Dopo il disastro di Caporetto e quanto l’aveva preceduto, c’era forse d’aver fiducia in chi comandava tuttora la guerra? S’ero da tempo vaccinata contro il fatale “irredentismo adriatico” (e Fabio[1] aveva pagato di persona l’errore in cui l’avevano fatto
crescere e maturare) la guerra alla quale assistevo mi aveva non solamente stomacata, ma suscitava in me un odio che sentivo inguaribile: l’odio contro qualsiasi forma di nazionalismo o razzismo (“sti maledeti sciavi, ‘sti maledeti austriacanti, ‘sti maledeti ebrei”), contro ogni sopraffazione, quindi; in più avevo già imparato (e gli anni a venire me l’avrebbero confermato) che i primi a pagare e ad essere travolti sono sempre i poveri, le guerre sembrano inventate per loro, giacché è la miseria che meglio insegna a resistere e a durare. I tenui germogli del vacillante patriottismo che m’era sembrato di sentir nascere in me dopo Caporetto erano dunque già periti. E quando vennero i giorni della fine intorno a quel 4 novembre, andai anch’io insieme ai miei compagni a gridare la nostra gioia per le strade e le piazze, sì; ma soltanto perché la guerra era finita e finito l’inutile massacro.
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