La figura del giornalista è irregolare, da sempre. Volerla sottoporre a delle regole certe non è un’illusione. E’ un’insensatezza. Il caso dell’ennesima “scuola di giornalismo” – la si vorrebbe ad Avellino e sarebbe intitolata alla memoria di Biagio Agnes – ha un merito: non solo mostra l’inflazione delle scuole, ma anche la loro inutilità. Le scuole, come è stato osservato, sfornano disoccupati, ma pretendere che sfornino occupati è anche peggio. Il giornalismo non si impara a scuola. E, per dissipare ogni equivoco, non s’insegna neanche. E’ troppo vicino alla vita. Qualcuno è in grado di insegnarvela? Solo i maestri, ma si sono estinti come i dinosauri.
Se volete una vita lavorativa sicura fate un altro mestiere. Se volete praticare giornalismo – e non è un caso che dica “praticare giornalismo” perché si tratta prima di tutto di un’attività umana e non di un impiego – dovete fare l’unica cosa che vale per un giornale (di qualunque tipo sia): trovare notizie. Ce ne sono di tanti tipi: cronaca, costume, sport, politica, cultura. Il mondo è vario, trovate il vostro posto nel mondo e metteteci dentro interesse, passione, disciplina. E’ vero che il giornalista deve saper scrivere tutto, ma l’idea che debba sapere tutto o non debba sapere nulla è risibile. Un buon giornalista ha quasi sempre una sua specialità: ha fatto studi di giurisprudenza o di lettere o di medicina o di storia. Gli unici studi di cui il giornalista può fare a meno sono gli studi di giornalismo.
Una volta trovata, la notizia va scritta (per me il giornalismo è soprattutto scritto). Per imparare a scrivere ci sono due regole da rispettare: parlare in italiano e leggere chi sa scrivere. Il resto viene da sé. Con la pratica. La pratica genera miglioramento e occasioni. Ogni giornalista ha dietro di sé la gavetta. Il giornalista senza gavetta non esiste o esiste solo nelle scuole di giornalismo, dunque, non esiste. La gavetta dà occasioni. A ognuno è data la propria occasione. Bisogna saperla costruire e afferrarla quando si presenterà.
Sento già la domanda: “Sì, è bello parlare. Ma tu come hai fatto?”. Esattamente come vi ho detto. Ho iniziato cercando notizie. Anche minime, ma notizie. Ho curato un interesse: politica e cultura. Ho fatto la gavetta. Non sono stato mai sfiorato dall’idea di frequentare una scuola. Meglio le redazioni. Anche piccole. Anche scombinate. Ma redazioni. “Già, ma chi ti ha assunto? E perché?”. Mi ha assunto, bontà sua, Vittorio Feltri. Ancora non ho capito bene perché. Erano i primi giorni di vita di Libero. Gli mandai un pezzo. Lo chiamai al telefono e gli dissi: “Ti ho inviato un pezzo. L’hai visto?”. Chiamò la segretaria e se le foce portare. Il giorno dopo lo pubblicò. Era un pezzo sulla scuola e Leo Longanesi. Gliene mandai un altro sull’esilio dei Savoia. Fu poi la volta di un ritratto di Mastella che finì in prima pagina. Mi chiamò Renato Farina e mi disse: “Vieni a Milano che Feltri ti vuole conoscere”. Ci andai. Faceva un gran caldo ma Feltri era vestito alla sua maniera: impeccabile, ma con naturalezza. Parlammo un po’. Sulla scrivania aveva il pezzo che gli avevo mandato qualche giorno prima. Era un articolo su Tonino Di Pietro. Da uomo di mondo qual è mi disse: “Non l’ho messo perché o pubblicavo il mio o il tuo”. Era il 19 agosto 2000. Si meravigliò che non avessi ancora un contratto. Me lo fece lui. Il 1° settembre ero in servizio nella redazione di Roma: piazza Sant’Andrea della Valle. A ognuno è data la sua occasione. Sempre che si lavori per averla.
(L’articolo è finito o ritengo che sia finito e non ho parlato della storia dell’Ordine, di cui è diventato presidente un galantuomo come Enzo Iacopino. Il paradosso è questo: se vuoi fare il giornalista devi essere iscritto all’Ordine ma per iscriverti all’Ordine devi essere giornalista. Non è un problema solo del giornalismo: è l’Italia che è fatta a scatole o corporazioni. Magari, però, ne parliamo un’altra volta).
GIANCRISTIANO DESIDERIO
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