Inseguire le alzate di testa del variegato mondo del progressismo italiano costituisce un esercizio realmente complesso, di titanica pazienza e di ancor più dura sopportazione. Chi legge indossi i nostri panni: vorremmo discutere di storia e politica, classe e nazione, economia e Stato; contribuire alla crescita di un dibattito che nel tempo risulta sempre più articolato e perciò degno di attenzione e considerazione. A vent’anni (e rotti, ahinoi) vorremmo gettare ponti, costruire strade, rialzare il logoro e glorioso labaro della civiltà italiana e riportarlo dove merita, sostituendo alla viltà degli ultimi trent’anni il genio di trenta secoli.
Così però non è, e pertanto ci scusiamo in anticipo con il nostro unico padrone, il lettore. Dalle alte vette della teoria scendiamo a rotta di collo verso l’afa della pianura, nel grigio meriggio di un fine settimana di luglio. Cosa troviamo? L’ennesima iniziativa “umanitaria”, con hashtag e foto su Twitter d’ordinanza. L’inziativa de #magliettarossa andrebbe bellamente ignorata, visto che il promotore (quel don Ciotti che, secondo Vangelo, dovrebbe religiosamente valutare prima di scagliare per primo le pietre del j’accuse moraleggiante) e i vari aderenti costituiscono il meglio del nulla sinistrorso, l’intellighenzia senza intelligenza di un’area borghese e liberale che semplicemente schifa le masse e da esse (e da noi) è gentilmente ricambiata. D’altro canto, chi passa da Gramsci a Sua Santità Saviano I da Nuova York, chi ogni giorno dall’alto del pied-a-terre a Capalbio ruggisce contro i proletari lazzaroni, non merita altro che lo scherno e il silenzio. Oggi preferiamo il primo dei due rimedi.
Ci soffermiamo con la mano ferma del chirurgo che incide il bubbone soltanto per cogliere, ancora una volta, come si possa discendere senza problemi verso un abisso sempre più profondo e spaventoso, che inorridisce pensando a quanto tale schiatta abbia governato e saccheggiato l’Italia in ogni suo ramo per tre decenni. A maggior ragione, se si pensa che- seppur a eoni di distanza- le legioni del bene affondino le loro radici in un terreno “marxista” (ci perdoni la bonanima di Karl) e “operaio”, sintetizzato nel santino da portafoglio di Berlinguer (eh, quando c’era il piccì…).
Andiamo ai fatti. Ci informa Repubblica che
il 7 luglio è il giorno della magliette rosse, dunque, da portare sulla pelle per non dimenticare la tragedia dei migranti. Sono quelle che indossavano i bambini morti in mare, quelli riportati cadavere e fotografati sulle spiagge della Libia; quella del piccolo Alan recuperato morto poco dopo che il gommone sul quale viaggiava affondò nel settembre nel 2015; di rosso le mamme vestono i loro bambini prima della partenza sperando che, in caso di naufragio, quel colore richiami l’attenzione dei soccorritori.
Ora, ferma restando la decisa condanna alla tratta di esseri umani– che a costoro sfugge, in quanto il migrante per costoro è un simbolo e non un Uomo- quello che traspare è il classico minestrone di buonismo borghese, carità un tanto al chilo e retorica da parrocchia alla moda. Ci si aspetterebbe una forte presa di posizione sui meccanismi che portano alle tragedie nel Mediterraneo; un’analisi degli effetti dei fenomeni migratori sulle popolazioni di partenza e su quelle di destinazione; un ragionamento coraggioso in merito a chi profitta di tali orrori.
Invece nulla. L’uso ossessivo dell’infanzia morta come cardine propagandistico dovrebbe già dare il segno della bassezza dell’iniziativa. Ancora una volta, la manfrina pietosa svela la truffa pecoreccia di simili iniziative, antipolitiche e perciò liberaliorganiche alla narrazione delle classi dominanti reazionarie. I meccanismi di indignazione che pensavamo ormai appartenessero soltanto all’Inghilterra vittoriana e allo schifoso sistema sociale statunitense costituiscono invece l’unica forma di presenza nella scena nazionale di una legione di idioti e burattini, esponenti di una borghesia miserabile ancora in grado di annaspare con il suo tanfo di morte gli italiani. Vuoti a perdere, essi devono riempire con un impegno da sabato pomeriggio l’inutilità della loro esistenza, seguendo per convenzione da gregge i buoni maestri del moralismo più meschino.
Siamo pertanto soddisfatti che il colore scelto sia il rosso, lo stesso di due secoli di battaglie operaie, vessillo dell’orgoglio e delle lotte di generazioni di lavoratori. Indosso ai loro petti rachitici e alle panze strabordanti, in terrazzi altoborghesi e su fisionomie lombrosiane, il vermiglio accesso segnala meglio di mille articoli il pastello della loro infinita vergogna.