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Note di costume e società. Web diary of social cognizer.
Al Comune di San Remo tutti gli impiegati hanno rubato così tanto che l’Ente continuava a pagare assicurazioni per automobili rottamate ed il figlio di un dipendente andava a scuola con uno scooter del Comune.
Pare che una recente inchiesta abbia svelato il fattaccio.
E ora tutti a cantare su quello che è successo!
L’esimio esponente della Scuola di Francoforte aveva ragione. A fare le rivoluzioni non sono i gruppi di individui integrati nel sistema, quelli che stanno sereni da un punto di vista economico, bensì tutti coloro che ne sono fuori. Quelli che non producono beni e servizi e ne hanno compenso dalla società dei consumi e dei mass media – lui all’epoca pensava a giovani, studenti, donne, cioè proprio i soggetti che fecero il ’68 – oppure, come nel caso odierno, quelli che sono stati espulsi dal sistema.
E’ il caso di migliaia di professori, ata e bidelli precari storici, ormai messi fuori gioco da una politica mangia-cattedre, i quali da Palermo a Benevento proprio in questi giorni hanno organizzato scioperi della fame.
Mica sono i ragazzini che puoi far felici se dai loro l’hi-pod, facebook, la chat, messenger ed i messaggini sms. Che a scuola, invece di entusiasmarsi per la bellezza della conoscenza e per le conquiste del sapere umano, ti dicono distrattamente “che palle”, come se tutto li annoiasse e niente fosse degno della loro applicazione. (Per la cronaca proprio ieri, mentre ero seduta su una panchina col mio portatile, due studentelli delle superiori si baciavano a gogo, ed invece di sacralizzare quei momenti d’amore, da parte della ragazzina era tutto un “che palle” di qua e “che palle” di là. E che palle!).
Sarà, ma io sono alquanto scettica. Se a una classe dirigente non gliene frega niente dell’istruzione figuriamoci delle sofferenze fisiche e morali di altri esseri umani che lottano, soffrono e vanno pure all’ospedale (è capitato anche questo) per reclamare il loro sacrosanto diritto al lavoro.
Come si dice: il sazio non crede al digiuno.
Mi reco all’ufficio postale e la spedizione pacchi di tipo ordinario è aumentata. Da 9.10 euro si è passati agli attuali 11.40 euro, cioè ben
Al che dico all’impiegata: “Mi fa ridere Berlusconi quando dice “non metteremo le mani nelle tasche degli italiani”…
E la gentile impiegata: “Anche di più!”.
Che pacco ragazzi...
Una ricerca condotta da alcuni scienziati americani ha evidenziato che dagli anni Sessanta ad oggi il tempo trascorso dagli studenti sui libri si è dimezzato. Nel 1960 i ragazzi dedicavano allo studio a casa 24 ore. Man mano questo monte ore si è progressivamente ridotto fino ad arrivare alle 12 ore settimanali.
La causa di questa disaffezione verso i libri va ascritta al tempo trascorso davanti alla televisione. Al contrario, la tecnologia internettiana aiuterebbe. Prima per svolgere una ricerca occorreva molto tempo, consultare testi, magari recarsi in biblioteca, trascrivere ed imparare tutto. Oggi le ricerche si trovano bell’e pronte su Internet, anche se il copia e incolla tra gli studenti impazza.
I tempi di concentrazione dei ragazzi si sono notevolmente ridotti e per loro la fatica di trascinare lo studio per oltre un’ora e mezza sembra essere immane. I prof si adeguano, programmando le interrogazioni ed evitando qualsiasi effetto sorpresa.
Intervistato da
Cesare Pavese, letterato di fama mondiale (suoi sono I dialoghi con Leucò, Il mestiere di vivere, Lavorare stanca, La luna e i falò), morì suicida in una stanza dell’albergo “Roma” a Torino, il 27 agosto 1960.
Tutta la sua vita fu caratterizzata da una solitudine titanica, di cui vanno ravvisate le tracce in un’infanzia ed in un’adolescenza dure e difficili. Il grande romanziere soffriva del mal di vivere.
Con amarezza ne “Il mestiere di vivere” egli afferma: “Ho imparato a scrivere ma non a vivere”.
Per ricordare l’anniversario della sua scomparsa il Centro Studi Pavesiani di Santo Stefano Belbo (CN) organizza una serie di manifestazioni, letture, conferenze, dedicate al grande romanziere. Testimonial d’eccezione del sessantesimo anniversario della morte sarà l’attore Alessandro Preziosi, attore molto amato dal pubblico femminile italiano, il quale ha confessato di essere rimasto colpito dalla chiarezza e limpidezza del grande e complesso scrittore.
Nel suo biglietto d’addio Pavese scriveva: “Perdono tutti e a tutti chiedo perdono. Non fate troppi pettegolezzi. Va bene?”.
Da due o tre giorni ho iniziato la lettura di Joyce – per la verità mi mancava ed era una lacuna da colmare –, e devo dire che sulle prime ha destato in me non poca perplessità. Per venirne a capo ho chiesto ragguagli alla collega di inglese e poi mi sono letta tutta la nota critica a introduzione del libro. Solo così ho finalmente compreso la grandezza di questo autore ed il messaggio che lancia con questo libro. Ho apprezzato l’anima libera e fiera dell’artista, ipercritico verso i difetti della vecchia Irlanda, una terra che lui non amò mai molto e dalla quale si staccò quanto prima, salvo coltivarne per un certo periodo speranze di riscatto.
Anche lo stile letterario mi ha lasciato perplessa. Così dimesso, basso… Roba da farmi pensare: preferisco Fenoglio, senza ombra di dubbio. Poi ho letto che lui aveva usato uno stile volutamente “mediocre” per rendere l’idea della mediocrità dei suoi connazionali. E che i racconti dovevano trasudare “putrefazione”, ossia dare l’idea di una stagnante immobilità
Insomma, mettetela così. Per James Joyce l’Irlanda è un paese di stronzi i quali hanno passato i secoli ha farsi infinocchiare da certa Chiesa cattolica (la “sguattera del cristianesimo”), che ne ha fiaccato la forza spirituale e materiale, e dal governo inglese che li ha oppressi per altrettanti secoli.
Risultato: coglioni e non leoni. Joyce manda a stendere l’idea di un popolo irlandese forte e bellicoso e ne svela la malattia nazionale: la paralisi.
In tale contesto l’artista non può esprimersi e nel suo caso sceglie due vie: l’isolamento e l’esilio (è noto che Joyce si trasferì a Trieste e non fece più ritorno in patria).
Tutti i personaggi di queste short storys, genere proprio da lui introdotto in Europa nei primi anni del Novecento e poi ripreso da moltissimi altri autori, vivono una condizione di immobilità, passività, impotenza. La meschinità, la mediocrità, il mero interesse aleggiano ovunque nei rapporti interpersonali. Non c’è speranza alcuna di uscire dalle secche della propria vita e le azioni si interrompono tutte a metà, impedendo qualsiasi cambiamento.
Il libro fu giudicato diffamante dagli editori che si rifiutavano di pubblicarlo (viene da pensare a Saviano che ha parlato dei mali del Sud con lo stesso risultato).
Sono ancora alle prime storie, ma nella prefazione ho letto che il racconto finale, “I morti”, tanto per tenere l’allegro ritmo del libro, è il significativo compendio di tutte le storie narrate prima e dove la morte è, appunto, l’unico avvenimento di rilievo in un mondo di inetti (soprattutto di sesso maschile, perché le donne hanno qualche guizzo di dignità in queste storie).
La banalità – il maggior interesse di Joyce – è scandagliata con lente impietosa.
Per cui il messaggio che esce dal libro adesso mi è chiaro. Che vita è se ci trasciniamo le nostre pochezze, vacuità, falsità e con esse moriamo? Se non c’è lo slancio di un minimo di quegli ideali, che sembrano tanto inconsistenti, ma che danno sostanza e dignità alla nostra esistenza?
E’ solo una vita miserabile, neanche tanto degna di essere vissuta.
Oltre Dublino purtroppo ce n’è tanti di contesti così.
Anni fa, quando ero una giovane squattrinata in cerca di impiego e con un’insana passione per il giornalismo, ebbi l’idea di presentarmi per un colloquio ad una redazione di provincia, sede distaccata di un prestigioso quotidiano nazionale.
Era inverno. Il redattore capo mi disse che potevo andare, capii che mi avrebbe fatto un rapido colloquio e così presi l’automobile, mezz’oretta di viaggio e arrivai.
Le strade erano piene di neve, avevo proceduto adagio ma tutto, avrei fatto tutto pur di realizzare il mio sogno.
Di lì a poco mi ritrovai davanti il redattore capo, con alle sue spalle un’altra eccelsa “penna” della provincia in aspetto dimesso e servile, sguardo basso sulla scrivania, nessuna intromissione nel discorso.
Il redattore capo, che tra l’altro era fratello di un collega che insegnava diritto nella mia scuola, il quale sistematicamente a colazione si faceva comprare il Duplo dagli studenti che confessavano di non poterne più di questa riverenza, evidentemente mancava di signorilità per un fatto di famiglia. Oltre a non farmi accomodare da nessuna parte, oltre ad avermi fatto andare con tutta quella neve per nulla, oltre ad usare un tono sgraziato tutto il tempo, mi tenne lì questi cinque minuti per dire che la redazione non aveva bisogno di altri collaboratori o corrispondenti, che loro “erano arrivati”, che lì si timbrava il cartellino, bla bla bla, così tolsi le tende e me ne andai.
Le vie del Signore sono infinite, e così, di lì a poco, mi ritrovai per il mio lavoro di docente a girarmi i posti più belli e turistici d’Italia, cosa che il redattore capo ed i suoi servili collaboratori non hanno visto in trent’anni di carriera e da uomini “arrivati”.
Non mi ci volle quindi molto per archiviare l’episodio, ma oggi, essendomi capitato di rivedere dall’esterno quella redazione, mi viene da pensare: poverini… Hanno passato la vita a fare gli scribacchini di provincia senza nessuna soddisfazione se non quella di leccare culi ai politici locali.
Non avrei voluto fare la loro vita, neanche se mi avessero pagato a peso d’oro.
Con l’allegra famiglia – si fa per dire, perché ero dannatamente in cerca di un impiego che non si trovava – ci recammo nella villa bunker del nostro, tra le distese verdi della terra irpina.
Portammo anche una bottiglia di Chevas Regal, che fu subito carpita dal personaggio, ed iniziò il colloquio. “Ma vostra figlia è professionista o pubblicista? No, perché se era professionista…”.
Mio padre disse: “Onoré, di solito si bussa alla chiesa grossa”. L’uomo politico rispose: “La chiesa grossa è chiusa”. Mia madre ne ebbe così un nervoso che lì per lì non disse niente, ma poi a casa si sfogò: “Gli stavo dicendo: allora manco i santi ci stanno più!”.
Aggiungo che durante tutto il tempo della conversazione nel suo salottino, sul tavolino davanti a noi c’era un enorme vassoio strapieno di grossi cioccolatini avvolti nella carta rossa. Il grande politico mica si degnò di dirci: “Prendete pure”. Manco per sogno…
Quella fu la prima e l’unica volta che ci parlai. E’ stato un piacere non rivederlo.
Così potrei intitolare la mia storia d’amore con questa cara città, che sto per lasciare. Che è stata l’alba di una persona nuova, più forte, forgiata da tante prove di pazienza di perseveranza, ma più forte, resa pura come il metallo forgiato dalla fiamma.
Tu sei il mio mitico amore. Ti porto dentro. Mi hai donato tanta conoscenza, tanti affetti, ma come dicevo anche tante prove. Ho avuto tanta pazienza con te, ma tutto l’amore con cui mi ripaghi mi fa capire che mi vuoi bene. Che ho dovuto guadagnarmi la tua fiducia, ma che ormai sono parte della tua gente, dei tuoi quartieri, del tuo cielo. Che essere stata qui in questi ultimi anni e stare qui, anche se ancora per pochi giorni, è per me stare a casa, in un posto che la divina provvidenza mi ha posto davanti perché ne avessi frutto.
Mi hai donato libertà. Mi hai dato una vita piena, bella, importante.
Sei dolce come un angelo. Sei forte come un leone. Sei paziente come un bue. Sei intelligente come un’aquila.
A te, il mio infinito amore.
1^ posto
Amministratori delegati di società private
Quando si dice “chi maneggia festeggia”. Per le loro mani passano tutti i soldi e le buste paga dei dipendenti e i bilanci delle aziende. Come sacrificio è richiesto l’uso giornaliero di giacca e cravatta, un sacrificio tutto sommato sopportabile per i vantaggi che se ne possono ricavare. Avere questo posto, infatti, puo’ fruttare 250mila euro all’anno. Il che significa essersi sistemati per la vita.
2^ posto
Medici
Ovviamente fatte le debite distinzioni tra quelli agli inizi della carriera, i passacarte ed i professionisti affermati e di grido.
3^ posto
Broker finanziari
Ovvero intermediari di capitali tra società a vario titolo e persone fisiche. Una professione al cardiopalma. I guadagni sono elevatissimi, ma vi sono anche concrete possibilità di rimetterci tutto.
L'edizione 2010 ha come tema «Che cos'è l'uomo, che cosa lo rende irriducibile a qualsiasi potere, a qualsiasi ideologia, a qualsiasi circostanza». Un tema ripreso anche nel messaggio inaugurale inviato dal Papa Benedetto XVI.
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, contrariamente a quanto si credeva all'inizio della kermesse, non è stato invitato. Lo ha smentito Emilia Guarnieri, presidente del Meeting.
I numeri della manifestazione135 gli incontri proposti
19 gli spettacoli
8 le mostre
16 le manifestazioni sportive
Come si dice, un grande evento.
''La giustizia sportiva e' una buffonata'', 6 luglio 2006, su Calciopoli.
''E' anche vero che io abbia una origine familiare di grandi tradizioni repubblicane, antifasciste, radicali e massoniche. Ma non sono stato e non potro' mai essere massone perche' sono cattolico'', 16 ottobre 2009, sui suoi rapporti con la massoneria.
''Violante e' un piccolo Vishinski'', luglio 1991 - In risposta all'esponente del Pds.
''Io ho dato al sistema picconate tali che non possa essere restaurato, ma debba essere cambiato'', 11 novembre 1991, alla presentazione del libro ''Cossiga, uomo solo'' di Paolo Guzzanti.
L'incendio del Castello aragonese che si ripete ogni anno a Sant'Anna.