Ciò che più avrebbe colpito chi avesse
voluto esaminare da un punto di vista strettamente economico e sociale la
questione irredentista intorno agli anni di quelle liete vendemmie e quei balli
alla Filarmonica, avrebbe senza dubbio scoperto, o almeno imparato, come per
salvarsi dalla secolare oppressione di Venezia, Trieste aveva dovuto concedersi
ai duchi d’Austria pochi secoli dopo il mille; e per molto tempo aveva
vivacchiato sfruttando un hinterland
che le era completamente straniero, anche per il linguaggio, ma era il solo
retroterra di cui poteva disporre. Era quindi curioso, ma soprattutto
indicativo d’un certo carattere che una comunità tra il 1500 e il 1600 era
calata da dodicimila a cinquemila abitanti, avesse nondimeno continuato a
parlare in città e lungo tutto il litorale il suo dialetto veneto; e proprio
questo linguaggio avessero astutamente imparato, storpiandolo, i carniolini, i
carinziani, gli stiriani. I triestini, imperterriti, non imparavano nulla e
ostentavano già allora l’intenzione di condurre traffici e commerci adoperando
unicamente il loro dialetto. Ma se intanto non decadeva, Trieste, non era per
il buon volere o la generosità degli Asburgo ai quali s’era data in braccio, ma
per l’inarrestabile decadenza di Venezia; e se ciò la rendeva sempre più libera
di sviluppare i suoi commerci in terra e in mare, fatalmente la incorporava
sempre di più nel nascente impero austriaco e andava diventando la porta
occidentale d’un immenso retroterra orientale, un destino al quale sembrava
naturalmente, geograficamente legata; e la lingua tedesca, quella almeno,
avrebbe dovuto parlarla. Una storia così lontana nel tempo che i triestini
destinati all’irredentismo adriatico, anche se non l’ignoravano, preferivano
fingere d’averla dimenticata, o tutt’al più con l’avvicinarsi dei tempi moderni
si accontentavano di vantare, come immancabilmente faceva il padre, il
pittoresco cosmopolitismo della città, passato e recente, e quel “mitteleuropeo”
ch’era diventato il carattere peculiare di Trieste e della sua cultura. Troppi avvenimenti
s’erano accavallati nell’Ottocento che aveva visto nascere non soltanto il
padre e la madre, ma anche le loro quattro figliuole, e i sussulti che dopo la
bufera del ’48 avevano via via provocato la guerra del ’66, la compiuta unità d’Italia,
l’impiccagione di Oberdank, non avevano fatto altro che accrescere ed
esasperare l’irredentismo dei triestini non austriacanti, che l’unità
consideravano incompiuta, quindi notoriamente invisi al cattolicissimo
imperatore.
Era nata intanto, intorno al 1890. La Lega
Nazionale in sostituzione di un Pro Patria che Vienna aveva condannato con un
decreto di scioglimento perché s’era permesso d’inneggiare pubblicamente alla
nascita, in Italia, della “Dante Alighieri”; ma la nova associazione non
nascondeva affatto il proposito di continuare a raccogliere fondi per istituire
nuove scuole italiane là dove un sentimento d’italianità o d’irredentismo
sembrava indebolito o minacciato. Alla Lega avevano subito aderito con
entusiasmo il “maestro” e tutta la famiglia, anche le figlie giovinette, e più
tardi ancora i nipoti triestini. Era il tempo in cui il liberalmassone Felice
Venezian capeggiava l’irredentismo in Trieste, quindi anche la Lega Nazionale,
e il suo nome raggiava nella famiglia come una stella di sempre crescente
splendore.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 43-45
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