lunedì 17 luglio 2017

FRANCO ARMINIO, POETICA DEL RANCORE

Sarebbe una buona cosa uscire in piazza e sentire gente che muove alti pensieri e scalpita e si appassiona a progettare il futuro. E invece dobbiamo spendere il nostro tempo per cincischiare sulle nostre miserie. Ormai qui siamo tutti operai della vasta e ineffabile fabbrica del lamento. Il dispetto, il rancore, la diffidenza verso tutti e tutto sembrano l’unico modo rimasto per tenersi a galla. Litigano quelli che si oppongono alle pale, litigano i ferventi di padre Pio sull’ubicazione della statua, litigano quelli che hanno sostenuto l’amministrazione e quelli che l’avversano. L’unica cosa che è diminuita sono i litigi tra i vicini di casa, per il semplice motivo che ora la gente è tutta sparpagliata.Qui la passione dominante è l’interdizione, l’idea di stoppare gli entusiasmi, le aggregazioni. Se costruisci un gruppo che produce qualcosa di buono subito viene fuori il dissenso, il ronzio di chi avanza riserve, cavilli. E chi non si mette di traverso in modo palese lo fa, vigliaccamente, in maniera obliqua, criptica. Più che il conflitto, l’irpino preferisce agire con l’indifferenza, il diniego, il far finta che il bene che fanno gli altri non esiste. Io sono rimasto qui per registrare questi movimenti. Ci sono delle giornate in cui certi atteggiamenti mi feriscono profondamente, poi però mi riprendo, in fondo questa avversione è il tonico che mi fa andare avanti, che mi impedisce di addormentarmi. Il sud dei paesi sta morendo proprio perché è in mano alla lobby dei vigliacchi. Perché sono loro a tenere in mano le piazze, sono loro a decidere a chi dare la pensione, a chi togliere la multa, a chi consentire questo o quell’abuso. La loro abilità maggiore è nel far credere che siamo tutti uguali, che la vigliaccheria è nel cuore di tutti e invece è solo un’anomalia della maggioranza. Ci sono ancora i coraggiosi, gli eroi, a volte ci vengono vicino ma non sempre riusciamo a riconoscerli, magari proprio perché distratti a occuparci delle vigliaccherie che subiamo.Questa è un’epoca che ha disperatamente bisogno del nostro amore, della nostra speranza, ha bisogno del coraggio di opporsi, di lottare contro la meschinità imperante. Il segreto per una giornata lietamente rivoluzionaria è riuscire a vedere che le montagne sono ancora piene di alberi e che ci sono cuori clementi agli angoli delle strade e ci sono albe e tramonti, c’è l’acqua del mare e il grano che cresce. Tuttavia, questa affezione per il mondo va sempre incrociata con una fortissima allergia al compromesso, all’intrallazzo. Bisogna unire la capacità di percepire la bellezza del mondo e di lottare contro chi ogni giorno tenta di impoverirla, di svilirla. È ora di tenere insieme la tensione politica e quella poetica, la contemplazione e il conflitto. I luminari del rancore ci vorrebbero rassegnati alle misere finzioni della vita sociale oppure chiusi nei freddi loculi del nostro io. No, questa è un’epoca da attraversare ad occhi aperti, con sguardi spericolati, mossi in ogni direzione. Il rancore alla lunga rende sterili, ci allena alla conservazione di ciò che non abbiamo. I rancorosi non conoscono la cordialità, la mitezza, non sanno usare il metro della clemenza. Infervorati come sono nelle loro accidie, nelle loro pretese, hanno interiorizzato il disagio, la disaffezione. La loro postura è fatta per claudicare, non per il passo spedito, il gesto aperto. La loro giornata è tutta trapuntata di inadempienze, di incomprensioni. Ognuno è scambiato per un altro, e in genere lo scambio avviene al ribasso. La vita dei rancorosi consiste in una perenne edificazioni di muri, di cancelli. La loro poetica è stare lontani dagli stati estremi, accucciati a scambiarsi una pappina psichica che non serve a niente. Vivono tenendosi costantemente al riparo dalla vita. Rimangono contratti, sospettosi, come se l’universo fosse un cane che li punta e sta per morderli da un momento all’altro. Tutt’al più procedono al piccolo trotto, in un traccheggio prolungato. Prevalgono le posizioni difensive, gli slanci millimetrati. Spendere il proprio tempo per gli altri è considerato quasi un segno di malattia, un gesto folle, sconsiderato, incomprensibile. Si lamentano per conformismo, per appartenere al gregge oppure per fingersi pastori. Forse quello che noi chiamiamo sud avrà una speranza di salvezza se saprà mettere questa gente con le spalle al muro, se saprà amare i bizzarri, gli inventori, gli estrosi, i poeti e i cuori affamati di amore.







 Nelle immagini: Trevico

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