lunedì 18 dicembre 2017

RACCONTI D'INVERNO



E' uscito ed è disponibile online o ordinabile in libreria il nuovo libro di Lucia Gangale, dal titolo "Racconti d'inverno". Nove racconti che riscaldano il cuore in questo freddo inverno. Nove short stories nelle quali l’autrice, attraverso uno stile piacevole ed accattivante, fa palpitare di vita i suoi personaggi. La docente caparbia che, nell’epoca della digitalizzazione, decide di far vivere le pagine patinate del giornale della scuola. Elsa, che ritrova la felicità grazie alla presenza di Ernesto ed alla riscoperta di dedicarsi a sé stessa ed alle proprie passioni. Elisa, giovane donna, che si affaccia nel mondo dei grandi attraverso esperienze diverse e non tutte gradevoli. Il vecchio preside di scuola, sgradevole moralmente e fisicamente, alle prese con il conto che la vita gli riserva dopo la sua vita improba. Roberta, la quale, dopo un matrimonio infelice, fa ritorno alla sua terra natia, nelle Langhe, riscoprendosi e riscoprendo il piacere delle cose vere e semplici. La storia di un’infanzia rurale, che è anche un affresco del mondo contadino e dei paesi. La vicenda del forestiero, che si trova per caso in un paese senza libri, dove tutto è spento e privo di anima. Il percorso incoraggiante delle tre imprenditrici che si inventano una piccola attività artigianale, superando la crisi economica grazie alla forza della solidarietà. Infine, un inno alla bellezza della natura, inseguendo una piccola volpe che incontra una autista solitaria nel cuore della notte. Nove racconti alla ricerca della grazia e dell'umanità che si perde quando non ascolta se stessa e si disperde tra conformismi e banalità. In modo semplice, allora, si può scoprire o ritrovare la bellezza che ci circonda, tra profumi di tartufi e di torrone artigianale, assaggi di cioccolate calde, incontri inaspettati ed anche delusioni, memorie di freddi inverni dal sapore antico e cene fra parenti ed amici, sul filo dei racconti e delle confessioni reciproche. Il volume è arricchito da simpatici disegni dell’Autrice.
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giovedì 2 novembre 2017

IL CESTINO LANCIATO ALLA DOCENTE

(Maddalena Lo Fiego) - Dietro al cestino lanciato ad una docente ci sono anni di riforme scellerate della scuola che hanno prodotto:
riduzione degli organici con conseguenti classi pollaio; abolizione di varie discipline e riduzione oraria di quelle sopravvissute; burocratizzazione dell'attività dei docenti ai danni della didattica; studenti costretti all'alternanza scuola-lavoro che sottrae loro entusiasmo, pensieri e tempo; docenti deportati cui è stata smantellata la vita insieme alla famiglia, ...sviliti e senza energia vitale; una campagna denigratoria, professionale e umana, dei docenti portata avanti, da anni, in primis dagli stessi politici, poi da media asserviti e da pseudointellettualoidi e opinionisti prezzolati che a scuola ci sono stati da alunni e che ora si permettono di sindacare e giudicare chi svolge una professione a loro sconosciuta; genitori sempre più aggressivi che dimenticano di educare i figli, troppo presi dal difenderli ad ogni costo, tanto basta un ricorso al tar; ds sempre più manager e sempre meno educatori, attenti a salvare l'immagine della scuola per non perdere i "clienti", e che spessissimo lasciano in trincea, da soli, i docenti.
E una ministra che, ignara, risolve tutto con l'uso dello smartphone in classe.
E un presidente del consiglio che per buona misura aggiunge lo yoga....
Il ragazzo è solo l'ultimo della fila.
La sua mano è la più fragile.
Sono mani più forti quelle che hanno lanciato il cestino addosso alla docente.
Addosso a tutti noi.

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giovedì 31 agosto 2017

DAVVERO IL TRENO, COME UN SOGNO, CI SALVERA'?

(ORTICALAB) - L’aria calda di agosto e il paesaggio che cambia verso le pianure di Puglia; il treno d’epoca sferragliante lungo un binario d’altri tempi, a tagliare di netto i colori forti della terra alta d’Irpinia bruciata dall’arsura estiva: quella della ferrovia storica Lioni-Rocchetta è una rievocazione tridimensionale (nel bene e nel male) di un passato suggestivo e di suggestioni che potrà davvero essere locomotiva, nella misura in cui, dopo aver mosso i primi, timidi passi, imparerà anche a parlare e farsi comprendere fuori da sé.



Giulia D’Argenio

L’aria calda di agosto e il paesaggio che cambia verso le pianure di Puglia; il treno d’epoca sferragliante lungo un binario d’altri tempi, a tagliare di netto i colori forti della terra alta d’Irpinia – letteralmente – bruciata dall’arsura estiva: quella della ferrovia storica (Avellino)-Lioni-Rocchetto è una rievocazione tridimensionale (nel bene e nel male) di un passato suggestivo e di suggestioni che potrà davvero essere locomotiva, nella misura in cui, dopo aver mosso i primi, timidi passi, imparerà anche a parlare e farsi comprendere fuori da sé.
L’assalto dei passeggeri smarriti alle carrozze del treno in partenza da Lioni e al punto ristoro finale, l’unico lungo tutta la tratta, organizzato dal Comune di Rocchetta racconta di un territorio che comincia, ora, ad emettere i primi vagiti di un futuro tutto da costruire. E però perché il treno, salpato un anno fa dalla stazione di Conza, possa continuare a sferragliare, e tessere il suo romantico cordone tra l’avvenire e una certa narrazione del passato, ha bisogno di emanciparsi dal freno della nostalgia. «Un territorio schiacciato dai ricordi» è stata definita, a ragione, questa malinconica Irpinia al capolinea di Rocchetta, da dove partivano antiche valigie di cartone, raramente con un biglietto di andata e ritorno. Gli stessi biglietti rievocati, con leggera e calzante ironia, dal contadino nuscano che ha attraversato i vagoni del treno storico, trasformati in palcoscenico dagli attori del Clan H di Salvatore Mazza. Valigie e abiti d’altri tempi, ad accompagnare ed arricchire il racconto, venato d’un riso amaro ed emotivamente pregnante, che la compagnia ha fatto di un passato che non potrà mai passare se gli irpini per primi non si desteranno dal sonno.
“Il treno, come un sogno, ci salverà” è stata una delle più romantiche suggestioni che Salvatore ha restituito al suo pubblico viaggiante. Ma quel treno ci salverà, solo nella misura in cui smetterà d’essere proprio un sogno o, peggio, una nostalgica consolazione dai torti che l’Irpinia ha subito dalla storia, dalla politica e dalle congiunture astrali. “Il treno ci salverà” nella misura in cui l’Irpinia imparerà a parlare di sé non in un monologo ma in dialogo col mondo. Nella misura un cui imparerà che il turismo, oggi, non è solo suggestivo ritorno alla lentezza della terra o promozione di quel che potrebbe essere, ma anche servizi sistematicamente funzionanti. Brutto a dirsi ma è il risvolto avvelenato del materialismo ipercapitalistico nel quale la stessa retorica glocal della musica, dei riti sponzali e del vino è profondamente calata. È il solo modo che avremo di sentire moltiplicarsi – in un futuro relativamente lontano – gli accenti e le lingue che viaggiano su quell’unico binario di un passato che deve imparare a vivere nel presente. Un presente confusamente osservato, ad esempio, da un giovane inglese sporto dal finestrino della carrozza numero 2 per scrutare lo spettacolo suggestivo del lago di Conza senza però ben comprendere cosa stesse accadendo intorno. Perché su quel treno l’Irpinia s’è ritrovata non per raccontarsi, ma per cercare di curare ferite e fantasmi che ancora tornano dal passato.
Quel passato che, sotto il sole rovente di Lioni, è apparso (ancora una volta ma, questa, in maniera totalmente diversa e, forse, più genuina) la nostra più grande zavorra. Nelle lacrime di Vincenzo De Luca e nella voce, sinceramente rotta dall’emozione, di Rosa D’Amelio abbiamo trovato racchiusa l’effigie potente di una politica fatta di sfide personali e di guerre combattute più per la soddisfazione propria e del proprio campanile che non per un disegno politico di ampio respiro. La stessa (a tratti forse persino inconsapevole) auto-referenzialità che spiega i peggiori errori di un passato che non passa e che si assolve rivestendo quegli errori, di calcolo e valutazione, con la magra consolazione di successi, insufficienti a leggere ed orientare il presente. Dall’inizio della grande migrazione, lungo i binari dell’Avellino-Rocchetta, è passato oltre un secolo. Dal terremoto dell’Ottanta quasi quarant’anni. Eppure quelle memorie continuano ad annebbiare occhi pieni di lacrime che per lenire il proprio dolore, hanno ipotecato il futuro di quei giovani per i quali il Governatore De Luca ha detto bisogna creare lavoro. Quei giovani, però, sono già partiti con un altro biglietto di sola andata, motivo per il quale la sfida politica attuale riguarda, piuttosto, i nipoti di questa generazione, ai quali dar risposte avendo l’onestà intellettuale di riconoscere, ad esempio, che un treno storico non è l’alta velocità né è la risposta a una cosa ben più ampia e complessa che si chiama diritto alla mobilità. Quel diritto che, ad esempio, permetterebbe di ridurre la pressione demografica sul capoluogo, cercando di redistribuire, in maniera più omogenea e sostenibile, abitanti e servizi sul territorio di una provincia che resta impraticabile, e vuota, per la maggior parte dell’anno.
È vero che “gli ingegni in Irpinia sono vivi”: lo abbiamo visto su quel treno, nella passione dei volontari, nell’amara bellezza del suo teatro vagante, nella voglia di esserci dei viaggiatori. Ma non si tratta che di una parentesi, una virgola appena accennata nella più ampia narrazione dei naturali cicli storici di luoghi così lontani da dio - e dal mondo - da non esservi festa o rito propiziatorio che tenga, per la loro assoluta salvezza: il dolore delle partenze e delle separazioni sussisterà sempre. Lo si potrà forse lenire cercando di ridurre le distanze dalla realtà, ma non cancellarlo.
Questa Irpinia, a differenza della suggestiva narrazione offerta dal cantastorie viaggiante da Lioni a Rocchetta, non è libera, per tanti motivi: potrebbe diventarlo, ma più che per il moto del treno scegliendo, definitivamente, di lasciare la sicura stazione del suo annichilente dolore per cercare di mettersi in viaggio coi mezzi necessari a sopravvivere.

domenica 13 agosto 2017

LICEO BREVE, LAUREA BREVE, IGNORANZA LUNGA

Il pensiero di Pier Franco Quaglieni su Linea di confine

Liceo breve, laurea breve, ignoranza lunga  

In  pieno periodo di vacanza scolastica il ministro dell’istruzione Fedeli che dovrebbe traghettare la “buona scuola” di Renzi verso  lidi meno agitati, lancia a livello sperimentale la scuola media superiore breve, di appena quattro anni, tornando allo schema  degli istituti magistrali e dei licei artistici modulati sui quattro anni di corso. Questo schema si rivelò del tutto insufficiente perché non preparava in modo adeguato, riducendo i programmi scolastici a cenni  e impedendo un qualunque approfondimento. Per definire una cultura superficiale, si parlava  infatti di maestrine elementari alle quali era consentito il percorso universitario solo al Magistero,una università di serie b. Anche gli allievi dell’artistico potevano proseguire solo all’Accademia di Belle Arti che si insiste ad equiparare  immotivatamente ad Università. Altrimenti maestri ed artisti, per proseguire, dovevano frequentare un anno in più definito  propedeutico alla frequenza universitaria. Ora sembra che di voglia tornare al vecchio, mentre la scuola del facilismo si è rivelata del tutto fallimentare. Si tratta di un esperimento che è facile prevedere fallimentare. La scuola necessita di interventi seri e non improvvisati. Il liceo breve farà coppia con l’università breve di tre anni dove  si consente ad infermieri, massaggiatrici, igienisti dentali di farsi chiamare dottore. Un’aberrazione voluta dal ministro Luigi Berlinguer  che ha provocato il degrado dell’Università ridotta a liceo. Dal 2018/19 avremo anche il liceo ridotto a scuola media. Non c’era in effetti bisogno  del ministro Fedeli per raggiungere questo obiettivo perché la scuola superiore si era già  ridimensionata e abbassata di livello dal ’68 in poi con la desertificazione degli studi  e il diritto al titolo di studio confuso con quello allo studio che è tutt’altra cosa. Berlinguer propose  di centrare almeno  l’obiettivo dei ”saperi minimi“, una vera e propria follia perché a minimizzare i saperi ci pensa autonomamente il fluire del tempo e il logorio della memoria. Da molti anni sforniamo giovani ignoranti che non sanno parlare e scrivere in modo adeguato e sono profondamente incolti. Con l’idea balzana  del ministro Fedeli finiremo nell’abisso. E avremo magari il primato di dottorini  ventenni. Forse nessuno ricorda più Ivan Illich che animò il dibattito sulle descolarizzazione degli Anni ’70 del secolo scorso. Le sue tesi vedevano nella scuola un male, voleva una società descolarizzata, una vera utopia  velleitaria che, se realizzata, avrebbe ricacciato indietro il vivere civile. Il ”68 provocò  effetti distruttivi che crearono la crisi delle istituzioni scolastiche e ne provocarono l’inefficacia. Che la Fedeli abbia letto, in qualche ritaglio di tempo libero dall’attività sindacale e politica, la voce relativa ad Illich  su Wikipedia?

domenica 30 luglio 2017

CON GIORDANO BRUNO A PRAGA - 1588



Con Giordano Bruno a Praga (1588) III.
Prima di lasciare Wittemberg e incamminarsi per Praga, Giordano Bruno diede alle stampe il Camoeracensis Acrotismus nel quale vi polemizza con le nozioni aristoteliche di infinito, spazio, tempo e moto. Copia ne fu dedicata all'astronomo e scienziato danese Tycho de Brahe stipendiato da Rodolfo II. L'ammirazione che Bruno aveva per le ricerche dello scienziato non fu ricambiata perché Bruno in realtà con le sue idee sovvertiva le certezze di Brahe - semplicemente aveva filosoficamente sviluppato i risultati delle sue osservazioni in una direzione troppo radicale (ma Keplero invece capì). Brahe commentò storpiando il nome di Giordano Bruno da "Nolanus" in "Nullanus".
Il libro in questione si trova alla Národní knihovna di Praga - il Klementinum e contiene la firma del filosofo italiano.
De Brahe morì a Praga il 24 0ttobre 1601 in seguito ad una acuta crisi renale giunta durante un lauto banchettare e grande bevuta in casa del nobile Petr Vok di Rosenberg al Castello di Praga.
In ceco si dice "bere come un Danese".


(Nelle foto la casa di Tycho de Brahe a Nový Svět vicino al Castello e la pietra tombale diTycho de Brahe nella chiesa di Týn)


(Testo e foto di Andra Louis Ballardini)











lunedì 17 luglio 2017

FRANCO ARMINIO, POETICA DEL RANCORE

Sarebbe una buona cosa uscire in piazza e sentire gente che muove alti pensieri e scalpita e si appassiona a progettare il futuro. E invece dobbiamo spendere il nostro tempo per cincischiare sulle nostre miserie. Ormai qui siamo tutti operai della vasta e ineffabile fabbrica del lamento. Il dispetto, il rancore, la diffidenza verso tutti e tutto sembrano l’unico modo rimasto per tenersi a galla. Litigano quelli che si oppongono alle pale, litigano i ferventi di padre Pio sull’ubicazione della statua, litigano quelli che hanno sostenuto l’amministrazione e quelli che l’avversano. L’unica cosa che è diminuita sono i litigi tra i vicini di casa, per il semplice motivo che ora la gente è tutta sparpagliata.Qui la passione dominante è l’interdizione, l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni. Se costruisci un gruppo che produce qualcosa di buono subito viene fuori il dissenso, il ronzio di chi avanza riserve, cavilli. E chi non si mette di traverso in modo palese lo fa, vigliaccamente, in maniera obliqua, criptica. Più che il conflitto, l’irpino preferisce agire con l’indifferenza, il diniego, il far finta che il bene che fanno gli altri non esiste. Io sono rimasto qui per registrare questi movimenti. Ci sono delle giornate in cui certi atteggiamenti mi feriscono profondamente, poi però mi riprendo, in fondo questa avversione è il tonico che mi fa andare avanti, che mi impedisce di addormentarmi. Il sud dei paesi sta morendo proprio perché è in mano alla lobby dei vigliacchi. Perché sono loro a tenere in mano le piazze, sono loro a decidere a chi dare la pensione, a chi togliere la multa, a chi consentire questo o quell’abuso. La loro abilità maggiore è nel far credere che siamo tutti uguali, che la vigliaccheria è nel cuore di tutti e invece è solo un’anomalia della maggioranza. Ci sono ancora i coraggiosi, gli eroi, a volte ci vengono vicino ma non sempre riusciamo a riconoscerli, magari proprio perché distratti a occuparci delle vigliaccherie che subiamo.Questa è un’epoca che ha disperatamente bisogno del nostro amore, della nostra speranza, ha bisogno del coraggio di opporsi, di lottare contro la meschinità imperante. Il segreto per una giornata lietamente rivoluzionaria è riuscire a vedere che le montagne sono ancora piene di alberi e che ci sono cuori clementi agli angoli delle strade e ci sono albe e tramonti, c’è l’acqua del mare e il grano che cresce. Tuttavia, questa affezione per il mondo va sempre incrociata con una fortissima allergia al compromesso, all’intrallazzo. Bisogna unire la capacità di percepire la bellezza del mondo e di lottare contro chi ogni giorno tenta di impoverirla, di svilirla. È ora di tenere insieme la tensione politica e quella poetica, la contemplazione e il conflitto. I luminari del rancore ci vorrebbero rassegnati alle misere finzioni della vita sociale oppure chiusi nei freddi loculi del nostro io. No, questa è un’epoca da attraversare ad occhi aperti, con sguardi spericolati, mossi in ogni direzione. Il rancore alla lunga rende sterili, ci allena alla conservazione di ciò che non abbiamo. I rancorosi non conoscono la cordialità, la mitezza, non sanno usare il metro della clemenza. Infervorati come sono nelle loro accidie, nelle loro pretese, hanno interiorizzato il disagio, la disaffezione. La loro postura è fatta per claudicare, non per il passo spedito, il gesto aperto. La loro giornata è tutta trapuntata di inadempienze, di incomprensioni. Ognuno è scambiato per un altro, e in genere lo scambio avviene al ribasso. La vita dei rancorosi consiste in una perenne edificazioni di muri, di cancelli. La loro poetica è stare lontani dagli stati estremi, accucciati a scambiarsi una pappina psichica che non serve a niente. Vivono tenendosi costantemente al riparo dalla vita. Rimangono contratti, sospettosi, come se l’universo fosse un cane che li punta e sta per morderli da un momento all’altro. Tutt’al più procedono al piccolo trotto, in un traccheggio prolungato. Prevalgono le posizioni difensive, gli slanci millimetrati. Spendere il proprio tempo per gli altri è considerato quasi un segno di malattia, un gesto folle, sconsiderato, incomprensibile. Si lamentano per conformismo, per appartenere al gregge oppure per fingersi pastori. Forse quello che noi chiamiamo sud avrà una speranza di salvezza se saprà mettere questa gente con le spalle al muro, se saprà amare i bizzarri, gli inventori, gli estrosi, i poeti e i cuori affamati di amore.







 Nelle immagini: Trevico

venerdì 7 luglio 2017

MARATONA FENOGLIANA


Quest'anno protagoniste saranno le Donne nella letteratura di Fenoglio. Se volete dare voce alle parole di Beppe iscrivetevi come lettori via mail a: info@centrostudibeppefenoglio.it fino al 31 agosto

lunedì 3 luglio 2017

sabato 17 giugno 2017

ISTRUZIONI PER L'USO DELLA GIOIA - FRANCO ARMINIO


La gioia non è un risultato,
un fatto, una cosa, un luogo.
La gioia crea spazio, scioglie,
fa il vuoto.
Per conservare la gioia non serve
un barattolo, ma un patto,
devi decidere che la gioia
è la strada della tua vita.
Dunque non cercare la gioia
successiva, sappi che te ne basta una,
una qualsiasi. Ecco, tienila, considera
che è la tua casa.
Il dolore arriverà, ma intanto sappi
che la gioia scioglie nodi
e questo non potrà farlo
l’uragano del dolore, il dolore
ti schiaccia, ti zavorra,
ti fa un mendicante di pesi,
mentre la gioia conosce solo l’alfabeto
della leggerezza.
Non pensarla la gioia, sentila,
è una fioritura nella carne,
è il maggio delle ossa,
l’aprile degli occhi.


FRANCO ARMINIO
(Scritta dall'autore su un treno andando a Biccari)

 

venerdì 16 giugno 2017

LA LIBERTA' DI SCRIVERE

“Tutto quello di cui c’è bisogno perchè il commercio giunga al suo massimo grado di prosperità è lasciar fare. Ma tutto ciò di cui c’è bisogno perchè lo spirito umano giunga al massimo grado di attività, profondità e giustizia è lasciar scrivere”. (Benjamin Constant)

lunedì 29 maggio 2017

PAPA LEONE XIII, PERUGIA E BENEVENTO

Forse pochi sanno che Leone XIII, al secolo Vincenzo Gioacchino Pecci, prima di essere eletto alla cattedra di Pietro nel 1878, è stato per 3 anni delegato pontificio a Benevento (1838-1841) e per 31 anni Arcivescovo di Perugia (1846-1877). Primo Pontefice romano ad essere filmato, Leone XIII è passato alla storia per aver dato alle stampe, nel 1891, la "Rerum Novarum", la prima enciclica di un Papa sulla questione sociale.

E. T. 

mercoledì 17 maggio 2017

100 ANNI FA NASCEVA IL PRIMO FRANCOBOLLO DI POSTA AEREA


Un primato tutto italiano. Il 22 maggio 1917 un biplano portò da Torino a Roma cento copie de La Stampa. Per l'occasione nacque la prima affrancatura di posta aerea. Il pilota che inaugurò la posta  aerea si chiamava Mario De Bernardi.

VITA DI GERTRUDE BELL, LA DONNA CHE INVENTO' L'IRAQ

Girava in lungo e in largo con una macchinetta fotografica al collo, appassionata com'era di paesaggi ed antichità. Attraversava i deserti con una carovana di cammelli, sui quali caricava di tutto: vestiti, scarpe, e persino una vasca da bagno. Veniva accolta dappertutto dagli arabi, che la chiamavano "Al Khatuna", "La Signora". E parlando parlando con loro, anche negli harem, con le mogli dei capi, carpiva segreti che erano preclusi a qualsiasi spia britannica. Sì, perché Gertrude Bell (1868-1926) era una spia. Grazie al documentario Letters from Baghdad, girato da due americani, Sabine Krayenbhül e Zeva Oenbalum, finalmente emerge la storia particolare di questa donna quasi dimenticata, ma che ebbe un grosso ascendente su Churcill e su Lawrence d'Arabia, allorché,nel 1921, si trattò di plasmare il nuovo Stato dell'Iraq, con confini ed istituzioni voluti da lei. Al punto che i giornali londinesi titolarono: "Il destino del Paese è nelle mani di due uomini e una donna".
In anni recenti Nicole Kidman ha interpretato la sua storia, ma ora il documentario approfondisce molti aspetti, servendosi delle foto scattate da Gertrude Bell e delle sue 1700 lettere.
Il documentario è girato in bianco e nero.
Da ricordare che Gertrude Bell fondò il museo di Baghdad, che è stato saccheggiato durante la guerra del Golfo nel 2003 ed è stato riaperto da poco tempo con l'aiuto dell'Italia.

martedì 25 aprile 2017

LIBERARE I PAESI DALLE ABITUDINI

Bisogna starci, nei paesi.
Bisogna arrivarci, nei paesi. Bisogna camminarli, attraversarli, parlare con i vecchi, con un cane, con un papavero che sta sul ciglio della strada.
La vera liberazione - in un paese - è quella dall'abitudine, dal parlare sempre con le stesse persone, vedere le cose sempre con gli stessi occhi e produrre - sempre - gli stessi sguardi. Dobbiamo liberare i paesi dalle abitudini. Dobbiamo liberare i paesi da quelli che qualche illuminato ha definito il "ripetente" e lo "scoraggiatore militante": colui che ripete sempre le stesse cose, lo stesso ruolo, dice le stesse cose con la medesima voce stridula e colui che declina il mantra del "non cambierà mai niente" o del "qui non c'è nulla".
I paesi hanno bisogno di costanza e ardimento; i paesi hanno bisogno - come l'acqua - di altri occhi con cui guardare le cose del paese; i paesi hanno bisogno di connessioni con le altre comunità e con le persone che li abitano; i paesi hanno bisogno di sperimentazioni e di invenzioni: i paesi devono liberarsi della "coazione a ripetere".
I paesi devono liberarsi del mito della lamentazione: devono dire cosa possono fare loro per il mondo e non cosa vorrebbero che il mondo facesse per loro (e che il mondo non farà perché mai lo ha fatto).
I paesi si devono liberare della vergogna di parlare la propria lingua, della vergogna di avere le mani sporche di terra, della vergogna di dire le poesie ad alta voce e di cantare le canzoni nei bar.
I paesi si devono liberare dei medici che non curano, dei politici che non ascoltano, dei preti che non pregano. 

(Franco Arminio)

sabato 22 aprile 2017

IL FELICE MATRIMONIO DEL RIFORMATORE HEINRICH BULLINGER CON UNA MONACA

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Di

Il 30 settembre 1527 un messo consegna al convento di Oetenbach una lettera che cambierà per sempre la vita di Anna Adlischwyler. L’ha scritta il pastore Heinrich Bullinger, un compagno del riformatore Huldrych Zwingli.

«Tu se l’unica che ho per la testa», confessa Bullinger alla giovane suora nella lettera. Il pastore dice di voler vivere e condividere tutto con lei. «Sei giovane e Dio non ti ha dato il tuo corpo perché tu rimanga per sempre suora e non faccia nulla perché porti frutto», scrive. Dopo una lode del matrimonio, aggiunge: «Leggi la lettera tre o quattro volte, pensaci e prega Dio che ti faccia conoscere la sua volontà».
Ancora pochi anni prima una lettera del genere sarebbe stata impensabile. Ma dopo la Riforma neppure Zurigo è più come prima. I preti si sposano e le monache, che hanno dedicato la loro esistenza a Dio, voltano le spalle alla vita in convento. Anche il riformatore tedesco Martin Lutero ha sposato una suora, 16 anni più giovane di lui.

Invettiva contro il «predicatore briccone»

A Zurigo già nell’estate 1522 Zwingli ha detto in una predica che la vita conventuale non è basata sulla Bibbia. Ma molte monache non conoscono altro, perché le loro famiglie le hanno mandate in convento che erano ancora bambine. Per questo alcune di loro sono indignate contro la decisione del governo cittadino di nominare il riformatore Leo Jud loro assistente spirituale. Inveiscono contro questo «predicatore briccone», che dicono inviato dal diavolo. Una di loro arriva persino a minacciare di «defecare nel suo evangelo».
Tra i cattolici e i protestanti scoppia un’aspra contesa per conquistare le anime di queste pie donne. Monaci predicatori cattolici tentano persino di scavalcare le mura del convento con scale a pioli per leggere la messa alle suore.

Il governo cittadino lascia la scelta alle suore

Nell’estate del 1523 il governo fa sapere che le monache possono scegliere: potranno sposarsi e vivere in una casa onorata oppure restare in convento. Due anni dopo il convento di Oetenbach è chiuso ufficialmente.
Ventotto suore scelgono la vita secolare. Possono portare con sé i loro abiti e i loro mobili e la città restituisce loro le prebende che le famiglie hanno versato al convento. Anche il denaro che hanno investito per ristrutturare le loro celle viene loro risarcito.
Quasi la metà delle suore trova presto un marito, una di loro sposa persino il cappellano del duomo cittadino, il Grossmünster. Questo matrimonio suscita però grandi polemiche. Molti zurighesi ritengono che non si possa fare, che sia un grave scandalo. Alcuni ne parlano come di un’infamia. Poesie ingiuriose sono appese ai muri, non si sa da chi.
Quattordici suore decidono di rimanere fra le mura del convento. Dovranno però portare abiti civili, frequentare la predica riformata e lavorare, come tutte le «donne onorate». Una di loro è Anna Adlischwyler, che ora deve decidere se accettare la proposta di matrimonio di Heinrich Bullinger.

La madre di Anna si oppone

I due si fidanzano il 29 ottobre 1527 nel Grossmünster. Bullinger torna al suo lavoro nel convento di Kappel, ma la madre di Anna manda all’aria i suoi piani. Se sua figlia si sposa, allora la vedova benestante vuole che almeno lo faccia con un partito migliore del figlio illegittimo di un prete. Anna è una figlia obbediente e prega il fidanzato di sciogliere la promessa di matrimonio.
Bullinger è fuori di sé. In una lettera implora Anna di sposarlo e di non esporlo al ridicolo. Poi le manda il suo amico Zwingli per cercare di farle cambiare idea. Invano.
Non a torto Bullinger teme che la madre possa promettere Anna a qualcun altro. Per questo ricorre al tribunale matrimoniale di Zurigo. Anna deve ammettere di aver promesso a Heinrich di sposarlo, ma ricorda anche di aver sempre detto di non voler far nulla contro la volontà della madre.

Bullinger deve portare pazienza

Zwingli, presente come testimone, aiuta come può il suo amico. Anna gli ha detto che la madre vorrebbe «darle un ricco, ma lei non lo vuole», assicura. Nell’estate 1528 il tribunale sentenzia che il fidanzamento è vincolante e che di conseguenza «Anna non può contrarre matrimonio con nessun altro uomo». Ciononostante Heinrich deve aspettare un altro anno.
Anna lo sposa solo sei settimane dopo la morte di sua madre. Il giorno del matrimonio Bullinger le dedica una poesia, in cui la chiama «imperatrice» e le assicura: «Ora sono calmo, ora sto bene, se io, amor mio, posso essere vicino a te».
È un matrimonio felice, per quanto si possa giudicare oggi. La coppia avrà 11 figli. Nel 1531 Bullinger succede a Zwingli nel ruolo di predicatore nel Grossmünster, sua moglie regge le sorti di una casa aperta a molti ospiti.
Quando dopo trentacinque anni Anna muori di peste, Henrich è inconsolabile. Con un amico si lamenta: «Tu sai che il Signore ha chiamato a sé il bastone della mia vecchiaia, la mia prescelta, la mia fedele moglie, tanto timorata di Dio. Ma Dio è giusto e il suo giudizio è giusto».


martedì 18 aprile 2017

BEPPE FENOGLIO E CONSORTE, RARA IMMAGINE D'EPOCA

(Centro Studi Beppe Fenoglio)

Era il 28 marzo 1960, un lunedì di inizio primavera quando Beppe e Luciana si sposano in Comune ad Alba. E' un rito civile, sono i primi in città a volerlo e grazie a loro vengono istituiti i registri per i matrimoni civili.
Nell'immagine i coniugi Fenoglio in uno scatto di A. Agnelli, archivio Centro studi Beppe Fenoglio.

 Viaggio di nozze a Ginevra

2017, UN ANNO RICCO DI ANNIVERSARI



10 anni dell’IPhone

20 anni della morte di Madre Teresa di Calcutta

20 anni della morte di Lady Diana

30 della prima puntata dei Simpson

30 anni della morte di Andy Warhol

30 anni della morte di Primo Levi

40 anni di Guerre Stellari

50 anni della morte di Totò

60 della prima Fiat 500

60 anni del lancio della cagnetta Laika nello spazio

80 anni della morte di Lou Salomé

100 anni della nascita di Kennedy

100 anni della Rivoluzione di Ottobre

100 anni della disfatta di Caporetto

150 anni della nascita di Luigi Pirandello

150 anni della nascita di Marie Curie

500 anni della Riforma Luterana

STUDENTI CONTRO L'ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO

lunedì 17 aprile 2017

CEDI LA STRADA AGLI ALBERI


(frammenti di un discorso ecologico dalla casa della paesologia)

di FRANCO ARMINIO
Non ti affannare a seminare noie e malanni nelle tue giornate e in quelle degli altri, non chiedere altro che una gioia solenne. Non aspettarti niente da nessuno e se vuoi aspettarti qualcosa, aspettati l’immenso, l’inaudito.
Trovati uno scalino, riposati con la faccia al sole. Se c’è qualcuno che parla ascoltalo. Per tornare a casa aspetta che sia sera. Usa il buio come un fiocco per chiudere la giornata e fanne dono a chi ti vuole bene.
Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. Vai a fargli visita prima di partire e quando torni. Stai all’aria aperta almeno due ore al giorno. Ascolta gli anziani, lascia che parlino della loro vita. Fatti delle piccole preghiere personali e usale. Esprimi almeno una volta al giorno ammirazione per qualcuno. Dai attenzione a chi cade. Leggi poesie ad alta voce. Fai cantare chi ama cantare. Prova a sentire il mondo con gli occhi di una mosca, con le zampe di un cane.
Il bene quando c’è dura assai poco, in genere svanisce il giorno dopo. Girati verso il muro, verso il sole che illumina una faccia qualsiasi. Festeggia appena puoi il minuto più inutile della tua vita.
Spesso gli uomini si ammalano per essere aiutati. Allora bisogna aiutarli prima che si ammalino. Salutare un vecchio non è gentilezza, è un progetto di sviluppo locale.
Camminare all’aperto non è seguire il consiglio del medico, è vedere le cose che stanno fuori, ogni cosa ha bisogno di essere vista, anche una vecchia conca piena di terra, una piccola catasta di legna davanti alla porta, un cane zoppo. Quando guardiamo con clemenza facciamo piccole feste silenziose, come se fosse il compleanno di un balcone, l’onomastico di una rosa.
Mai vista una primavera così bella, la luce sembra impazzita, è un diamante la testa del serpente, il silenzio concima le ginestre, sono quieti i paesi da lontano. Non insistere a dolerti, ogni albero è tranquillo e felice di vederti.
Camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che un giro nei dintorni, uscire perché fra poco esce il sole, perché una giornata qualsiasi è il tuo splendore. Pensa, hanno già spezzato una zampa a un cane, una foglia è caduta. Fatti girare la testa velocemente e poi fermala, apri gli occhi a caso: davanti a te c’è una scena del mondo una qualunque, vedi quanto è preziosa, vedila bene, con calma, tieni la testa ferma, rallenta il giro del sangue. Che meraviglia che sia mattina, che abbia smesso di piovere.
C’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia.
Molte albe, molte gentilezze, festeggiare molto spesso la luce, poco avere, scarsi indugi, minare il rancore, farlo saltare, meglio il silenzio, la carezza, il fiore.
Per stare bene non ci vogliono i medici, ci vuole una passione senza fine. Abbiamo bisogno di cose profonde e invece zampettiamo in superficie. Chi è chiuso nelle grandi malattie lo sa bene quanta vita sprechiamo noi che stiamo bene.
Sento che siamo arrivati ai giorni semplici. Ora si può credere a quello che ci accade,
credere all’aria che ci accoglie quando usciamo e al saluto di chi incontriamo, alla notte che viene, alla luce che rimane, credere che non c’è malattia fino a quando parliamo con la nostra voce, fino a quando lottiamo con gioia. Attraversiamo con fiducia ogni scena del vivere e del morire, facciamo di ogni fatica una fortuna, andiamo dentro le ore senza saltarne una.
Punta sulla nuvola e su altre cose mute, non tue, non vicine, non addestrate a compiacerti, punta sulla morte, anche sulla morte, sulla sua decenza, sul fatto che non ritratta niente, punta sulla luce, cercala sempre, infine punta sulla tua follia, se ce l’hai, se non te l’hanno rubata da piccolo.
La notte scorsa nel mondo sono morte tante persone. Noi no. È bene ricordarsi ogni tanto il miracolo di stare nella luce del giorno, davanti a un albero, a un volto.
Non so quando è accaduto il massacro di ciò che è lieve, lento, sacro, inerme.
Adesso per tornare a casa, per tornare assieme nella casa del mondo,non serve la rabbia, non serve lo sgomento, basta sentire che ogni attimo è un testamento.
Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba, dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia con il pane e la luce, con la muta lussuria di una rosa.
Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

domenica 2 aprile 2017

A FRANCESCO DE SANCTIS, NEL BICENTENARIO DELLA NASCITA

di ANGELA MARTINO

Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 28 marzo 1817- Napoli, 29 dicembre 1883), oltre ad essere stato grande storico e critico letterario, giornalista ed insegnante, fu un ardente patriota, deputato e ministro della Pubblica Istruzione, il primo ministro dell’Istruzione dell’Italia Unita.
Intendiamo rimarcare il suo patriottismo, il sacrificio, le sofferenze e il dolore di un uomo che seppe essere un grande letterato ed offrire il suo notevole contributo alla causa nazionale, diventando il primo ministro della Pubblica Istruzione dell’Italia Unita. Lo ritroviamo, pertanto, nei primi movimenti insurrezionali del 1848 con alcuni suoi alunni durante la tragica giornata del 15 maggio 1848 in cui si batté strenuamente nelle barricate a Napoli. A tal riguardo sono esemplari le sue parole rivolte ai suoi allievi: “Ma che? La nostra scuola è per avventura una Accademia? Siamo noi un’Arcadia? No, la scuola è la vita” .
Quindi, successivamente, scrisse: “Quando venne il giorno della prova, e la patria chiamò, maestro e discepoli entrammo nella vita politica, che conduceva all’esilio, alla prigione, al patibolo, e i miei discepoli affermarono questa grande verità che la scuola è la vita, chi con la morte, chi con la prigione, chi col confino, chi con l’esilio, ed io, io seguii le sorti dei miei discepoli, gioioso di partire con loro”.
In effetti, il grande letterato e patriota, durante la sanguinosa giornata del 15 maggio, fu fatto prigioniero dai soldati svizzeri e rinchiuso in fondo ad una nave da guerra, che si trovava nel porto. Egli venne poi rilasciato, in seguito all’indulto del 17 maggio, ma non dimenticò i suoi discepoli che avevano trovato la morte, fra cui il più amato, Luigi La Vista, lucano, ucciso dai soldati svizzeri a Napoli, in piazza Carità.
Successivamente fece parte della “Setta dell’Unità d’Italia” di Luigi Spaventa e Luigi Settembrini, ma il 3 dicembre dell’anno 1850 Francesco De Sanctis fu arrestato per ordine del generale Alessandro Nunziante, subendo due anni e nove mesi di prigionia nella prigione di Castel dell’Ovo. Tale punizione, che considerava ingiusta ed inaccettabile, gli fecero scrivere delle parole straordinarie sulla necessità del dolore per il progresso dell’umanità.
“Il dolore, la fatica, il male e la morte sono le condizioni essenziali, che rendono possibile l’esplicazione progressiva dello spirito…Gli individui soffrono: l’umanità vince…Offriamo con orgoglio i nostro dolori alle future generazioni…Il dolore umano è seme di libertà, né alcuna stilla di sangue è sparsa indarno”.
Francesco De Sanctis, in seguito all’istruttoria, affidata a Cristiano Giambarba, commissario della delegazione marittima, fu riconosciuto innocente, ma fu liberato solo nell’agosto del 1853 per essere condannato all’esilio perpetuo da Ferdinando II. Pertanto il 3 agosto del 1853 fu imbarcato sul piroscafo Hellspont, per essere trasportato negli Stati Uniti d’America. Egli, tuttavia, sbarcò a Malta e, invece di vivere il suo esilio nell’isola, preferì raggiungere il Piemonte , la città di Torino. Qui ritrovò il suo discepolo Angelo Camillo De Meis, con cui si confronterà sulla necessità della continuazione della politica rivoluzionaria mazziniana o sul prendere atto che politicamente bisognava adeguarsi ad una visione più realistica per il raggiungimento dell’Unità e dell’Indipendenza , guardando alla politica di Cavour con occhi più attenti.
A tal riguardo lo storico Sergio Landucci ha ravvicinato la parabola politica del De Sanctis a quella di Daniele Manin nel senso che lo stesso De Sanctis chiarirà in tal modo: Cos’è l’uomo politico? E’ quello il quale ha una conoscenza adeguata dello stato di fatto in cui si trova il paese, e lasciando gli ideali ai filosofi, sa trovare le idee concrete attuabili in quelle condizioni” . De Sanctis aveva conosciuto il sacrificio, le sofferenze, il dolore delle idealità, ma prendeva atto delle tante sconfitte, di cui l’ultima, più terribile, fu quella del grande Carlo Pisacane, assassinato dagli stessi contadini che voleva liberare, aizzati dal clero oscurantista e dalla reazione borbonica.
Da grande patriota quale era stato, Francesco De Sanctis voleva recarsi anche a combattere contro l’Austria nel 1859, ma era un uomo già provato e non poté parteciparvi. Quando fu concessa la costituzione nel Regno di Napoli, De Sanctis si decise a ritornare nella sua terra. Era terminato il suo lungo esilio di sofferenza patriottica. Giunse a Napoli il 6 agosto 1860 con Camillo De Meis. Il 9 settembre 1860 fu nominato Governatore della provincia di Avellino. De Sanctis fu eletto parlamentare nella circoscrizione di Sessa Aurunca. Nel marzo del 1861 diverrà il titolare del dicastero della Istruzione Pubblica nel primo ministero dell’Italia Unita.

Fonte: www.comunedipignataro.it

venerdì 31 marzo 2017

APPASSIONATEVI ALLA VITA PERCHE' E' DOLCISSIMA

"Voi cambierete il mondo e non lo lascerete cambiare agli altri. Appassionatevi alla vita perché è dolcissima. Mordete la vita. Non accantonate i vostri giorni, le vostre ore, le vostre tristezze con quegli affidi malinconici ai diari. Non coltivate pensieri di afflizione, di chiusura, di precauzioni. Mandate indietro la tentazione di sentirvi incompresi. Non chiudetevi in voi stessi, ma sprizzate gioia da tutti i pori. Bruciate… perché quando sarete grandi potrete scaldarvi ai carboni divampati nella vostra giovinezza. Incendiate… non immalinconitevi. Perché se voi non avete fiducia, gli adulti che vi vedono saranno più infelici di voi. Coltivate le amicizie, incontrate la gente. Voi crescete quanto più numerosi sono gli incontri con la gente, quante più sono le persone a cui stringete la mano."

(Don Tonino Bello)

mercoledì 29 marzo 2017

ROSETO E ALBERONA (FG)

Dunque: Alberona.
Dappertutto scritte ''Alberona. Località turistica. I borghi più belli''. Però, se capitate - come me - il martedì, scordatevi di trovare un solo ristorante aperto tra tutti quelli (e sono molti), nei quali avreste potuto mettere piede.
Palazzi signorili in gran quantità e anfratti, vicoli, scale e scalinatelle effetto anticellulite per chi ci abita e per quanti vi si trovano di passaggio. Una larga via centrale. Compresa tra due chiese belle ed importanti, ed un centro storico medievale che evoca nella toponomastica nomi sabaudi: via Vittorio Emanuele II e Piazza Umberto I. Senso civico non carente, vista la quantità di lapidi commemorative sui muri e la copia di associazioni culturali che pullulano nel centro. Aria frizzante e vista mozzafiato sulla vallata circostante. Un particolare: enormi quantità di panni stesi ad asciugare. Tra le piazze, nei vicoli, tra un palazzo e un altro... Buona la segnaletica dei luoghi da visitare e addirittura un ufficio del turismo in centro.
Comunque, per mangiare, ed erano quasi le tre, sono dovuta andare a Roseto, dove un sant'uomo ha l'unica trattoria del paese aperta in centro, vicino ad una bella chiesa che guarda il lunghissimo corso Roma che, da solo, costituisce quasi il paese intero. Icone e statue di santi e madonne ad ogni pié sospinto. Vi accoglierà una bella targa: il paese della Madonna, dei fiori e del miele.
Hanno dimenticato di citare le strade infami per arrivarci e la devastazione del territorio ad opera delle pale eoliche, di ogni foggia e dimensione, addossate le une alle altre, in un numero che supera quello dei residenti di entrambi i paesi.
Turismo zero.
Con questi presupposti...
Il paese produce tartufo bianco e tartufo nero, ma non vi è la mentalità giusta per cucinarli nel modo corretto e per commercializzarli (una curiosità: i rosetani vengono chiamati "cap'e puorc(h)'' - teste di maiale, per la loro cocciutaggine e l'essere restii all'innovazione).
Destini di paesi di confine. Al confine tra due provincie, lontane da entrambi i capoluoghi e perciò abbandonati a sé stessi.
La nota positiva è l'estrema pulizia di questi siti.
Altra nota è la bellezza del paesaggio nel quale sono immersi.
Sembrerebbe davvero di navigare in un'altra epoca, se quelle orribili e inutili pale eoliche non ti ricordassero che sei nel XXI secolo...



venerdì 17 marzo 2017

MUSEO DEL RISORGIMENTO, RIAPRE LA CAMERA DEI DEPUTATI

La Camera dei deputati del Parlamento Subalpino - Museo del Risorgimento - riaperta al pubblico oggi dopo 30 anni (foto Valerio Minato).



lunedì 20 febbraio 2017

HO VISITATO UNA SCUOLA SVIZZERA, E SONO RIMASTO SCONVOLTO


Maestro e giornalista

(Il Fatto Quotidiano)


Nelle scorse settimane mi è capitato di visitare una scuola secondaria di secondo grado svizzera. Un’esperienza sconvolgente.
Intanto ad accompagnarmi nel tardo pomeriggio di un giorno festivo è stata una professoressa perché lì tutti i docenti possono entrare a qualsiasi ora del giorno e della notte: con una chiave elettronica l’amica docente ha aperto ogni porta, da quella d’ingresso a quella del laboratorio d’arte a quella della mensa.
La prima tappa è stata l’aula insegnanti: un’accogliente stanza con divani, poltrone, quotidiani, riviste, una bacheca con gli appuntamenti culturali della città e della scuola, un angolo cottura e una scrivania con tanto di personal computer per ogni professore. “Prepariamo qui le nostre lezioni. Questo è un luogo dove possiamo studiare, formarci, scambiarci materiale e informazioni”, mi ha spiegato la collega elvetica.
Per loro c’è anche una mensa gestita insieme a quella dei ragazzi: tavoli e sedie comode, un self service all’avanguardia, un’illuminazione moderna e per chi non vuole spendere c’è una sala con dei forni a disposizione per riscaldare il cibo portato da casa.
Senza parlare del teatro, moderno, attrezzato e dell’elegante emeroteca con inclusa una ludoteca aperta ai ragazzi e gestita da un’addetta che si prodiga per trovare sempre nuove proposte per i giovani studenti. Il tutto in un contesto pensato e progettato non certo dal tecnico comunale o dall’amico del sindaco ma dall’architetto Santiago Calatrava che ha pensato questo spazio in funzione dei ragazzi. Insomma una scuola che nasce per essere uno spazio educativo e non un antico palazzo trasformato in edificio scolastico.
Senza parlare delle aule e del laboratorio d’arte attrezzato come se fosse l’Accademia. Ma la cosa che più mi ha stupito è stata quella di non trovare un cuore, un “Ti amo”, un Marco + Eva o una qualsiasi altra incisione “rupestre” sulle sedie, sopra o sotto il tavolo, sul muro.
Ad un certo punto ho chiesto alla mia amica di portarmi nei bagni. Almeno lì ero certo che avrei trovato una scritta: ho pensato che finalmente liberi dall’oppressione dei docenti svizzeri, nel segreto del cesso, i giovani svizzeri sarebbero stati uguali agli adolescenti italiani. Delusione: non una sola incisione. Nulla.
A quel punto ho iniziato a farmi qualche domanda: perché in Italia dalla scuola “media” alle superiori non c’è un solo banco o cesso senza scritte? Perché i nostri ragazzi non sentono “loro” la scuola dove trascorrono la maggior parte del tempo? Che accadrebbe se anche in Italia ogni insegnante avesse le chiavi per entrare a scuola quando vuole? Perché nel nostro Paese le scuole sono vecchie, insicure, pericolose e a poche centinaia di chilometri da Milano sono progettate da architetti all’avanguardia? Quanto conta la scuola per gli svizzeri e quanto per gli italiani? Eppure noi abbiamo la “Buona Scuola”.

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