Da due o tre giorni ho iniziato la lettura di Joyce – per la verità mi mancava ed era una lacuna da colmare –, e devo dire che sulle prime ha destato in me non poca perplessità. Per venirne a capo ho chiesto ragguagli alla collega di inglese e poi mi sono letta tutta la nota critica a introduzione del libro. Solo così ho finalmente compreso la grandezza di questo autore ed il messaggio che lancia con questo libro. Ho apprezzato l’anima libera e fiera dell’artista, ipercritico verso i difetti della vecchia Irlanda, una terra che lui non amò mai molto e dalla quale si staccò quanto prima, salvo coltivarne per un certo periodo speranze di riscatto.
Anche lo stile letterario mi ha lasciato perplessa. Così dimesso, basso… Roba da farmi pensare: preferisco Fenoglio, senza ombra di dubbio. Poi ho letto che lui aveva usato uno stile volutamente “mediocre” per rendere l’idea della mediocrità dei suoi connazionali. E che i racconti dovevano trasudare “putrefazione”, ossia dare l’idea di una stagnante immobilità
Insomma, mettetela così. Per James Joyce l’Irlanda è un paese di stronzi i quali hanno passato i secoli ha farsi infinocchiare da certa Chiesa cattolica (la “sguattera del cristianesimo”), che ne ha fiaccato la forza spirituale e materiale, e dal governo inglese che li ha oppressi per altrettanti secoli.
Risultato: coglioni e non leoni. Joyce manda a stendere l’idea di un popolo irlandese forte e bellicoso e ne svela la malattia nazionale: la paralisi.
In tale contesto l’artista non può esprimersi e nel suo caso sceglie due vie: l’isolamento e l’esilio (è noto che Joyce si trasferì a Trieste e non fece più ritorno in patria).
Tutti i personaggi di queste short storys, genere proprio da lui introdotto in Europa nei primi anni del Novecento e poi ripreso da moltissimi altri autori, vivono una condizione di immobilità, passività, impotenza. La meschinità, la mediocrità, il mero interesse aleggiano ovunque nei rapporti interpersonali. Non c’è speranza alcuna di uscire dalle secche della propria vita e le azioni si interrompono tutte a metà, impedendo qualsiasi cambiamento.
Il libro fu giudicato diffamante dagli editori che si rifiutavano di pubblicarlo (viene da pensare a Saviano che ha parlato dei mali del Sud con lo stesso risultato).
Sono ancora alle prime storie, ma nella prefazione ho letto che il racconto finale, “I morti”, tanto per tenere l’allegro ritmo del libro, è il significativo compendio di tutte le storie narrate prima e dove la morte è, appunto, l’unico avvenimento di rilievo in un mondo di inetti (soprattutto di sesso maschile, perché le donne hanno qualche guizzo di dignità in queste storie).
La banalità – il maggior interesse di Joyce – è scandagliata con lente impietosa.
Per cui il messaggio che esce dal libro adesso mi è chiaro. Che vita è se ci trasciniamo le nostre pochezze, vacuità, falsità e con esse moriamo? Se non c’è lo slancio di un minimo di quegli ideali, che sembrano tanto inconsistenti, ma che danno sostanza e dignità alla nostra esistenza?
E’ solo una vita miserabile, neanche tanto degna di essere vissuta.
Oltre Dublino purtroppo ce n’è tanti di contesti così.
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