domenica 29 giugno 2014

AMORE E PSICHE, MITO E SIMBOLISMI

IL MITO

Un re e una regina hanno tre figlie e la più giovane si chiama Psiche. E' così bella che è ammirata da tutti a tal punto da far pensare che sia l'incarnazione di Venere, la dea della bellezza. Adorata da molti più della divinità troppo lontana, Psiche si sente sola perché nessun uomo ha il coraggio di amarla. Venere, gelosa di lei, ordina al figlio Eros, il dio dell'amore, di falra innamorare del più brutto degli uomini. Ma Eros, quando vede Psiche, se ne innamora egli stesso e sente che non può fare a meno di lei. Tuttavia, essendo un dio, deve nascondere la sua vera identità e può incontrarla solo al buio, senza che ella veda il suo volto. Psiche è felice con il suo misterioso amante, ma viene sobillata dalle sorelle, che la spingono a vedere il volto di lui, facendole credere che stia amando un mostro. Psiche decide allora di prendere un pugnale e una lampada per vedere l'amato in volto, e scopre un bellissimo giovan alato che dorme. Dalla lampada di Psiche, però, cade una goccia su Eros, che si sveglia. E che la punisce, con la pena maggiore che possa infliggere il dio dell'Amore: l'abbandono.
Psiche si mette, disperata, alla ricerca dell'amato, che la madre Venere, per punizione, ha intanto imprigionato. Psiche vaga disperata e medita di gettarsi in un fiume. Viene però salvata da Pan, dio dei boschi, che le consiglia di invocare il perdono di Eros. Psiche si presenta allora a Venere per cercare Eros, ma quando giunge presso la dea viene afferrata da due ancelle, Inquietudine e Tristezza, che la tormentano. Allora, Venere, la costringe ad affrontare delle prove: distinguere il grano dal loglio in un grande sacco, andare a prendere un fiocco della lana del vello d'oro di ferocissimi arieti, recarsi alla cascata del fiume Stige, all'ingresso dell'Inferno, e riempirne una ampollina di cristallo e poi recarsi da Persefone e ottenere da lei una fiala di elisir di bellezza che Venere desiderava per sé. Psiche supera tutte le prove grazie all'aiuto delle formiche, di una canna, dell'aquila di Giove e di una torre. Ma poi, ottenuto il filtro magico da Persefone, disubbidisce al consiglio ricevuto e apre la fiala, piombando in un sonno mortale. Eros, allora, che aveva visto tutte le prove che Psiche aveva superato, giunge a salvarla. La rapisce in cielo dove, dal loro amore, nasce una bambina chiamata Desiderio.

IL SIMBOLISMO

Il fatto che Psiche sia umana ed Eros divino ricorda che ogni amore è divino e umano insieme. Le prove che Psiche deve affrontare sono quelle che gli amanti si trovano sempre davanti, a cominciare dalle ancelle di Venere, Tristezza e Inquietudine, per passare alla divisione del grano dal loglio, che mischiati rappresentano la confusione di certi momenti, e che le formiche, simbolo del paziente lavoro ordinatore della natura, aiutano a districare. E poi ancora l'ariete, simbolo dell'impetuosità da domare.
Ma perché è proprio una canna di fiume ad aiutare Psiche a superare la prova dell'ariete dal vello d'oro? Perché un tempo si diceva che le canne, mosse dal vento, possano rivelare grandi segreti e la canna rappresentata da un geroglifico sta anche a rappresentare Orus, il dio solare risorto che era per gli Egizi il principio del futuro. La canna, allora, ci bisbiglia la verità, ci predice il futuro. E l'aquila, forse, non simboleggia lo slancio del pensiero intuitivo? Oggi, quando una persona non è molto sveglia, si dice di lei che non è un'aquila. Infatti, durante le prove che la vita ci fa affrontare, un'intuizione ci salva.
Ma perché in tanta difficoltà Psiche non segue il consiglio della torre e apre la fiala del filtro magico? Se non lo facesse Eros non arriverebbe. E' un pò come il mito del Paradiso terrestre: se l'uomo non avesse mangiato la mela saremmo ancora attaccati agli alberi, dotati di lunghe code.
Ma perché Psiche usa l'unguento fatato della bellezza quando era già bellissima? In quel momento viene sopraffatta dalla vanità, proprio alla fine della prova. Tuttavia la cosa importante è che Eros la salvi, nonostante non sia riuscita fino in fondo, il che vuol dire che non si è amati per la propria perfezione, ma, a volte, proprio per la propria debolezza. L'Amore salva, anche se non si superano tutte le prove.

LE BELLE COLLINE

(La Stampa) - Sia concesso anche a me, monferrino di antiche radici, rallegrarmi per l'ingresso, decretato dall'Unesco, di Monferrato, Langhe e Roero nel Patrimonio mondiale dell'umanità. Il riconoscimento, com'è noto, va ai "paesaggi vitivinicoli" del basso Piemonte, ed in effetti è la coltura della vite che li ha plasmati. Da secoli l'ascesa lineare dei filari sui fianchi delle colline - così dolci, così morbide - ha impresso alla natura una nuova forma di bellezza.
Una ordinata, geometrica scansione che sembra porsi metaforicamente al servizio, e al controllo, di una dionisiaca esuberanza. Molti sono infatti i vini spremuti da queste terre, in una allettante gradazione di colori, profumi e sapori. Hanno nomi misteriosamente evocativi: nebiolo, barbera, moscato, grignolino, ruché... Sono i vini che conferiscono riconoscibilità, e incremento economico, alle colline appena laureate. Ma essi aiutano ad apprezzare anche le tradizioni della cucina contadina, che da queste parti sa essere ad un tempo ruvida e superba. Non si possono dimenticare poi i segni incisivi lasciati nel paesaggio da una storia complessa ed accidentata: dai numerosi castelli eretti nelle età del ferro ai cippi che ricordano i caduti e gli episodi salienti di una guerra partigiana che qui fu particolarmente generosa.
Come trascurare infine la presenza immateriale ma segretamente feconda degli scrittori cresciuti tra queste colline? Basti ricordare, tra quelli che hanno illustrato il Novecento letterario, Pavese, Fenoglio, Arpino. Pavese che è considerato, come da suo espresso desiderio, cantore delle Langhe, ha percorso in realtà nell'arco della sua narrativa anche il Roero ("Paesi tuoi") e il Monferrato ("Il diacolo sulle colline"). Fenoglio si è rinserrato nell'assolutezza della Madre Langa. Arpino, per quanto sedotto dalle aree metropolitane, non si è negato il ritorno nella culla del Roero ("L'ombra delle colline"). L'Unesco, ovviamente, non si cura di loro, e neanche la maggior parte dei conterranei. Ma i più sensibili, oltre a farsene vanto, dovrebbero divulgarne la conoscenza e l'affetto. Non soltanto per amore dei buoni libri.
Questi scrittori, che si sono nutriti della loro terra, le offrono in cambio una decisiva, concreta lezione. In molti, in primis Carlin Petrini, figura tutelare, hanno esortato a rendersi degni del riconoscimento ottenuto, proteggendo gelosamente il territorio, rimediando agli scempi compiuti in passato. Con lo stesso rigore, vien da dire, che gli scrittori di Langa, Monferrato e Roero, quasi viticoltori della scrittura, hanno dedicato ai loro libri.

LORENZO MONDO
29 giugno 2014 - Pag 25

sabato 21 giugno 2014

LE VIGNE DEL PIEMONTE PATRIMONIO UNESCO. PADRE ENZO BIANCHI: "LA LEZIONE DELLA VITE"

(La Stampa - Sabato 21 Giugno 2014 - pag. 21) - Queste colline le ho nella mente, nel cuore, negli occhi, nelle viscere... Ci sono nato in mezzo, sono cresciuto sotto il loro sguardo, ci ho giocato da bambino prima e dopo aver perso mia madre. Queste colline le ho viste aprirsi ad anfiteatro davanti a me ogni giorno per otto anni, quando tornavo da scuola salendo da Nizza a Castelboglione, le ho dipinte nei miei primi quadri. Chi è nato in quella terra racchiusa tra il Bormida, il Tanaro, il Po e l’Appennino ligure, su quelle colline di Monferrato e Langa coperte di vigneti, da lì ha ricevuto la postura da conservare per tutta la vita, una postura che ricorda la vite: a volte tormentata e nodosa, ma sempre capace di stare diritta, di ancorarsi nel terreno con radici profonde, di dare frutto anche se solo dopo anni.
Nelle Langhe e in Monferrato da secoli gli uomini coltivano la vite e senza una vigna un uomo non si sente veramente tale: così quelle colline aggruppate come greggi sono tutte ricoperte da vigneti. Filari ordinati, a volte inerpicati sui bricchi, filari nudi in inverno, protesi a catturare il sole, disposti sui pendii in modo tale da non farsi ombra l'un con l'altro: grande lezione di umiltà anche per noi! Filari di verdi diversi in estate, quando il vignaiolo riordina e abbassa i tralci che succhiano il cielo, sistemando la trama e l'ordito di un tessuto ogni anno rinnovato. Filari che in autunno si tramutano in un'inarrivabile tavolozza di pittore, così da dipingere d'oro e rubino la festa della vendemmia e il meritato, gioioso riposo...
La vigna è frutto dell'amore per la terra, e il contadino monferrino o langarolo da sempre osserva un comandamento inciso nei solchi: "Ama la terra come te stesso", amala anche se lavorando è duro, se le sue coste ripide richiedono una fatica a volte eroica, se i buoi ieri e i trattori oggi procedono sbilanciati a valle, se i carri rischiano di ribaltarsi tra i filari. Ama questa terra, che da sotto la coltre magica della vigna lascia trasparire solo qualche rocca giallastra e azzurrina, impossibile da coltivare; ama queste colline che le Alpi da lontano incoronano di neve, così ben raffigurate dalle foto scattate con amore da Enzo Mazza, invito irresistibile ad "andar per colline".
E i contadini l'hanno amata e la amano questa porzione di mondo, perché sanno che coltivare la vigna è come stipulare un matrimonio con la terra, è come affermare una speranza radicandola in quelle zolle, confidando che dai tralci nodosi penderanno grappoli di luce prima ancora che acini di uva. I vignaioli amano queste colline di antichissime origini, le conoscono una a una, l'una diversa dall'altra, l'una abbracciata all'altra in una danza di colori e di vita.
Amano la vite anche quando passano tra i filari a potare, quando l'occhio esperto e il colpo secco delle forbici fa piangere il tralcio: a questo gesto che causa dolore per dare vita nuova pensava Virgilio quando scriveva "sunt lacrimae rerum"? Credo ne fosse convinto Pavese, quando diceva che a vedere una vite ci si commuove e paragonava la vigna al miele dell'anima, dolcezza da annusare passando tra i filari a settembre.
I contadini amano queste colline quando in inverno, in mezzo alla neve, i falò cantano alla luna e riscaldano i cuori, le amano quando darebbero il loro stesso corpo per ripararle dalla grandine, le amano anche nelle annate in cui la vendemmia non è buona e protende la sua ombra di miseria sui mesi a venire. E' forse per questo che sovente la cima della collina si prolunga nel profilo dei cipressi, quasi un tempio naturale innalzato per dire grazie alla terra che chiede di essere abitata senza desiderare di abbandonarla per andare in cielo.
Sì, perché monferrini e langaroli amano la terra, la vigna prima ancora e forse più ancora del vino che pure ne è il frutto. Quante parole, quanta poesia, quanti sogni attorno al vino... E quanto silenzio distratto attorno alla vigna. Ma non importa: chi è nato nella Langa, come Pavese e Fenoglio, o in Monferrato, come Bobbio e i nonni di papa Francesco, sa che la gioia del vino si può diffondere ovunque, ma non esiste mercato dove si possa comprare l'amore per la vigna. E poi, il canto sul vino e il silenzio sulla vite sono la cifra di queste terre: sono voce e silenzio entrambi da ascoltare perché da sempre qui vivono insieme. Raramente nelle Langhe e in Monferrato il lavoro rompe il silenzio o il silenzio assorbe la voce: insieme fanno segno che una terra più abitabile è possibile, basta lasciarsi abitare dal suo fascino antico.
ENZO BIANCHI
 

giovedì 19 giugno 2014

LANGHE, MONFERRATO E ROERO PATRIMONIO DELL'UMANITA' UNESCO

La notizia era nell'aria già da tempo. Langhe, Monferrato e Roero, paesaggi incantevoli del basso Piemonte sono oggi ufficialmente patrimonio dell'Umanità Unesco. La straordinaria bellezza di questi territori si unisce ad una produzione viticola di eccellenza. Per il della Regione, Sergio Chiamparino, sarà “un punto di partenza, non di arrivo” per “la strategia di valorizzazione turistica del patrimonio artistico, culturale, enogastronomico, agricolo piemontese, che ha in Langhe, Roero e Monferrato un caposaldo”.
 













mercoledì 18 giugno 2014

IL DONO

E' una traccia di maturità che mi piace. Sa di calore umano, di famiglia, di gratuito scambio. Sa di sorrisi e di sguardi, di relazioni vere, non mediate da social e playstation. Sa di racconti di famiglie allargate, sedute accanto al fuoco a raccontarsi storie, senza che il cellulare irrompa nelle conversazioni e distolga lo sguardo dagli altri finanche quando si sta a tavola.
Sa di valori solidi e di famiglie vere. Non di felicità fasulle ritratte nelle foto di facebook e di famiglie orrende come quelle descritte nella realtà sui giornali ed in tv in quest'ultima settimana.
Sa di ciò che rende tutti migliori ed il mondo migliore. Sa di Amore.

giovedì 12 giugno 2014

E FU SERA E FU MATTINA

Ammetto che scegliere di buttarsi nel mondo del cinema, non sia stata la scelta migliore della mia vita.
Ed è un controsenso, perchè credo sia ad oggi anche l'unica cosa che ho seguito con vera costanza.
Nessun percorso scolastico che dia effettive possibilità di riuscita. Nessun titolo di studio. Nessuno sbocco lavorativo. Nessuna possibilità di assunzione. Nessuno stipendio a fine mese. Anzi, di più: neanche nessuna certezza di stipendio. Nessuna scienza esatta per concepire bene un film. Ogni progetto un'incognita.
Ogni film richiede inoltre cifre folli per essere prodotto. La stessa cifra con cui potresti comprare 2 alloggi a Roma, o con cui potresti vivere per 40 anni con 1.500 Euro al mese pagandoci i contributi allo Stato.
Soldi senza i quali semplicemente non puoi partire.

Perchè ci vogliono anni di lavoro di scrittura e di preparazione. Trovare la giusta alchimia fra tempi, risorse, soggetto, sceneggiatura, attori e i vari reparti che lavorano al film. Il 50% di tasse da pagare allo Stato. Tensioni. Notti insonne. Sulla graticola continuamente per trovare i soldi, con la certezza che se sbagli, salta tutto: la tua azienda, le persone che dipendono da te, le loro famiglie, il tuo presente e il tuo futuro.
Tutto ciò per una "speranza"... Ma non è pazzesco?
Tutto questo per un'unica fottuta speranza.
Lavori sperando. E' incredibile, ma è così che funziona.

La speranza che il film piaccia al pubblico. E che stacchi biglietti. Perchè sono quelli che ti permetteranno "forse" di sopravvivere.
E' da 4 mesi che conto biglietti. Conto e riconto biglietti. Quasi volessi diventare ricco. Quasi cercassi di farmi la villa con un film.
Ma qui tocca contarli solo per sperare di dire alla fine di tutto "ehi. ci sono anch'io".

Qualcuno mi chiede: "A quando il prossimo film?"
E percepisco l'ingenuità (più che comprensibile) con cui mi si potrebbe chiedere altrettanto nello stesso modo: "A quando la prossima partita a carte?"

Dentro di me, mentre rispondo con un sorriso, mi dico: "Quando troverò almeno 600.000 Euro." Che fra le righe vuol dire "Probabilmente mai."
Mi parlo anche fra le righe. Bravo.

Con 70.000 Euro il film lo fai una volta. E preghi, notte e giorno, che i suoi inevitabili limiti non siano poi così troppo accentuati da non farti vendere biglietti. Perchè ci sono motivi di ferro per cui un film costa quello che costa.
Alla fine però è vero. Qui, nella sua piccola dimensione, è andata oltre le previsioni. E' stato un miracolo.
Ma in questo maledetto Paese rischia di non essere abbastanza.
Tanti tanti tanti auguri a me e alle mie dannate scelte.


Emanuele Caruso
Regista del film autoprodotto nelle Langhe
'E fu sera e fu mattina'

mercoledì 11 giugno 2014

SIANI A SANT'AGATA

Nello scatto di una studentessa liceale, il regista campano Alessandro Siani, immortalato per le strade di Sant'Agata dei Goti (BN), dove sta girando un film in queste settimane.

domenica 1 giugno 2014

PANE E OLIO


“Non fate la guerra, ma pane e olio. Dopo l’amore, pane e olio”. Sul filo delle sensazioni gustative e uditive si snoda la trama storica dello spettacolo teatrale “Pane e Olio”, messo in scena dalla Solot di Benevento e contenente un invito di grande attualità: quello a non acquistare olii di marche rinomate, in quanto misto di ‘olii comunitari’, bensì a servirsi dai produttori locali, che sono una garanzia in termini di qualità e genuinità. Perché l’olio è l’elemento fondamentale della dieta mediterranea, dal momento che lo ingeriamo nei modi più disparati. Una sorta di pubblicità progresso, che, al termine dello spettacolo, ha il suo debito riscontro in una degustazione a base di fette di pane genuino cosparse con un filo d’olio, alle quali è possibile aggiungere delle alici e del pomodorino ed accompagnare con un buon bicchiere di vino locale.
Sul filo dell’ironia si medita sulla storia e sugli usi di questo “re della cucina mediterranea”. Bravissimi gli attori della Solot, Compagnia Stabile di Benevento: Michelangelo Fetto, Antonio Intorcia e Massimo Pagano, che replicheranno al Mulino Pacifico, sempre dalle 18.30, i prossimi 6 e 7 giugno 2014.
    L’olio deriva dalla pianta che è simbolo di pace e di rinascita. Il pane e olio della dieta povera dei contadini diventa il must dell’attuale cucina. L’ulivo è quella pianta portata dalla colomba a Noè, che capisce che il diluvio universale è finito. Il tronco di ulivo è quello di cui Ulisse si servirà per accecare Polifemo e fare ritorno in patria. Cristo è l’”unto” dal Signore, in quanto nell’antico medioriente re, sacerdoti e profeti venivano scelti e consacrati mediante l’unzione di oli aromatici. E, secondo la leggenda, i tronchi di olivi, per non diventare legno della croce di Cristo, si riempirono d’olio e si accartocciarono su sé stessi. Passando dal sacro al profano, l’olio è l’ingrediente fondamentale per togliere il malocchio. L’olio è fatica, alleviata dai canti della tradizione contadina.

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