Straniera,
o distaccata, mi sentivo anche in Egitto, e non poteva essere altrimenti benché
il paese e la vita che facevo mi piacessero. Avevo buoni rapporti con la mia
nuova famiglia israelita nonostante avessero quasi tutti aderito
sentimentalmente al fascismo, fin quando la persecuzione contro gli ebrei, con
la sua rude scossa li costrinse ad aprire gli occhi e il cervello. A mia
suocera, finché era vissuta, avevo voluto molto bene; era una donna incolta ma
gran signora, intelligente e generosa, che tendeva però a comandare
energicamente sui figli e sulle figlie, e a tutti mi preferiva perché la
rispettavo e le obbedivo; con grande tenerezza mi occupavo della mia bambina er
ero felice quando mia madre veniva a trascorrere qualche mese nelle ville che
abitavamo nei quartieri residenziali lungo il mare, circondate da giardini
verdi e fioriti in tutte le stagioni. Ricordo il suo stupore nel vedere come la
vita intellettuale fosse in quegli anni vivace e diffusa in Levante. Il teatro
francese e inglese veniva regolarmente, e così le grandi orchestre e i grandi
solisti; ogni stagione ci recava qualcosa di nuovo o di attraente, la Palestina
ci mandava il famoso complesso teatrale dell’”Habima” col Dibbuk, il Golem, il Re David, l’Uriel Acosta, e benché non conoscessi affatto l’ebraico non perdevo
nessuna di quelle straordinarie rappresentazioni; e lo stesso mi accadeva col
teatro greco e i suoi prestigiosi attori.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 211-212
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