giovedì 31 agosto 2017

DAVVERO IL TRENO, COME UN SOGNO, CI SALVERA'?

(ORTICALAB) - L’aria calda di agosto e il paesaggio che cambia verso le pianure di Puglia; il treno d’epoca sferragliante lungo un binario d’altri tempi, a tagliare di netto i colori forti della terra alta d’Irpinia bruciata dall’arsura estiva: quella della ferrovia storica Lioni-Rocchetta è una rievocazione tridimensionale (nel bene e nel male) di un passato suggestivo e di suggestioni che potrà davvero essere locomotiva, nella misura in cui, dopo aver mosso i primi, timidi passi, imparerà anche a parlare e farsi comprendere fuori da sé.



Giulia D’Argenio

L’aria calda di agosto e il paesaggio che cambia verso le pianure di Puglia; il treno d’epoca sferragliante lungo un binario d’altri tempi, a tagliare di netto i colori forti della terra alta d’Irpinia – letteralmente – bruciata dall’arsura estiva: quella della ferrovia storica (Avellino)-Lioni-Rocchetto è una rievocazione tridimensionale (nel bene e nel male) di un passato suggestivo e di suggestioni che potrà davvero essere locomotiva, nella misura in cui, dopo aver mosso i primi, timidi passi, imparerà anche a parlare e farsi comprendere fuori da sé.
L’assalto dei passeggeri smarriti alle carrozze del treno in partenza da Lioni e al punto ristoro finale, l’unico lungo tutta la tratta, organizzato dal Comune di Rocchetta racconta di un territorio che comincia, ora, ad emettere i primi vagiti di un futuro tutto da costruire. E però perché il treno, salpato un anno fa dalla stazione di Conza, possa continuare a sferragliare, e tessere il suo romantico cordone tra l’avvenire e una certa narrazione del passato, ha bisogno di emanciparsi dal freno della nostalgia. «Un territorio schiacciato dai ricordi» è stata definita, a ragione, questa malinconica Irpinia al capolinea di Rocchetta, da dove partivano antiche valigie di cartone, raramente con un biglietto di andata e ritorno. Gli stessi biglietti rievocati, con leggera e calzante ironia, dal contadino nuscano che ha attraversato i vagoni del treno storico, trasformati in palcoscenico dagli attori del Clan H di Salvatore Mazza. Valigie e abiti d’altri tempi, ad accompagnare ed arricchire il racconto, venato d’un riso amaro ed emotivamente pregnante, che la compagnia ha fatto di un passato che non potrà mai passare se gli irpini per primi non si desteranno dal sonno.
“Il treno, come un sogno, ci salverà” è stata una delle più romantiche suggestioni che Salvatore ha restituito al suo pubblico viaggiante. Ma quel treno ci salverà, solo nella misura in cui smetterà d’essere proprio un sogno o, peggio, una nostalgica consolazione dai torti che l’Irpinia ha subito dalla storia, dalla politica e dalle congiunture astrali. “Il treno ci salverà” nella misura in cui l’Irpinia imparerà a parlare di sé non in un monologo ma in dialogo col mondo. Nella misura un cui imparerà che il turismo, oggi, non è solo suggestivo ritorno alla lentezza della terra o promozione di quel che potrebbe essere, ma anche servizi sistematicamente funzionanti. Brutto a dirsi ma è il risvolto avvelenato del materialismo ipercapitalistico nel quale la stessa retorica glocal della musica, dei riti sponzali e del vino è profondamente calata. È il solo modo che avremo di sentire moltiplicarsi – in un futuro relativamente lontano – gli accenti e le lingue che viaggiano su quell’unico binario di un passato che deve imparare a vivere nel presente. Un presente confusamente osservato, ad esempio, da un giovane inglese sporto dal finestrino della carrozza numero 2 per scrutare lo spettacolo suggestivo del lago di Conza senza però ben comprendere cosa stesse accadendo intorno. Perché su quel treno l’Irpinia s’è ritrovata non per raccontarsi, ma per cercare di curare ferite e fantasmi che ancora tornano dal passato.
Quel passato che, sotto il sole rovente di Lioni, è apparso (ancora una volta ma, questa, in maniera totalmente diversa e, forse, più genuina) la nostra più grande zavorra. Nelle lacrime di Vincenzo De Luca e nella voce, sinceramente rotta dall’emozione, di Rosa D’Amelio abbiamo trovato racchiusa l’effigie potente di una politica fatta di sfide personali e di guerre combattute più per la soddisfazione propria e del proprio campanile che non per un disegno politico di ampio respiro. La stessa (a tratti forse persino inconsapevole) auto-referenzialità che spiega i peggiori errori di un passato che non passa e che si assolve rivestendo quegli errori, di calcolo e valutazione, con la magra consolazione di successi, insufficienti a leggere ed orientare il presente. Dall’inizio della grande migrazione, lungo i binari dell’Avellino-Rocchetta, è passato oltre un secolo. Dal terremoto dell’Ottanta quasi quarant’anni. Eppure quelle memorie continuano ad annebbiare occhi pieni di lacrime che per lenire il proprio dolore, hanno ipotecato il futuro di quei giovani per i quali il Governatore De Luca ha detto bisogna creare lavoro. Quei giovani, però, sono già partiti con un altro biglietto di sola andata, motivo per il quale la sfida politica attuale riguarda, piuttosto, i nipoti di questa generazione, ai quali dar risposte avendo l’onestà intellettuale di riconoscere, ad esempio, che un treno storico non è l’alta velocità né è la risposta a una cosa ben più ampia e complessa che si chiama diritto alla mobilità. Quel diritto che, ad esempio, permetterebbe di ridurre la pressione demografica sul capoluogo, cercando di redistribuire, in maniera più omogenea e sostenibile, abitanti e servizi sul territorio di una provincia che resta impraticabile, e vuota, per la maggior parte dell’anno.
È vero che “gli ingegni in Irpinia sono vivi”: lo abbiamo visto su quel treno, nella passione dei volontari, nell’amara bellezza del suo teatro vagante, nella voglia di esserci dei viaggiatori. Ma non si tratta che di una parentesi, una virgola appena accennata nella più ampia narrazione dei naturali cicli storici di luoghi così lontani da dio - e dal mondo - da non esservi festa o rito propiziatorio che tenga, per la loro assoluta salvezza: il dolore delle partenze e delle separazioni sussisterà sempre. Lo si potrà forse lenire cercando di ridurre le distanze dalla realtà, ma non cancellarlo.
Questa Irpinia, a differenza della suggestiva narrazione offerta dal cantastorie viaggiante da Lioni a Rocchetta, non è libera, per tanti motivi: potrebbe diventarlo, ma più che per il moto del treno scegliendo, definitivamente, di lasciare la sicura stazione del suo annichilente dolore per cercare di mettersi in viaggio coi mezzi necessari a sopravvivere.

domenica 13 agosto 2017

LICEO BREVE, LAUREA BREVE, IGNORANZA LUNGA

Il pensiero di Pier Franco Quaglieni su Linea di confine

Liceo breve, laurea breve, ignoranza lunga  

In  pieno periodo di vacanza scolastica il ministro dell’istruzione Fedeli che dovrebbe traghettare la “buona scuola” di Renzi verso  lidi meno agitati, lancia a livello sperimentale la scuola media superiore breve, di appena quattro anni, tornando allo schema  degli istituti magistrali e dei licei artistici modulati sui quattro anni di corso. Questo schema si rivelò del tutto insufficiente perché non preparava in modo adeguato, riducendo i programmi scolastici a cenni  e impedendo un qualunque approfondimento. Per definire una cultura superficiale, si parlava  infatti di maestrine elementari alle quali era consentito il percorso universitario solo al Magistero,una università di serie b. Anche gli allievi dell’artistico potevano proseguire solo all’Accademia di Belle Arti che si insiste ad equiparare  immotivatamente ad Università. Altrimenti maestri ed artisti, per proseguire, dovevano frequentare un anno in più definito  propedeutico alla frequenza universitaria. Ora sembra che di voglia tornare al vecchio, mentre la scuola del facilismo si è rivelata del tutto fallimentare. Si tratta di un esperimento che è facile prevedere fallimentare. La scuola necessita di interventi seri e non improvvisati. Il liceo breve farà coppia con l’università breve di tre anni dove  si consente ad infermieri, massaggiatrici, igienisti dentali di farsi chiamare dottore. Un’aberrazione voluta dal ministro Luigi Berlinguer  che ha provocato il degrado dell’Università ridotta a liceo. Dal 2018/19 avremo anche il liceo ridotto a scuola media. Non c’era in effetti bisogno  del ministro Fedeli per raggiungere questo obiettivo perché la scuola superiore si era già  ridimensionata e abbassata di livello dal ’68 in poi con la desertificazione degli studi  e il diritto al titolo di studio confuso con quello allo studio che è tutt’altra cosa. Berlinguer propose  di centrare almeno  l’obiettivo dei ”saperi minimi“, una vera e propria follia perché a minimizzare i saperi ci pensa autonomamente il fluire del tempo e il logorio della memoria. Da molti anni sforniamo giovani ignoranti che non sanno parlare e scrivere in modo adeguato e sono profondamente incolti. Con l’idea balzana  del ministro Fedeli finiremo nell’abisso. E avremo magari il primato di dottorini  ventenni. Forse nessuno ricorda più Ivan Illich che animò il dibattito sulle descolarizzazione degli Anni ’70 del secolo scorso. Le sue tesi vedevano nella scuola un male, voleva una società descolarizzata, una vera utopia  velleitaria che, se realizzata, avrebbe ricacciato indietro il vivere civile. Il ”68 provocò  effetti distruttivi che crearono la crisi delle istituzioni scolastiche e ne provocarono l’inefficacia. Che la Fedeli abbia letto, in qualche ritaglio di tempo libero dall’attività sindacale e politica, la voce relativa ad Illich  su Wikipedia?

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