Per
quanta indignazione potesse sollevare in noi lo spettacolo d’una seconda guerra
mondiale (a poco più di vent’anni dalla fine della prima) che si sarebbe potuta
evitare, con tutti gli orrori a cui ci fece assistere, se la chiara lezione che
ci aveva dato la guerra in Spagna e il trionfo del franchismo fossero almeno
serviti a far intendere agli stati europei, Francia e Gran Bretagna in prima
linea, che non bisognava, per l’eterna paura del “bolscevismo”, proteggere i
fascismi, non mi sentii sperduta come la prima volta. La grossa esperienza non
era stata inutile. Perciò, quando nell’ottobre del ’40, dagli ufficiali inglesi
della propaganda mi venne offerto d’iniziare una trasmissione antifascista alla
radio del Cairo, accettai subito; non con entusiasmo, perché sarebbe stato
difficile averne nelle condizioni in cui mi sarei trovata, già lo sapevo,
collaborando con quello che avrebbe dovuto essere il “nemico ufficiale” e del
cui sincero antifascismo dubitavo assai; ma lo sentii lo stesso come un preciso
dovere. Era un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia
aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io.
Dovetti
quindi trasferirmi da Alessandria al Cairo e in un primo momento non ritrovai
gli entusiasmi che la bellissima città, superbamente adagiata sulle rive del
Nilo, aveva sempre suscitato in me col suo paesaggio, i suoi colori e i suoi
odori – poiché un paese è fatto anche di questi, sopra tutto in Oriente. Il duro
lavoro che avevo accettato, i problemi che dovevo affrontare, mi fecero,
durante anni, in apparenza una solerte e precisa funzionaria; in realtà
svegliarono una persona che non avrei mai supposto di poter essere, con tutta
la malizia, l’arroganza, la capacità d’intrigo e d’aggressione che richiedevano
la quotidiana difesa dell’indipendenza e dell’efficienza del nostro lavoro;
perché non ero sola, evidentemente, avevo i miei bravi e fedeli collaboratori
che per fortuna m’erano stati imposti. Non ero più la “scrittrice”, avevo
perfino dimenticato d’esserlo stata, mi sembrava che non avrei più potuto
perder tempo a “inventare storielle”, la crudeltà della guerra mi faceva vedere
questo come la cosa più inutile del mondo. Avevo torto, ma così è stato.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 222-223.
(Alle pp. 232-233 parla della morte di Renato
Cialente)
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