martedì 27 agosto 2024

I piccoli paesi lucani, le aree interne e i soldi che girano

 (Michele Finizio

Non sarà con la cultura “fritta e mangiata”, riservata ai “picnic eruditi” dei viaggiatori dell’estate e della domenica, che si salveranno i borghi in via di estinzione, ormai diventati luoghi della consumazione

Strategie per le aree interne e rurali, turismo delle radici, turismo religioso, attrattori costosi e a volte fallimentari. Azioni che appaiono, nel migliore dei casi, come un fronte di resistenza all’inesorabile spegnimento dei piccoli paesi. Nel peggiore dei casi si tratta di soldi, soldi in gran quantità “investiti” – si fa per dire- in una miriade di iniziative buone per tre giorni o una settimana, e ancora più buone per chi riceve quel denaro in cambio di qualche performance. Direzioni artistiche, anche improbabili, animatori, teatranti e musici, cucinieri e inventori di coriandoli. Il popolo “alternativo”, quello che non “soffre la fame” e vanta di possedere qualche centimetro di cultura superiore alla media, partecipa, balla, canta. E ascolta i sermoni pseudo-filosofici e poetici di taluni esperti di danza della pioggia. Poi tutti a casa. Il borgo torna alla sua solitudine e ai suoi problemi di sopravvivenza. A finanziare queste meteore annuali, la Regione, l’Apt, aziende e imprenditori privati, e anche i GAL. Soldi. Decine di milioni.

C’è un “accanimento terapeutico” sulla bellezza vera o presunta dei luoghi. Il che vuol dire puntare, con patetica insistenza, sul turismo, sulla dimensione ludica e sulle tavolate di prelibatezze tipiche del borgo. Qualcosa di comico avviene quando si scopre che il piatto tipico del paese pinco pallo è sostanzialmente uguale al piatto tipico del vicino paese Pallo pinco, magari cambia solo il nome. Eppure sembra che quella pietanza, quella montagna, quel paesaggio incantevole, quelle tradizioni “popolari” (una volta lo erano quando c’era il popolo) salveranno quei luoghi dalla definitiva dipartita. Intanto, tutto questo serve a distribuire soldi. E al momento, per alcuni, è l’unica cosa che conta, il resto si vedrà.

Secondo la logica dell’accanimento terapeutico sulla bellezza, si salveranno soltanto i paesi che, in base a banali criteri, sono affascinanti o lo diventeranno. Tutti gli altri, quelli “brutti”, avranno a che fare con un futuro che viaggia sul binario morto. Eppure, tutti hanno la stessa luna e lo stesso cielo. Tutti hanno lo stesso cibo, le stesse strade incerte e tortuose. Tutti hanno gli stessi problemi: l’assenza o la carenza di servizi per la vita; le distanze dal resto del mondo. E non sarà con la cultura “fritta e mangiata”, riservata ai “picnic” eruditi dei viaggiatori dell’estate e della domenica, che si salveranno.

Devo ripetermi. I piccoli paesi ridotti a luoghi di rappresentazione hanno invece bisogno di essere luoghi di creazione. E allora? Che i paesi siano luoghi di Arte e Cultura, anziché di poesie alla brace e di leggende in tempura. Siano soprattutto luoghi di creazione non di destinazione. Siano luoghi della realtà e non contenitori di simboli. Sembra una banalità, ma non lo è. Ancora una volta per capire la verità della fatica della gente che vive o sopravvive nei piccoli paesi è Vito Tetiche dobbiamo ascoltare: “Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.” E questo non è possibile se i borghi continuano a trasformarsi in luoghi della consumazione di ciò che resta e dei soldi che girano.

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venerdì 16 agosto 2024

venerdì 9 agosto 2024

CHIE ERA ISABELLE COLONNA?


(Memorie di Roma) - Dove la Principessa Isabelle Colonna riceveva la Regina Elisabetta....

A Palazzo Colonna, uno dei palazzi patrizi più maestosi del mondo, dove si apre una galleria che non ha nulla da invidiare ai grandiosi saloni di Versailles, i Principi Colonna conservano l’ appartamento della Principessa Isabelle esattamente com’ era quando lei era ancora in vita.
Qui è possibile ritrovare la stessa atmosfera raccolta, la stessa cura nei dettagli e l’ attenzione a non spostare le foto di famiglia, accanto alla celebre collezione che raccoglie ben trentasette vedute di Vanvitelli.
E non è l’ unico primato di questi ambienti, che si trovano nel piano terreno del palazzo sorto sulle fondamenta dell’ antico Tempio di Serapide.
Isabelle Colonna, (Beirut 1889 - Roma 1984) nata Sursock, famiglia di origine bizantina stabilitasi in Libano dal diciassettesimo secolo, si innamorò del Principe Marcantonio, che la portò in Italia, dove seppe inserirsi con successo nella società romana.
“Gran dama di corte, intelligente, colta, conservatrice nel senso più puro e coerente, dopo la caduta della monarchia si era trovata a sostituire Maria Josè come “regina supplente “, offrendo ricevimenti regali, cui erano ammesse unicamente teste coronate e fra i borghesi soltanto finanzieri e banchieri, purché, ovviamente, non fossero divorziati. Ospitò anche la regina Elisabetta II".
L'impronta della Principessa Isabelle, è particolarmente evidente nel suo appartamento rinascimentale al piano terreno, che ha abitato oltre 70 anni e che oggi è a lei dedicato.
Negli ultimi anni di vita il suo appartamento si era trasformato in uno scrigno di tesori, che amava mostrare soltanto agli amici più intimi.
Uno dei pezzi più rari è l’ orologio notturno dipinto, custodito tra due bauli all’antica nella Sala della Fontana:
all’ interno un meccanismo silenzioso muove i numeri retro-illuminati da una candela.
Solo un altro dei tanti tesori nascosti in questa dimora, che rivela come spesso si possa convivere tranquillamente a contatto con assoluti capolavori.
Fonte COSTANTINO D’ORAZIO



VOLTAIRE SUL POTERE

 


LA VIA APPIA REGINA VIARUM

mercoledì 7 agosto 2024

LA FESTA DEL SANTO PATRONO

 


Questo magnifico scatto è della docente e antropologa visuale Annalisa Cervone.
Le luminarie, la cassa armonica, la banda musicale, il piccolo pubblico attento e l'anziana donna di paese, vestita, appunto, a festa, che in quella festa ritrova il senso della propria comunità, oltre che della sua propria identità.
Il senso della radicamento alla terra ed alla comunità di nascita è qui magistralmente colto, ricordandoci che il momento della festa paesana, tra bevute, mangiate, preghiere al santo e stornelli che ricordano la fatica contadina, quel radicamento, insomma, è ciò che va mantenuto vivo più che mai, proprio nell'epoca in cui il mostro della globalizzazione fagocita e distrugge identità, differenze, sapienze millenarie. 
E' proprio disintegrando e sradicando le varie culture, nella bellezza delle loro differenze, che il livellamento verso il basso e l'infelicità individuale e collettiva è pronta per essere servita. Anche gli emigranti che ritornano una volta all'anno proprio per quella festa hanno bisogno di ritrovare lo spirito comunitario della loro infanzia e della prima giovinezza.
Pertanto, la festa diventa molto più che un momento di unita offerta al Santo Patrono: diventa il modo per sentire di "appartenere" ad un contesto comunitario, anche se lo si è lasciato da anni. Diventa il recupero dell'orgoglio delle radici, senza le quali è difficile, se non impossibile, costruirsi come persona e progettarsi come futuro.

Eloquente, è questa riflessione di un accademico sannita, il professor Pier Luigi Rovito: 

La foto di Annalisa Cervone esprime al meglio il valore della musica portata in piazza dalla banda, nella festa del Santo patrono. A sera dopo la processione. Poi, a conclusione, gli ultimi squilli di tromba sugli spari che illumineranno il cielo dell' addio. L'atteggiamento assorto della donna, l' abito della festa, i capelli bianchi, le vecchie luminarie, le sedie vuote attorno al palco, raccontano di letizia e di tristezza al tramonto della società comunitaria che un tempo sorreggeva queste feste. Ora divenute le sagre dei restanti e dei ritornanti al vecchio ovile. Per respirarne qualche refola d'aria, forse l' ultima. Siamo sul ciglio di un burrone sul nulla: paesi abbandonati, terre del pane invase dagli sterpi, desertificazione. È questo scenario ad imporre la necessità che i brandelli sempre più pallidi della tradizione, siano conservati con cura, vezzeggiati, proposti con testardaggine. Nella consapevolezza che senza queste radici svaniranno anche le speranze di futuro. Inesistente per le comunità disperse. Né potrà il vento sostituire i tocchi sferzanti di flicorni e tamburi nei giorni di festa. Poco importa se un po' scalcagnati.

domenica 9 giugno 2024

PER FAR CRESCERE I FIGLI SERENI E INTELLIGENTI C'E' UN'ARMA FORMIDABILE: LA LETTURA

(Assedio Bianco) - Abituare i bambini a leggere significa assicurare loro uno sviluppo più armonico, con performance scolastiche e in generale intellettive migliori, e con un rischio di depressione e altri disturbi dell’umore inferiore. Lo dimostra un grande studio condotto in collaborazione da ricercatori britannici, dell’Università di Oxford, e cinesi, della Fudan University di Pechino, pubblicato su Psychological Medicine, che ha preso in esame la storia di oltre 10.200 ragazzi. Gli autori hanno infatti analizzato i risultati ottenuti in indagini strumentali quali le risonanze, e poi test, interviste e resoconti scolastici di ragazzi che avevano acquisito l’abitudine a leggere regolarmente tra i due e i nove anni, oppure in giovani che avevano sempre letto poco, iniziando più tardi, o non avevano mai letto, trovando innanzitutto che le due tipologie rappresentano, grosso modo, metà della popolazione degli adolescenti ciascuna. Dopo aver introdotto numerosi fattori correttivi come lo stato socioeconomico della famiglia di provenienza, hanno poi verificato i risultati scolatici e visto così un chiarissimo legame tra il rendimento, le abilità verbali e quelle associate alla concentrazione e alla memoria, e il fatto di aver iniziato a leggere da piccoli. Inoltre, gli ex bambini lettori erano stati decisamente meno colpiti  da depressione, tendenza a mostrare aggressività e insofferenza alle regole e altri disturbi psicologici tipici dell’adolescenza. Infine, tendevano anche a passare meno tempo di fronte a un device come un cellulare o un computer, e a dormire più a lungo e meglio. Tutto ciò ha trovato riscontri anche nelle risonanze magnetiche, che hanno mostrato un maggiore sviluppo nelle aree specifiche. Abituare i bambini alla lettura fino dalla più tenera età è dunque un gesto che ha ripercussioni su tutto il loro sviluppo. Non bisogna comunque esagerare: secondo gli autori, il quantitativo di ore da dedicare alla lettura è di 12 ore alla settimana, perché per i bambini è importante anche avere spazio per l’attività fisica (meglio se all’aria aperta), il gioco la socializzazione con i coetanei e anche l’assenza di qualunque occupazione.

A.B.
Data ultimo aggiornamento 6 luglio 2023
© Riproduzione riservata | Assedio Bianco

domenica 7 aprile 2024

GUSTAW HERLING-GRUDZINSKI E LA SUA CASA DI NAPOLI

 

A Napoli, nella signorile via Crispi, sede di prestigiosi uffici e di svariati consolati, c'è la casa dove abitò lo scrittore polacco Gustav Herling-Grudzinski (1919-2000), tra i più grandi del Novecento. Catturato dai bielorussi, fu condannato a due anni di gulag, su cui scrisse il libro Un mondo a parte (Inny świat. Zapiski sowieckie (1953, già pubblicato in ingl. nel 1951; trad. it. Un mondo a parte, 1958) a lungo ignorato dalla critica e respinto dalle case editrici. In esso, per la prima volta svelava al mondo l'esistenza dei lager sovietici e gli orrori che le vittime vivevano lì dentro. Il filosofo inglese Bertrand Russell, di questo libro scrisse: “Dei molti libri che ho letto sulle esperienze delle vittime delle prigioni e dei campi di lavoro sovietici, Un mondo a parte di Gustaw Herling è il più impressionante e quello scritto meglio. Egli possiede a un grado assai raro il potere della descrizione semplice e vivida, ed è del tutto impossibile mettere in dubbio la sua sincerità in ogni punto".
Grudzinski proveniva da una agiata famiglia ebrea. In prime nozze sposò la pittrice Krystyna Domanska, morta suicida pochi anni dopo e poi, nel 1955, Lidia Croce, figlia del filosofo Benedetto Croce. Scherzando, Gustav si definiva "un polacco-napoletano" ed è Napoli la città in cui è morto ed è sepolto. Per tutta la vita scrisse denunciando i crimini commessi dal regime sovietico. 
In quella casa qualche volta era stato Piero Craveri, nipote di Benedetto Croce e mio professore all'Università Federico II di Napoli. Insegnava Storia delle istituzioni parlamentari. Craveri, primogenito di Elena Croce (primogenita di Benedetto) era un signore d'altri tempi. Aveva svolto anche attività politica al comune di Napoli. Era stato eletto senatore nel 1985. Mi ha fatto un certo effetto sapere della sua scomparsa. Se ne è andato il giorno prima della Vigilia di Natale 2023. Craveri era uno storico di area liberale. Si è occupato di studiare a fondo la figura di Alcide De Gasperi, di cui riconosce i meriti nella costruzione dell'Italia nel primo dopoguerra. Nei suoi ultimi libri, lo studioso esprimeva pessimismo sulle istituzioni rappresentative italiane. Forse ha ragione: gli è toccato in sorte di parlare di statisti come De Gasperi, per arrivare ai "politici" che ci ritroviamo oggi. 


venerdì 22 marzo 2024

CORSO ACCELERATO DI IMBECILLITA' SUICIDA

(MARCELLO VENEZIANI) - Ma in che mondo ci stanno portando? Dunque ricapitoliamo la situazione per chi si fosse distratto, avesse perso il filo complessivo della situazione o si fosse messo in contatto con il mondo solo adesso, dopo aver vissuto da automa. Stando a quel che abbiamo appreso in questi giorni, noi dovremmo scendere in guerra con Putin, chiudere un occhio sugli eccidi di Gaza perché non sono un genocidio, interrompere ogni tentativo di arginare i flussi migratori, non celebrare le nostre feste religiose ma solo il ramadam, inserire nella Costituzione non più il diritto alla vita ma il diritto ad abortire, seguire le prescrizioni woke nelle scuole, nelle università, sui social, in famiglia e nelle relazioni pubbliche e private, ovunque. A suggerirci questo catechismo non sono isolati maestrini che si sono bevuti il cervello, ma nell’ordine i vertici dell’Unione europea e di alcuni suoi governi nazionali, come la Francia.

L'ARTICOLO COMPLETO

domenica 17 marzo 2024

DIRITTO AL RIPOSO E ALLA STANCHEZZA

(🖊️Silvia Morosi @silvia.morosi) IL DIRITTO AL RIPOSO (E ALLA STANCHEZZA) - «Ogni individuo ha diritto al #riposo e allo svago… | Instagram


(🖊️Silvia Morosi @silvia.morosi) IL DIRITTO AL RIPOSO (E ALLA STANCHEZZA) - «Ogni individuo ha diritto al #riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite», recita l’articolo 24 della Dichiarazione universale dei diritti umani (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948). In una società iper-produttiva, che ha fatto dell’avere l’agenda piena uno status e si è dimenticata del tasto “off”, ci sentiamo spesso in colpa se ci prendiamo del tempo per staccare. Del tempo per noi. Il tema mi sta a cuore e ci rifletto da mesi: ma siamo davvero sicuri che il riposo e la #stanchezza non siano due diritti per cui battersi senza vergogna?


domenica 10 marzo 2024

SCRITTRICI DIMENTICATE

 

Se per "canone" si intende l'insieme dei testi che chi insegna storia letteraria considera imprescindibili letture di ogni persona colta...

venerdì 1 marzo 2024

ELOGIO DELLA SPREZZATURA IN BALDASSARRE CASTIGLIONE

Baldesar Castiglione -Il libro del Cortegiano 


XXVI. 


Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosi il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simileal reFerrando minored'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosi da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. M a avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande 

ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'I studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, aria dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l'arte ed un cosi intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Q ual di voi è che non rida quando 11 nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi? 

Qual occhio è cosi cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosi la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare? 


sabato 10 febbraio 2024

GLI STUDI DEL GRUPPO "ISTRIA ITALIANA"


(Daniele De Folchi) -  Sabato Febbraio 2024 ,noi del gruppo di ricerca ISTRIA ITALIANA commemoriamo il giorno del ricordo,istituito dal senatore Roberto Menia con Legge n.92 del 30 Marzo 2004.

Con desiderio di brevità, senza un pensiero sentenzioso, e con coscienza di persona e collettività giusta, e tralasciando le passionalità, le faziosi valutazioni, e le polemiche inutili e dannose che in un giorno come questo mancherebbero di rispetto a tutti quelli che subirono il dramma dell'esilio, vogliamo ricordare, sì ricordare.
Ricordare e commemorare a perpetua memoria l'esodo delle genti italiani dell'Istria, di Fiume e della Dalmazia,che tra il 1943 e il 1948,dovettero subire le angherie, le uccisioni,e gli infoibamenti da parte del tumultuoso giustiazialismo slavo e che, a guerra finita, si videro costretti ad abbandonare la loro terra natia per gli atti coercitivi dei partigiani slavo comunisti.
Tanti perirono dentro le foibe o nei campi di concentramento di Goli Otock o Borovnica,tanti altri abbandonarono la regione istriana, quarnerina, e dalmata risalendo fino a Trieste o imbarcandosi sul traghetto Toscana(visibile anche qui in foto)che da Pola portava a Venezia e Ancona.
Un esilio di 350000 persone che non aveva più nulla. Non aveva più i loro negozi, le loro botteghe, le loro case,i loro terreni, il contatto con la loro terra, e con i proprio affetti.
Arrivati in Italia vennero stipati lungo tutto lo stivale, in caserme, depositi, e luoghi di fortuna.
In questi campi vi rimasero per anni, prima di riuscire a rifarsi una vita,in Italia o altrove.
Una ferita e una lacerazione di un passato che si ripercuote ancora nel presente, di un tempo che trascorre ma che non passa, che solo da qualche anno vede la possibilità di farsi conoscere e di dare giusto merito alle indicibili sofferenze delle genti dell'Istria, Fiume, e Dalmazia.

venerdì 9 febbraio 2024

FAUSTA CIALENTE: L’AVVENTURA DI RADIO CAIRO


A guerra dichiarata, com’era da prevedere, restammo senza notizie, gli uni e gli altri. Potevamo comunicare solo con i messaggi della Croce Rossa o attraverso la Svizzera dove, per fortuna, una sorella di mio marito visse a Losanna durante quegli anni. L’Egitto, occupato dagl’inglesi ch’erano costretti a far la guerra ai fascisti e nazisti in Libia, era effettivamente un paese nemico.

Per quanta indignazione potesse sollevare in noi lo spettacolo d’una seconda guerra mondiale (a poco più di vent’anni dalla fine della prima) che si sarebbe potuta evitare, con tutti gli orrori a cui ci fece assistere, se la chiara lezione che ci aveva dato la guerra in Spagna e il trionfo del franchismo fossero almeno serviti a far intendere agli stati europei, Francia e Gran Bretagna in prima linea, che non bisognava, per l’eterna paura del “bolscevismo”, proteggere i fascismi, non mi sentii sperduta come la prima volta. La grossa esperienza non era stata inutile. Perciò, quando nell’ottobre del ’40, dagli ufficiali inglesi della propaganda mi venne offerto d’iniziare una trasmissione antifascista alla radio del Cairo, accettai subito; non con entusiasmo, perché sarebbe stato difficile averne nelle condizioni in cui mi sarei trovata, già lo sapevo, collaborando con quello che avrebbe dovuto essere il “nemico ufficiale” e del cui sincero antifascismo dubitavo assai; ma lo sentii lo stesso come un preciso dovere. Era un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io.

Dovetti quindi trasferirmi da Alessandria al Cairo e in un primo momento non ritrovai gli entusiasmi che la bellissima città, superbamente adagiata sulle rive del Nilo, aveva sempre suscitato in me col suo paesaggio, i suoi colori e i suoi odori – poiché un paese è fatto anche di questi, sopra tutto in Oriente. Il duro lavoro che avevo accettato, i problemi che dovevo affrontare, mi fecero, durante anni, in apparenza una solerte e precisa funzionaria; in realtà svegliarono una persona che non avrei mai supposto di poter essere, con tutta la malizia, l’arroganza, la capacità d’intrigo e d’aggressione che richiedevano la quotidiana difesa dell’indipendenza e dell’efficienza del nostro lavoro; perché non ero sola, evidentemente, avevo i miei bravi e fedeli collaboratori che per fortuna m’erano stati imposti. Non ero più la “scrittrice”, avevo perfino dimenticato d’esserlo stata, mi sembrava che non avrei più potuto perder tempo a “inventare storielle”, la crudeltà della guerra mi faceva vedere questo come la cosa più inutile del mondo. Avevo torto, ma così è stato.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 222-223.

(Alle pp. 232-233 parla della morte di Renato Cialente)


La scrittrice Dacia Maraini, nella sua consueta recensione per Quante Storie, ci parla dell'avventurosa vita di Fausta Cialente così come ritratta nel romanzo "Radio Cairo" di Maria Serena Palieri.

FAUSTA CIALENTE: EQUIVOCO SU MUSSOLINI


Mia madre pensò subito ad avvertirmi: Mussolini era, secondo lei, il nuovo genio benefico d’Italia e ci stava conducendo verso i più alti destini; mi raccontò pure, ridendone, come una volta, mentre era sua ospite a Gradisca e c’era stata una gran manifestazione per un passaggio del “duce”, l’avesse veduta tutta spòrta dalla finestra, col rischio di precipitare sotto, applaudirlo con entusiasmo fino a “rompersi le mani”, il viso inondato di lagrime.

Quella che io avevo creduto intelligenza non era stata altro. Dunque, se non una buona cultura musicale e letteraria. Incapace oggi ancora di farle intendere come la sua città stesse già soccombendo a tutti i punti di vista da quando aveva la “fortuna” di appartenere al regno d’Italia. Naturalmente, non sollevai nessun problema del genere, nemmeno quello, vergognoso, del razzismo fascista contro gli sloveni, tanto non avrebbe capito, o, peggio ancora, non mi avrebbe creduta; e il mio soggiorno a Malborghetto fu piacevole, il clima di mezza montagna mi aveva presto guarita e con me la zia era gentile e affettuosa.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 219-220.

domenica 4 febbraio 2024

FAUSTA CIALENTE: LA RICCA CULTURA LEVANTINA

Straniera, o distaccata, mi sentivo anche in Egitto, e non poteva essere altrimenti benché il paese e la vita che facevo mi piacessero. Avevo buoni rapporti con la mia nuova famiglia israelita nonostante avessero quasi tutti aderito sentimentalmente al fascismo, fin quando la persecuzione contro gli ebrei, con la sua rude scossa li costrinse ad aprire gli occhi e il cervello. A mia suocera, finché era vissuta, avevo voluto molto bene; era una donna incolta ma gran signora, intelligente e generosa, che tendeva però a comandare energicamente sui figli e sulle figlie, e a tutti mi preferiva perché la rispettavo e le obbedivo; con grande tenerezza mi occupavo della mia bambina er ero felice quando mia madre veniva a trascorrere qualche mese nelle ville che abitavamo nei quartieri residenziali lungo il mare, circondate da giardini verdi e fioriti in tutte le stagioni. Ricordo il suo stupore nel vedere come la vita intellettuale fosse in quegli anni vivace e diffusa in Levante. Il teatro francese e inglese veniva regolarmente, e così le grandi orchestre e i grandi solisti; ogni stagione ci recava qualcosa di nuovo o di attraente, la Palestina ci mandava il famoso complesso teatrale dell’”Habima” col Dibbuk, il Golem, il Re David, l’Uriel Acosta, e benché non conoscessi affatto l’ebraico non perdevo nessuna di quelle straordinarie rappresentazioni; e lo stesso mi accadeva col teatro greco e i suoi prestigiosi attori.

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 211-212

FAUSTA CIALENTE: LA MARCIA SU ROMA. LE COLPE DELLA BORGHESIA

Mi ero sposata qualche anno dopo la fine della guerra e avevo lasciato l’Italia mentre il fascismo, che s’era apertamente messo al servizio d’una miope politica di conservazione, andava facendosi le ossa. La borghesia, fossero gl’industriali del nord o gli agrari del sud, aveva più che mai l’aria di volersi finalmente vendicare sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto – le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse – e si proponeva senza ulteriori indugi ad agguantare il potere. Il caso volle che al mio primo viaggio di ritorno dall’Egitto, mio marito ed io assistessimo a Milano alla partenza della “Marcia su Roma”. Una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti era radunata in Piazza del Duomo, nel semibuio d’una sera d’ottobre; pochissima gente intorno e dalla Galleria, dove noi eravamo, partirono qualche fischio e qualche applauso, ma nulla di più. Già si sapeva che quei bravi sarebbero comodamente andati in treno e difatti, scendendo poi l’Italia per imbarcarci a Brindisi, li avremmo ritrovati a Firenze, dove per l’ultima volta avrei incontrato la sorridente e affettuosa Myrrhine. Ma, prima di partire, andammo a salutare mio padre e mia madre che abitavano di nuovo a Milano (non si erano ancora separati, come avvenne in seguito), e raccontammo quel che i giornali del mattino avevano annunciato. Mio padre posò il sigaro sul posacenere e guardandoci in viso disse freddamente: «Lo so… ed ora ne avremo per trent’anni».

(Sbagliò di dieci). Io lo guardai esterrefatta, non avevo capito dal suo tono gelido se assistevamo a qualcosa che, secondo lui, si doveva o no accettare, ma, riprendendo il sigaro e dopo averlo riacceso aveva aggiunto con impassibile disprezzo: «Siamo un gran popolo di cialtroni».

 

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 207-208

FAUSTA CIALENTE: VACCINATA CONTRO L’IRREDENTISMO E STOMACATA DALLA GUERRA

Dopo il disastro di Caporetto e quanto l’aveva preceduto, c’era forse d’aver fiducia in chi comandava tuttora la guerra? S’ero da tempo vaccinata contro il fatale “irredentismo adriatico” (e Fabio[1] aveva pagato di persona l’errore in cui l’avevano fatto
crescere e maturare) la guerra alla quale assistevo mi aveva non solamente stomacata, ma suscitava in me un odio che sentivo inguaribile: l’odio contro qualsiasi forma di nazionalismo o razzismo (“sti maledeti sciavi, ‘sti maledeti austriacanti, ‘sti maledeti ebrei”), contro ogni sopraffazione, quindi; in più avevo già imparato (e gli anni a venire me l’avrebbero confermato) che i primi a pagare e ad essere travolti sono sempre i poveri, le guerre sembrano inventate per loro, giacché è la miseria che meglio insegna a resistere e a durare. I tenui germogli del vacillante patriottismo che m’era sembrato di sentir nascere in me dopo Caporetto erano dunque già periti. E quando vennero i giorni della fine intorno a quel 4 novembre, andai anch’io insieme ai miei compagni a gridare la nostra gioia per le strade e le piazze, sì; ma soltanto perché la guerra era finita e finito l’inutile massacro.

  

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 202-203.


[1] Il cugino della scrittrice, morto nella Prima Guerra Mondiale

martedì 30 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: CERTA BORGHESIA CI PREPARAVA IL FASCISMO

Verso il 20 ottobre i bollettini cominciarono a dar notizia di qualche movimento che doveva essere straordinario, la gente si eccitò leggendo che il nemico concentrava tutte le sue forze; anche le donne leggevano e mi sembrava che fossimo s’un palcoscenico (come le Wieselberger, nei bei tempi) dove sentivamo di partecipare a qualcosa di molto grosso o molto importante; qualcosa che finalmente soddisfaceva tutti. Forse si va verso la fine, forse era nel giusto chi aveva predetto “il prossimo inverno non più in trincea”. Di nuovo un “Natale tutti a casa”? C’era di che far venire la nausea. Anche i miei compagni erano pieni d’agitazione, la stessa che doveva essere nelle famiglie poiché tutti avevano qualcuno al fronte; ed io tacevo.

La catastrofe fu immediata. Ci sentimmo colpiti come se un’enorme trave ci fosse caduta sulla testa. La cosa peggiore fu l’inaudita rapidità della disfatta; le linee di difesa dalle quali sarebbero dovuti partire i nostri vantati attacchi, in pendenza o meno che fossero, ci sembrarono di biscotto, di marzapane, il nemico se le divorò in pochi giorni. Il 24 ottobre Caporetto era caduta, poi cadde anche il Monte Maggiore (eran nomi che giorno dopo giorno ci scottavano come cera bollente), le vie furono quindi sciaguratamente aperte; prima sentimmo annunciare che gli austro-tedeschi erano giunti a Cividale e i comandi ordinavano alle nostre armate di ritirarsi sul Tagliamento, poi la botta finale, tremenda: il 4 novembre s’erano ancora ritirate e fermate, sì, ma sul Piave! quello che avrebbe così a lungo “mormorato”.

E non era tanto l’idea della disfatta militare che significava, oltre i morti, centinaia di migliaia di prigionieri, tutte le armi cadute in mano al nemico, le vettovaglie perfino, quanto lo spettacolo dei poveri civili in fuga, le case, i campi, gli averi abbandonati, vecchi, donne e bambini gettati in furia allo sbaraglio; non erano certo diventati “profughi di lusso” come i nostri ricchi triestini.

Mio padre fu assai colpito ma rimase stranamente calmo, non ebbe in quei giorni nessuna delle furiose reazioni condite d’abbondanti invettive che ci avevano sempre amareggiato. In silenzio spostava le bandierine. Per il Piave disse: qui forse potranno veramente fermarsi e tenere.

Una specie di patriottismo s’era svegliato anche in me, ed era logico. Per quanto educata fin da bambina a vedere le cose in una luce realistica, e quasi mai dilatata la loro importanza, l’idea del “nostro suolo calpestato dal nemico” mi sconvolgeva, era un prezzo troppo alto che pagavamo all’imprevidenza e insufficienza dei comandi, all’ottusa stupidità dei governi e dei politici. Tuttavia non potevo allora capire, né, con me, i miei giovani amici, che la furibonda reazione di certa borghesia sedicente patriottica ci preparava il fascismo; c’era chi aveva ben calcolato quanto una disfatta poteva generarlo! Lo capimmo più tardi a guerra finita tornarono i combattenti e li vedemmo insoddisfatti, delusi e stomacati da ciò che trovarono nel paese: chi s’era tranquillamente imboscato o spudoratamente arricchito, altri avevano tutto perduto, e ai giovani o quasi giovani reduci la ricompensa che la nazione offriva dopo tanti rischi, rinunce e sacrifici era un avvenire incerto, deludente o misero addirittura; nulla da stupire quindi se tanti di essi, spesso in buona fede, qualche tempo dopo si lasciarono trascinare sulla via sbagliata.

Com’era da prevedere, dopo il clamore della disfatta restammo senza notizie di Fabio. Mia madre scriveva a Milano e pregava le sorelle di farci avere al più presto ciò che la famiglia avrebbe certamente ricevuto prima di noi. Cercavamo di dominare l’angoscia e di ammettere, ragionando, che nella confusione creata da un simile disastro le notizie sarebbero giunte con gran lentezza; tuttavia speravamo. Ch’egli fosse vivo, almeno questo.

Al momento del crollo Fabio era da tempo sull’altipiano di Asiago (nessuno di noi l’aveva mai saputo), il luogo era già stato teatro di furiosi combattimenti tra il maggio e il luglio del 1916; nell’estate del ’17 aveva avuto quella che s’era poi chiamata battaglia dell’Ortigara e là tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sempre del ’17, poco più d’un mese dopo Caporetto nell’offensiva che la storia indicò come battaglia delle Molette, il 5 dicembre Fabio era caduto.

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 189-192


FAUSTA CIALENTE: LE "MALE ARTI" DELLE DONNE

Nessuno di noi avrebbe voluto “tanto”, un simile confronto disumano tra eroi e vili, chiusi in un dramma ch’era di tutti, ormai. Una sola cosa volevamo, che finisse, finisse al più presto. Di quel che succedeva in Russia poco si riusciva a sapere, ma che fosse stato eliminato lo zarismo c’era sembrato un fatto positivo. Erano crollati in marzo, quei bravi signori, però la guerra seguitava sulle linee orientali e continuavano ad esservi impegnate le forze austro-tedesche, che non s’erano quindi spostate in massa sul “nostro fronte. Il solo effetto che da noi si poteva cogliere era che gli scioperi nelle fabbriche si facevano più frequenti e più aggressivi, la parola “rivoluzione” circolava da un pezzo – e mio padre corrugava la fronte. Non gli piaceva, quella parola, era chiaro; e nemmeno che le donne, costrette a sostituire gli uomini e a farsi operaie, si agitassero tanto e andassero per le strade urlando a contestare la guerra, a chiedere pane e pace. A me sembrava giusto, invece, una finestra s’era, per esse, fortunatamente spalancata sul mondo e sulla realtà, ma a lui le donne piacevano a casa, era indubbio; ancora meglio nel letto degli uomini, le “male arti” a loro esclusivo servizio, anche se camuffate nel matrimonio.


Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 184-185

domenica 28 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: MEGLIO LA GUERRA CHE IL SOCIALISMO

Continuava a bollire e a fumare la pozzanghera della guerra ch’esalava l’odore soffocante del sangue, un ininterrotto fiume di sangue giacché erano in tanti a morire; e per quanto la
propaganda ufficiale seguitasse a presentarci la sua quotidiana mistificazione degli avvenimenti bellici e mentisse spudoratamente sulla psicologia del fronte e dell’interno, cioè dei combattenti e della popolazione, la verità si faceva strada, se non altro attraverso le lettere che giungevano dalle trincee alle famiglie. Non so in che modo riuscissero a gabellare l’arcigna censura giacché erano piene di rabbiosa amarezza e denunciavamo lungo il corso di quell’atroce 1916 l’inutilità e il grottesco d’una guerra che non era affatto per una “nobile causa”, scrivevano, e che serviva sopra tutto ad arricchire i pescicani, a saziare la loro ingordigia e a tener quieta una borghesia che ipocritamente li trattava da eroi e li colmava di lodi, ma era ben contenta, sotto sotto, che fossero occupati a scannarsi con gli austriaci e non liberi, invece, di sviluppare il temuto socialismo da cui si era sentita minacciata; ma essi, al fronte, pagavano con la vita quell’ignobile commedia, e le famiglie, all’interno, la pagavano con privazioni e stenti sempre maggiori. Poi si cominciò a dire di diserzioni e fucilazioni, probabilmente queste erano notizie che nessuno osava scrivere, le portavano dal fronte i soldati in licenza, ma poi non restavano sospese come nebbia nel chiuso delle famiglie, insidiosamente le parole circolavano, circolavano, erano come un orlo di fango che arrivava dappertutto.


Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 179-180

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