« Non potresti toglierla di là, mi
dici a che cosa serve?! » protestava spazientita col marito e lui,
implacabilmente maligno: « Come?! » esclamava fingendosi meravigliato «tu, l’irredentista ?».
Cominciavano anche le restrizioni sul
vitto e quella Carlotta che veniva in corso Mentana e guardava con ironico
disprezzo la carta geografica e le bandierine, s’era rivelata un’abilissima
trafficante giacché riusciva misteriosamente a procurarci tutto quello che più
tardi cominciò veramente a scarseggiare, pasta e zucchero, riso, olio e farina,
uova fresche e bistecche, a prezzi lievemente maggiorati ma non eccessivi. Alta
e robusta, piuttosto bella nella sua maturità popolana, non era genovese, credo
fosse romagnola. Chissà perché dovevamo sembrarle degl’ingenui, degli
sprovveduti, e nel suo sguardo fosco vedevo infatti un’ombra di beffarda
simpatia. Non durò molto, il suo servizio, un giorno l’aspettammo inutilmente,
non tornò e non ne sapemmo mai più nulla. « O ha accoltellato o è stata
accoltellata da qualcuno » disse allora mio padre che le aveva sempre supposto
una vita amorosa piuttosto calda in un ambiente in cui la violenza doveva
essere la normalità quotidiana.
Nonostante tutto quel che si veniva a
sapere credo che nessuno di noi potesse immaginare com’era veramente la guerra.
Ma non era possibile non figurarsi l’acqua e il fango, gli uomini accatastati
in un piccolo spazio sordido, la stretta buca che doveva essere una trincea, e
le cimici, la fame, il pessimo vitto, le malattie della pelle o degl’intestini.
Mangiare, se possibile, grattarsi dentro le ruvide, sudicie maglie, andare di
corpo con persistenti diarree, probabilmente, e adesso, col freddo, i geloni
che fanno scoppiare le dita, la tosse che rompe il petto, le scarpe di finto
cuoio che lasciano filtrare l’acqua; perché anche di questo si parlò subito,
degli sfruttatori che s’impinguavano e furono chiamati pescicani.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 172-174
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