giovedì 29 maggio 2008

Il paese che odia i giovani

(Passi tratti dal testo di Curzio Maltese Come ti sei ridotto, pubblicato nel 2006)

Non capisco perché noi italiani odiamo tanto i giovani, a partire dai giovanissimi, dai bambini. Non ci hanno fatto (ancora) nulla. Senza contare che non esiste sentimento peggiore di un odio inconsapevole, camuffato addirittura dalla convinzione di amare. D’accordo, la questione giovanile non va più di moda, e meno male. Soltanto nominarla infastidisce tutti, a cominciare dai diretti interessati, i giovani. Era l’ossessione degli anni sessanta e settanta, quando i giovani avevano molte più speranze
Ma se la vitalità di un paese si misura con il ruolo delle nuove generazioni, allora l’Italia non è in declino. È in coma. E neppure tanto vigile. “Avevo vent’anni e non permetterò a nessuno di dire che è l’età più meravigliosa della vita”, scrive Paul Nizan. Ma qui l’età meravigliosa non arriva neppure a venticinque, trenta, trentacinque.
La società italiana i giovani li coccola, li vizia ma non li ama. Vanta di continuo i sacrifici fatti per loro, che non è bello, e li tiene stretti nella morsa familiare fino al limite.
Chi ama lascia libero. “I nemici si tengono stretti” è un precetto della mafia. È del resto strano che, in un paese dove i figli – le creature – sono tanto amati, una donna condannata a trent’anni per infanticidio come la signora Franzoni possa diventare una diva della tv, attraverso centinaia di ore di programmi dove si rivive nel dettaglio il massacro di un bambino di tre anni in una camera da letto trasformata in stanza degli orrori, senza che a nessuno scatti la normale, antica identificazione con il bambino o con gli altri due figli della signora che sono rimasti a casa a guardare.
A parte questi tratti patologici, l’odio per i giovani è nei numeri di una pazzesca emarginazione.
Nella nostra vita pubblica, le persone tra i venti e i quarant’anni non contano nulla. Abbiamo la classe dirigente più anziana d’Occidente e i livelli di occupazione giovanile più bassi dell’Europa ricca. In più, quelli che lavorano sono precari, mal pagati. Un ventenne o un trentenne italiano guadagna in media la metà di un coetaneo inglese o tedesco. Perfino mille euro in meno di uno spagnolo. La “paghetta” è la principale fonte di entrate per due terzi di giovani italiani, contro il 15 per cento dei britannici. Il 66 per cento degli italiani dai diciotto ai trentacinque anni abita ancora con i genitori. È il quadruplo degli inglesi, e con i confronti preferisco fermarmi qui […] La statistica agghiacciante sulla permanenza nella casa paterna non ha mai scatenato un dibattito sul diritto alla casa: comicamente, è considerata una prova di attaccamento ai valori della famiglia. E i giovani italiani amano la famiglia al punto che si guardano bene dal farsene una.
All’università è ridotto a fare il portaborse del barone e scrive in un metalinguaggio accademico lontanissimo dalla semplice bellezza delle parole amate nell’infanzia. I pochi studenti che per vent’anni hanno coltivato in clandestinità la propria intelligenza, alla laurea giustamente emigrano all’estero, in misura sempre crescente. L’anno scorso nei soli Stati Uniti sono scappati in seimila.
Un’altra missione cruciale del sistema dell’istruzione è proteggere e far accettare ai giovani l’immobilità sociale. L’Italia è un paese dove chi nasce povero muore povero e chi nasce ricco muore ricco anche se è un imbecille. Per un giovane italiano di talento le possibilità di migliorare la propria condizione economica sono un sesto rispetto a un coetaneo statunitense. L’antimeritocrazia è il criterio, lo strumento è il familismo. La rassegnazione che circonda la faccenda è deprimente.
CURZIO MALTESE

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