartenne alla Loggia Mc Daniel n.56 - Tucson, Arizona.
John Wayne (26 maggio 1907. -11 giugno 1979)
Attore, compositore e poeta italiano. Soprannominato "il principe della risata", è considerato uno dei più grandi interpreti nella storia del teatro e del cinema italiano.
Antonio De Curtis, in arte Totò. (Napoli, 15 febbraio 1898 – Roma, 15 aprile 1967)
Fisico italiano, naturalizzato statunitense. Premio Nobel per la fisica nel 1938.
Enrico Fermi (Roma, 29 settembre 1901 – Chicago, 29 novembre 1954)
Scrittore e pedagogo italiano. È conosciuto per essere l'autore del romanzo Cuore, uno dei testi più popolari della letteratura italiana per ragazzi.
Edmondo De Amicis (Oneglia, 21 ottobre 1846 – Bordighera, 11 marzo 1908)
Poeta e scrittore italiano. Fu il primo italiano a vincere il Premio Nobel per la letteratura nel 1906.
Giosuè Carducci (Valdicastello di Pietrasanta, 27 luglio 1835 – Bologna, 16 febbraio 1907)
Militare, politico e patriota italiano, tra i più noti e importanti protagonisti del Risorgimento.
Gerolamo Bixio, detto Nino. (Genova, 2 ottobre 1821 – Banda Aceh, 16 dicembre 1873)
Scrittore e giornalista italiano. È divenuto celebre come autore del romanzo Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, più noto come Pinocchio.
Carlo Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini (Firenze, 24 novembre 1826 – Firenze, 26 ottobre 1890)
Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, è la figura più rilevante del Risorgimento, uno dei personaggi più celebri al mondo: fu soprannominato l’Eroe dei due mondi per le sue imprese militari compiute sia in Europa, sia in America meridionale”
Giuseppe Garibaldi (Nizza, 4 luglio 1807 – Caprera, 2 giugno 1882)
Conte, drammaturgo, poeta e scrittore italiano.
Vittorio Amedeo Alfieri (Asti, 16 gennaio 1749 – Firenze, 8 ottobre 1803)

Avventuriero, scrittore, poeta, alchimista, diplomatico, filosofo e agente segreto italiano, cittadino della Repubblica di Venezia.
Giacomo Casanova (Venezia, 2 aprile 1725 – Dux, odierna Duchcov, 4 giugno 1798)

IL PRIMO MASSONE D'ITALIA: ANTONIO COCCHI

Il primo massone d’Italia. Antonio Cocchi, mugellano per rivendicazione, beneventano per caso/ Il Sannio

(Grande Oriente) - La famiglia Cocchi era già presente in Borgo San Lorenzo (FI) nella prima metà del `500: un suo avo era il dottor Giovanbattista Cocchi, cancelliere podestarile.

Antonio, nacque casualmente a Benevento il 3 agosto 1695 giacché il padre Diacinto, notabile e funzionario nell’amministrazione del Granduca Cosimo III° de’ Medici, incaricato della gestione dei beni di Falco Rinuccini nobile fiorentino e marchese di Baselice, fu trasferito nella nostra città con la moglie Beatrice Bianchi di Baselice.

Tornati poco dopo in Toscana, i Cocchi iscrissero il figlio alla scuola degli Scolopi di Firenze, e Antonio iniziò quella lunga strada di scienziato, medico, antiquario, botanico, filosofo, che lo portò in tutta Italia e in diversi paesi europei come Inghilterra, Francia, Svizzera, Olanda e Germania.

Fortemente legato alla sua terra d’origine si firmò “Mugellano” da quando, iscritto nei moli dell’Ateneo di Pisa, aveva rivendicato le sue origini fiorentine. Il monogramma personale infatti mostra una M di Mugellano capovolta e una A di Antonio in essa incastonata. Di eclettica formazione e di poliedrica attività fu membro dell’Accademia della Crusca, fermo assertore di una scienza laica e libera, versatile letterato e anche massone. 

Tra le sue molte opere ci occupiamo delle “Effemeridi”, il diario privato di Antonio Cocchi: sono contenuti appunti informali su disparati argomenti, in molte lingue antiche e moderne, con numerosi segni e disegni.

Nei 103 quaderni manoscritti autografi donati dagli eredi alla Biblioteca biomedica dell’Università degli studi di Firenze (un tempo Biblioteca dell’Ospedale di Santa Maria Nuova in Firenze) Cocchi racconta la sua vita dal 1722 al 1757 con dovizia di particolari: elenca le persone incontrate, i luoghi visitati, i libri e i codici manoscritti posseduti, i malati curati, le entrate e le uscite della cassa personale, quasi sempre vuota. Ne emerge uno spaccato assai interessante, che fa delle “Effemeridi” una testimonianza importante per la ricostruzione storica della medicina, della biblioteconomia, della filosofia, della politica, dell’arte e della letteratura del Settecento toscano. In una recensione del libro “Quaderno di cultura” degli autori Selvaggio e Pace, edito dalla Associazione Storica del medio Voltumo, Monica Longo parla della Massoneria in area sannita, territorio periferico, interno eppure, caratterizzato da feconde tradizioni esoteriche e stregonerie, accende curiosità grazie a spunti e particolari inediti. Come il nome e le generalità del primo massone principiato in Italia: Antonio Cocchi, nato a Benevento nel 1695, illustre clinico medico dell’Università di Pisa, avviato nella Loggia degli Inglesi di Firenze nel 1732. Primo massone iniziato in Italia, specifica Nicola Di Modugno nella postfazione, ma non primo massone italiano in quanto il primato è del violinista lucchese Francesco Saverio Geminiani, iniziato a Londra nel 1725.

Nell’articolo della Longo si fa riferimento a eventi singolari. C’è una significativa fetta di Sannio nella massoneria italiana. Il professore Di Modugno, storico della massoneria, riporta tra gli altri succosi aneddoti, quello riguardante Padre Pio e Raffaele De Caro. De Caro, nato a Benevento il 1883, iniziato nel 1911, insignito del grado di Maestro un anno dopo, deputato al parlamento, firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, “nel 1957 ebbe un malore e, ritenendo vicina la sua morte, chiese a Guido (Guido De Caro, nipote e figlio adottivo di Raffaele, iniziato presso la Reale Loggia Manfredi di Benevento, di cui fu successivamente Maestro Venerabile) di recarsi a San Giovanni Rotondo a pregare Padre Pio, di cui era intimo amico fin dalla adolescenza, di venire a Benevento a dargli l’estrema unzione. Guido — si legge nella ricostruzione di Di Modugno — partì con l’autista da Benevento a mezzanotte e giunse a San Giovanni Rotondo alle quattro di mattina”. Padre Pio lo rassicurò e lo invitò a prendere la via del ritorno: “Vedrai Guido —gli disse — quando arriverai a Benevento lo troverai di nuovo bene”.

E così fu…La storia della Massoneria è stata attraversata da condanne, sospetti e pregiudizi; da corporazione di maestri d’opera diventa un corpo speculativo, ciò nondimeno è importante non dimenticare il suo contributo di matrice illuministica anticipando concetti quali la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, la tolleranza religiosa, la dignità individuale, il libero pensiero. Nei confronti del personaggio mugellano, la Chiesa non poté fare a meno di riconoscere la sua vivida intelligenza e la sua profonda cultura. La storia ci ricorda tuttavia che Benevento è stata un’enclave dello Stato Pontificio all’interno del Regno di Napoli dal IX secolo al 1860, e quindi ad Antonio Cocchi, oggetto di attenzione del Tribunale dell’Inquisizione in quanto massone, è stata dedicata una strada Giuseppe Patrevita disabitata con solo tre numeri civici, di cui due con vetrina chiusa di negozio di abbigliamento. Di fronte al banco di Napoli al Corso Garibaldi c’è una stradina angusta di meno di cento metri che sbocca a Piazza Roma. E Via Antonio Cocchi tra il Palazzo dell’Aquila Bosco Lucarelli del XX secolo e lo splendido palazzo Collenea-Isernia appartenente al nobilato locale.

Un’ulteriore sberla al mugellano beneventano è assestata da Google Maps e Street View: si inquadra la lapide intitolata ad Antonio Cocchi ma a terra è evidente la scritta Via Odofredo, giurista di Bologna (1200-1265). Che dire…? Ci troviamo di fronte all’inconoscibilità del reale di cui ognuno può dare una propria interpretazione ma che può non coincidere con quella degli altri.

Così è la vita… E così è se vi pare. (A cura dell’Archeoclub di Benevento)

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