Mi ero sposata qualche anno dopo la fine della guerra e avevo lasciato l’Italia mentre il fascismo, che s’era apertamente messo al servizio d’una miope politica di conservazione, andava facendosi le ossa. La borghesia, fossero gl’industriali del nord o gli agrari del sud, aveva più che mai l’aria di volersi finalmente vendicare sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto – le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse – e si proponeva senza ulteriori indugi ad agguantare il potere. Il caso volle che al mio primo viaggio di ritorno dall’Egitto, mio marito ed io assistessimo a Milano alla partenza della “Marcia su Roma”. Una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti era radunata in Piazza del Duomo, nel semibuio d’una sera d’ottobre; pochissima gente intorno e dalla Galleria, dove noi eravamo, partirono qualche fischio e qualche applauso, ma nulla di più. Già si sapeva che quei bravi sarebbero comodamente andati in treno e difatti, scendendo poi l’Italia per imbarcarci a Brindisi, li avremmo ritrovati a Firenze, dove per l’ultima volta avrei incontrato la sorridente e affettuosa Myrrhine. Ma, prima di partire, andammo a salutare mio padre e mia madre che abitavano di nuovo a Milano (non si erano ancora separati, come avvenne in seguito), e raccontammo quel che i giornali del mattino avevano annunciato. Mio padre posò il sigaro sul posacenere e guardandoci in viso disse freddamente: «Lo so… ed ora ne avremo per trent’anni».
(Sbagliò di dieci). Io lo guardai esterrefatta, non avevo capito dal suo tono gelido se assistevamo a qualcosa che, secondo lui, si doveva o no accettare, ma, riprendendo il sigaro e dopo averlo riacceso aveva aggiunto con impassibile disprezzo: «Siamo un gran popolo di cialtroni».
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 207-208
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