martedì 24 novembre 2015

AUSTRIA FELIX E SACHER TORT

Tutto cominciò al tempo della Restaurazione. Quando un giovane aiuto cuoco di nome Franz Sacher sfornò per Metternich una torta con marmellata di albicocche imprigionata in uno strato di cioccolata ricoperto da una glassa di cacao. Una torta dolcissima e tenace come il grande impero che gli Asburgo volevano costruire nel cuore della vecchia Europa, mettendo insieme popoli di varia lingua ed etnia, irrequieti e litigiosi. Dopo un periodo di servizio presso Estrhàzy e dopo la sconfitta delle rivoluzioni del 1848, Sacher aprì a Vienna una sua gastronomia. Qui mosse i primi passi il figliolo, Eduard, destinato a diventare il proprietario di un ristorante di successo rivolto all'aristocrazia viennese. E, poiché dietro ogni uomo di successo vi è una grande donna, anche dietro Eduard vi erala moglie. Anna Maria Fuchs (1859-1930), figlia di un macellaio, di sedici anni più giovane del marito, seppe amministrare con grande capacità decisionale e fiuto per gli affari il gioiello di famiglia, nel quale passarono ogni genere di donne e di uomini: principi, magnati, spie, intellettuali, amanti e ballerine, la principessa Sissi, il principe Rodolfo, Kraus e Strauss. Poi il mondo andò in frantumi con la guerra e negli anni 20 Anna fece interdire il figlio sifilitico Eduard, mentre il matrimonio della figlia Franziska naufragava e lei tornava a vivere con sua madre. Anna (detta Frau) si indebitò per modernizzare l'hotel ed adeguarlo ai tempi nuovi. Però aveva il vizio del gioco ai cavalli e perdeva molto. Nel '29 fu interdetta lei e nel'30 morì. Nel suo dettagliato testamento tenne i figli fuori dalla gestione dell'hotel. E così, nel '34, esso fu venduto all'asta ad un avvocato, i cui discendenti ancora oggi ne gestiscono marchio e leggenda.

ROCCA SAN FELICE (AV), TRAMONTO AUTUNNALE

Foto di Francesco Zollo

mercoledì 18 novembre 2015

DIESEL

Diesel, una femmina di pastore belga di 7 anni uccisa dai terroristi islamici a Saint Denis, vittima di un nuovo attentato terroristico oggi, dopo Parigi il 13 novembre 2015. Denis non era una bastarda.





domenica 15 novembre 2015

ORIANA FALLACI, LA FORZA DELLA RAGIONE

Che il sogno di distruggere la Tour Eiffel fosse anzitutto stoltezza io lo compresi nella tarda primavera del 2002, cioè quando "La Rabbia e l'Orgoglio" uscì in Francia dove un romanziere era stato appena incriminato per aver detto che il Corano è il libro più stupido e pericoloso del mondo. E dove (quale razzista-xenofoba-blasfema-eccetera) nel 1997 poi nel 1998 poi nel 2000 poi nel 2001 Brigitte Bardot era stata condannata per aver scritto o detto quel che non si stanca mai di ripetere, povera Brigitte. Che i mussulmani le hanno rubato la patria, che perfino nei villaggi più remoti le chiese francesi sono state sostituite dalle moschee e i Pater Noster dai berci dei muezzin, che la tolleranza ha un limite anche in regime di democrazia, che la macellazione halal è una barbarie. (...)
Perché lo sai chi fu il primo ad ammucchiare la legna per il mio rogo? lo stesso settimanale parigino al quale l'editore aveva concesso gli estratti da pubblicare in anteprima. (Pgg. 59-60)

Quando nell'ottobre del 2002 pubblicai in Italia il testo della conferenza che avevo dato all'American Enterprise Institute di Washington, "Wake up Occidente" cioè "Sveglia Occidente", speravo che intorno ad esso si aprisse un dibattito. Era un testo sul sonno che ha narcotizzato l'Europa trasformandola in Eurabia, e meritava una discussione. Ma anziché un invito a ragionare, svegliarsi e ragionare, i collaborazionisti vi videro una formula guerrafondaia. Uno slogan razzista, xenofobo, reazionario, blasfemo. Tutti. (Pag. 255)

Del resto Toqueville individuò il tristo fenomeno studiando la democrazia in America, minestrone dove bolle ogni tipo di verdura, l'ossequio al nemico raggiunge spesso vette grottesche. (Pag. 257)

Pensa agli opportunisti che vestiti da professori infestano le università raccontando agli studenti che la cultura occidentale è una cultura inferiore anzi perversa. Pensa agli sciagurati che sostengono le filoislamiche porcherie della filoislamica Onu. Però nonostante quel che accadeva all'epoca di Toqueville, chi denuncia la verità non viene messo alla gogna. Non viene irriso, processato, punito, ritratto col giubbotto foderato di pallottole. In America l'ultima caccia alle streghe si svolse mezzo secolo fa con McCarhty, e gli americano se ne vergognarono tanto che non ci provarono più. In Europa invece, in Eurabia, il maccartismo trionfa. La caccia alle streghe è ormai regola di vita. Prima di tirare le somme devo dunque dirti che c'è dietro questa amara verità.

C'è il declino dell'intelligenza. Quella individuale e quella collettiva. (...) Eh, sì. Paradossalmente siamo meno intelligenti di quanto lo fossimo quando non sapevamo volare, andare su Marte, cercarvi l'acqua. O riattaccarci un braccio, cambiarci il cuore, clonare una pecora o noi stessi. Siamo meno lucudu, meno svegli, di quando non avevamo quel che serve o dovrebbe servire a coltivare l'intelligenza. Cioè la scuola accessibile a tutti anzi obbligatoria, l'abbondanza e l'immediatezza delle informazioni, l'Internet, la tecnologia che rende la vita più facile. E il benessere che toglie l'assillo della fame, del freddo, del domani, che placa l'invidia. Quando questo bendiddio non esisteva, bisognava risolvere tutto da soli. Quindi sforzarci a ragionare, pensare con la propria testa. Oggi no. Perché anche nelle piccole cose quotidiane la società fornisce soluzioni già pronte. Decisioni già prese. Pensieri già elaborati pronti all'uso come il cibo cotto. (...)
Ergo, la gente non pensa più. O pensa senza pensare con la propria testa. Neanche per fare una somma o una sottrazione, una moltiplicazione o una divisione. Che del resto non sa più fare. Quand'ero bambina tutti sapevano fare le somme e le sottrazioni, le moltiplicazioni e le divisioni. Tutti conoscevano la Tavola Pitagorica. (...)
A farla breve, nel continente europeo non esiste contrada che abbia avuto tanti padroni quanti ne abbiamo avuti noi. (...) Per capirlo basta vedere con quale entusiasmo gli italiani copiano gli altri anzi i difetti degli altri, incominciando da quelli degli americani che scimmiottano senza pudore anche quando li odiano come gli arcobalenisti. (Pagg. 259-263)
La seconda colpa, conseguenza della prima, sta nella loro atavica mancanza di fierezza. Atavica, quindi inguaribile, e riassumibile con la frase più sconcia che abbia mai insozzato la dignità d'un popolo. La frase della tarantella che i napoletani cantavano al tempo in cui gli spagnoli e i francesi si contendevano la loro città. "Francia o Spagna purché se magna". Per questo non si offendono quando gli immigrati islamici urinano sui loro monumenti o smerdano i sagrati delle loro chiese o buttano i loro crocifissi dalla finestra d'un ospedale (pagg. 260-261).

Oriana Fallaci, La Forza della Ragione - Rizzoli International, 2004

EN NOM DE QUOI?


MANCA LA RECIPROCITA' DELLA TOLLERANZA


«Faccio riferimento all’articolo di Gramellini, dalla rubrica “Buongiorno - L’arte di convivere” apparso su la Stampa di venerdi 13 novembre. Sono assolutamente d’accordo col vicedirettore, a parte un punto: i cristiani, salvo pochissime eccezioni, non possono entrare nelle moschee, perché considerati infedeli ed impuri. Il sottoscritto ha vissuto, per motivi di lavoro, oltre 4 anni in Algeria, più di 10 anni in Marocco, 2 anni in Turchia ed è stato spesso in Tunisia, in Egitto, in Iran e nella Penisola araba, Yemen compreso. In tutti questi paesi, la reciprocità non l’ho praticamente mai riscontrata. 
«Su questo punto occorre essere, a mio avviso, molto chiari, se i figli degli stranieri non vogliono, o i loro parenti non li lasciano entrare a visitare i monumenti della nostra civiltà, i nostri figli non debbono patire le conseguenze, anzi... dovremmo loro spiegare perché, da noi, tutti possono entrare in chiesa e, nei loro paesi, solo i musulmani possono, salvo pochissime eccezioni, entrare nelle moschee». 
Bruno De Mori  

venerdì 13 novembre 2015

PUO' ESSERCI UNA VITA SENZA UN SORRISO? APPUNTI DA MOSCA

MOSCA
Appunti di viaggio

Mosca. Primi appunti di viaggio. La città è ruvida e maestosa. Umida. La coltre di acqua rarefatta che qui è cielo rifrange la luce artificiale ed illumina strade, monumenti, palazzi. Così di notte si crea un effetto di luce diffusa, morbida, che ti ci puoi tuffare dentro, che addolcisce ogni profilo, anche i più temibili palazzi della propaganda di un regime che per fortuna non è più. Si cammina a piedi sulla Piazza Rossa che ora è come fosse vuota, spaesata, senza più le sue parate e la sua forza. Il profilo illuminato di un centro commerciale elegante segna il tempo contemporaneo con tutte le sue lusinghe.

 
Mosca è una città priva di energia e creatività. Stanca, spenta, grigia. Sconfitta dal comunismo che le ha tolto speranza e visione di un futuro da segnare in maniera individuale. Non c'è volto che sorride. Le labbra sono rivolte all'ingiù e lo sguardo è scialbo e malinconico, anche quando gli occhi sono cerulei come laghi, ma senza sole. Non vi è un guizzo di gioia tra i giovani che affollano la metro o tra quelli, una scolaresca in gita, che sono ordinatamente in fila con una compostezza triste. Alcune donne sono belle ed in tiro, accanto ad uomini già vinti e calvi e grassi a quarant'anni, mentre loro sono a caccia di un orgasmo occidentale che faccia dimenticare troppe cose. Tutte le altre sono in bilico tra una contadina padana ed una domestica russa assunta in Italia. Le tinture dei capelli sono di cromatina, l'abbigliamento è sintetico, misero, sui toni del grigio-nero-marrone. Sono grasse come matriosche. Il mercato di Izmailovo, tipico per artigianato e prodotti locali, è vuoto, inquietante, in parte lasciato a decadere. È la falsa antitesi dei grandi centri commerciali, tipo Gum, che qui sono assai diffusi. Vuoti, non vi entra più nessuno, con merce in quantità eccezionale e carissima: grandi firme occidentali che nessuno può comprare più, tra la crisi del gas e l'embargo punitivo. La voce nell'altoparlante della Metro è "bellica", le scritte di questa dura lingua sono ostiche a leggersi. Il personale è gentile, sottomesso, servile. Sono i figli di un regime allevato all'ubbidienza. Se mi centro su queste loro vite senza una prospettiva apparente, mi prende un'angoscia esistenziale. Può esserci una vita senza un sorriso? Undici milioni di moscoviti vivono così.

BENEDETTA DE FALCO 

martedì 3 novembre 2015

COLAZIONE CON LA STORIA: IL GRAN CAFFE' GAMBRINUS!

di VALENTINA COSENTINO
Grande Napoli





Entrare a prendere un caffè al Gran Caffè Gambrinus è un’esperienza unica. I suoi magnifici interni, i ricordi della Napoli della Bella Epoque che non possono non toccare il cuore, ne fanno un punto di riferimento irrunciabile per turisti e non, non solo per le prelibatezze della pasticceria napoletana che si possono gustare assieme al caffè, ma anche e sopratutto per il tuffo nella storia che regala.
E quella che il Gran Caffè racconta è davvero lunga: esiste in primo luogo da 150 anni, e per un bar mi sembra davvero una bella età, non solo, qui sembra che il primo giorno dell’anno il presidente della republica italiana, faccia la prima colazione dell’anno per tradizione.
Ma quante cose sono accadute nella sua lunga storia?
Partiamo dalla sua fondazione, voluta nel 1860 dall’impreditore Vincenzo Apuzzo con il chiaro intento di farne da subito un punto di riferimento per la gente bene della città. Caffettieri, pasticceri, gelatiai, i migliori che si postessero trovare lavoravano al Gran Caffè (che ancora non si chiamava Gambrinus).
Per un bel po’ le cose andarono bene, ma tra il 1889 ed il 1890 il bar rischiò la chiusura e fu solo merito di Mario Vacca che tornò a nuova vita. Il nuovo propietario volle che traformarlo in una vera e propria galleria d’arte ed affiò la decorazione degli interni a Antonio Curri. Il nuovo caffè prese il mome di Gran Caffè Gambrinus dal nome del re delle Fiandre inventore della birra. Questo nuovo nome voleva essere un manifesto di intenti, in nuovo locale si proponeva come punto di riferimento per una fusione tra la cultura partenopea e la cultura di respiro europeo.
E così fu, perchè il caffè rinnovato divenne punto di riferimento per intellettuali, poeti, musicisti, artisti e di ogni viaggiatore illustre che arrivasse in città: Oscar Wilde, Ernest Hemingway, Jean Paul Sartre.
Qui si incontravano anche i protagonisti della scena culturale napoletana come i nomi illustri della canzone e del teatro, tra cui Ernesto Murolo, Eduardo Scarpetta, Totò, i fratelli De Filippo.
Durante la Belle Epoque fu uno dei principali ritrovi del Caffè Chantant modellato sulla tradizione francese.
Ma la scure del fascismo doveva colpire anche il Gambrinus che nel 1938 fu chiuso con l’accusa di essere ritrovo per movimenti antifascisti. Al suo posto fu installata una sede del Banco di Napoli, che per fortuna ne preservò i magnifici interni.
All’inizio degli anni settanta, Michele Sergio volle riscattare i locali del Gambrinus e riuscì nella sua imprese dando vita nuova al celebre locale. Ne fece restaurare completamente gli interni e riuscì a poco a poco a ripristinarne l’antico spledore.
Oggi resta uno dei locali storici di Napoli, dove una sosta per un caffè o un pasticcino è immancabile anche solo per respirarne l’atmosfera incantata che porta subito alla mente pezzi indelebili di storia.

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