domenica 21 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: LA MISTERIOSA SCOMPARSA DI CARLOTTA


Era nei giornali, seppure mistificata, negli inauditi bollettini quotidiani, era sulla faccia della gente, angosciava e famiglie che avevano i loro combattenti al fronte; e non potevo non accorgermi, ora ch’eravamo separati dai nostri triestini, che un entusiasmo per l’ipotetica conquista delle terre irredente non lo coglievo proprio in nessuno. Mio padre aveva comperato, anche lui, la carta che illustrava il confine, l’aveva appesa al muro in un angolo del soggiorno, in piena luce, e vi spillava le bandierine che doveva di tanto in tanto spostare – ma di ben poco. La donna di servizio che veniva per qualche ora, mattino e pomeriggio, sogghignava guardandole. « Ballano i lancieri! » esclamava. « Avanti e indietro, indietro e avanti! » e rivelava così un umore popolare ben contrario alla guerra. Eravamo già alla fine del 1915 e ancora una volta i “tutti a casa per Natale” aveva denunciato l’irresponsabile leggerezza di chi aveva creduto o lasciato credere che una rapida fine potesse davvero rimandare i combattenti alle famiglie. S’iniziava invece il duro inverno 1916 e si sapeva (ad ogni modo lo sapeva e lo diceva mio padre) che le azioni dalla primavera in qua non avevano quasi intaccato il confine del nemico nonostante “l’inutile massacro” che nei primi sei mesi di guerra avevano sopportato le truppe. Ma nella prossima primavera, mio padre diceva, sarebbe stato anche peggio, quindi la carta con le bandierine era già divenuta un incubo, mia madre non voleva nemmeno guardarla.

« Non potresti toglierla di là, mi dici a che cosa serve?! » protestava spazientita col marito e lui, implacabilmente maligno: « Come?! » esclamava fingendosi meravigliato  «tu, l’irredentista ?».

Cominciavano anche le restrizioni sul vitto e quella Carlotta che veniva in corso Mentana e guardava con ironico disprezzo la carta geografica e le bandierine, s’era rivelata un’abilissima trafficante giacché riusciva misteriosamente a procurarci tutto quello che più tardi cominciò veramente a scarseggiare, pasta e zucchero, riso, olio e farina, uova fresche e bistecche, a prezzi lievemente maggiorati ma non eccessivi. Alta e robusta, piuttosto bella nella sua maturità popolana, non era genovese, credo fosse romagnola. Chissà perché dovevamo sembrarle degl’ingenui, degli sprovveduti, e nel suo sguardo fosco vedevo infatti un’ombra di beffarda simpatia. Non durò molto, il suo servizio, un giorno l’aspettammo inutilmente, non tornò e non ne sapemmo mai più nulla. « O ha accoltellato o è stata accoltellata da qualcuno » disse allora mio padre che le aveva sempre supposto una vita amorosa piuttosto calda in un ambiente in cui la violenza doveva essere la normalità quotidiana.

Nonostante tutto quel che si veniva a sapere credo che nessuno di noi potesse immaginare com’era veramente la guerra. Ma non era possibile non figurarsi l’acqua e il fango, gli uomini accatastati in un piccolo spazio sordido, la stretta buca che doveva essere una trincea, e le cimici, la fame, il pessimo vitto, le malattie della pelle o degl’intestini. Mangiare, se possibile, grattarsi dentro le ruvide, sudicie maglie, andare di corpo con persistenti diarree, probabilmente, e adesso, col freddo, i geloni che fanno scoppiare le dita, la tosse che rompe il petto, le scarpe di finto cuoio che lasciano filtrare l’acqua; perché anche di questo si parlò subito, degli sfruttatori che s’impinguavano e furono chiamati pescicani.

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 172-174

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