"Di fronte alla
cattiveria e al grottesco della realtà, l'ironia è un modo di reagire, di farsi
del bene" (D. Pennac)
Il vecchio preside,
basso di statura (fisica e morale), burbero e dall’animo imbevuto di
cattiveria, si trascinava stanco sulle gradinate del teatro, dove si era appena
svolta una rappresentazione, seguita da un rinfresco.
Basso, nel suo metro e
cinquantadue di statura, era solo come un cane, ma arzillo come sempre, dietro
quegli occhialoni e l’aria arcigna, i capelli che sapevano di unto e la
camminata claudicante. Fisicamente ripugnava a tutti. E poi era abituato a
comandare lui. Ad averla sempre vinta. Sempre. Un fagotto di ossa stupide che
voleva spadroneggiare sul mondo.
Era stato fatto fuori
tante volte dal consiglio comunale perché gli altri arrampicatori ne avevano
capito l’arrivismo e la smania di spadroneggiare su tutto e su tutti. E poi era
un fatto noto che gli piacessero i ragazzini, a quel vecchio bavoso. Non ne
faceva un gran mistero. Lo sapevano tutti. Una volta gli alunni della sua
scuola gli avevano fatto una foto da dietro, mentre lui, nel suo metro e
cinquantadue si protendeva romanticamente verso la faccia di un biondo ragazzo
adolescente dagli occhi cerulei, e poi l’avevano messa su facebook. E poi
l’avevano commentata nelle classi, ridendo e sghignazzando fra loro. Salvo poi
fare la parte degli spolverini quando si trattava di mettere in cattiva luce
questo o quel prof per via di qualche brutto voto o di una nota sul registro,
dettata magari dal giocare a dadi lungo i corridoi o dal bere lattine di coca
cola in classe, risucchiandone in contenuto durante le spiegazioni. Allora lui
si ergeva a paladino della loro libertà e del loro diritto all’autodeterminazione.
In quel caso il professore era un emerito cretino, degno di un processo come il
peggiore dei criminali, ed il povero, compunto ragazzo, vittima della
prepotenza dell’adulto. «Questa scuola è famosa per il trattamento a cui
vengono sottoposti i professori», aveva detto una mamma ad un’insegnante
arrivata lì quell’anno ed ignara del pettegolezzo da corridoio e della
cattiveria giovanile e genitoriale, diretta a ricamare pure sulla virgola
profferita dai poveri docenti, tutti egualmente ricattabili pur di estorcere la
promozione dei propri mostruosi figlioli.
Note, richiami, urla,
sguardi sprezzanti erano all’ordine del giorno, ed equamente distribuiti soprattutto
tra le docenti, sì, proprio tra le donne, colpevoli di essere di quel sesso, e
quindi, in un certo modo, anche se molto lontano, assomiglianti alla moglie che
la sorte aveva attribuito al vecchio e incattivito preside. Quella specie di
uomo che lo comandava a bacchetta sempre e comunque e che gli rendeva
necessario uno sfogo di malvagità gratuita su chiunque incontrasse sul suo
cammino. Che gli rendeva indispensabile pensare di dovere vincere sempre, e
comunque, anche se lui, col suo denaro e con gli appoggi politici di cui
godeva, in quarant’anni si era comperata una posizione sociale invidiabile, ma
non il rispetto delle persone. Nemmeno di quegli alunni che andavano da lui per
presentargli ogni sorta di ciarla di basso profilo, da lui presa come oro
colato, purché si gettasse fango su qualsiasi malcapitato.
E poi era egocentrico.
Doveva parlare sempre lui, lui doveva interloquire con i giornali cittadini,
lui riempirsi la bocca di fandonie sulla scuola in pubbliche conferenze di
uomini politici e funzionari venduti ai quali della scuola non gliene fregava
nulla, lui a dover sapere, giudicare, mettere il naso nelle faccende di
chiunque, fossero stati anche trenta secondi di ritardo per entrare in classe
tra una lezione ed un’altra.
Una volta aveva beccato
un cancro al sangue. Guarito. Miracolosamente. Neanche quella volta aveva
finito di esistere e di togliere il disturbo che arrecava nel mondo.
Peggio il cancro
all’anima, il livore e la malvagità che lo rodeva 24 ore su 24. Dev’essere come
dice Platone: l’anima è indistruttibile, contrariamente al corpo.
Insomma, la situazione
era così da fantascienza che lì, in quella scuola, ognuno faceva solo il suo
lavoro, non fiatava ed a fine giornata andava a casa. Senza alcuna
soddisfazione personale. Tanto lui, il meschinello, il povero infelice in preda
alla smania continua di dimostrare il suo potere (ma, l’aveva mai avuto?),
mobbizzava chiunque. Persino la suora. Persino la docente alle soglie della
pensione, che diceva di aver ritrovato la fede dopo tutto quello che aveva
dovuto patire con questo disgraziato. Eh sì, perché è lì, nei patimenti, che ti
dici: dovrà finire una volta. Una si era beccata un bell’esaurimento nervoso da
stress legato al mobbing sul luogo di lavoro. In decine, trattati da lui come
emeriti imbecilli (chissà perché a certi soggetti non va mai bene nulla, anche
se tu ti sforzassi di fare i miracoli per fare sempre meglio), si erano
trasferiti in altre scuole nel corso degli anni.
Insomma, una vera e
propria piaga. Uno che non ci dormiva la notte per rimuginare come rovinarti.
In questo clima di
totale tristezza e demotivazione, il preside, che non era affatto un signore,
era andato avanti per vent’anni. Rimediando incarichi qua e là. Portando sua
moglie a mangiare ovunque e poi arraffando a fine pasto le pirofile dove ci
fosse qualche avanzo di cibo allo scopo di portarle a casa. Prendendo plessi
scolastici qua e là e andando a rompere di nuovo le scatole a quelli che,
quando la misura della sopportazione era colma, lo avevano abbandonato per
altre scuole. Non solo non dava spazio a nessuno, il nostro eroe, ma rendeva la
vita impossibile a tutti. E tutti sapevano benissimo che una denuncia, anche di
gruppo, sarebbe stata fatale per la salute e per la carriera di chiunque. Allora
non restava che abbozzare. O assecondarlo, come si fa coi pazzi. E lui era
proprio questo.
Un bel giorno che era
inverno al preside arrivò un rinvio a giudizio. L’accusa era di malversazione,
cioè di essersi appropriato del denaro di quell’ente di formazione regionale in
cui lui faceva parte del consiglio di amministrazione.
Il vecchio bavoso sta
per andare in pensione e questa, dopo una vita di scorrettezze non pagate, non
se l’aspettava. ‘Dio punisce lentamente’, recita il proverbio.
Forse non andrà in
galera, perché la burocrazia vince anche sulla giustizia, ma la sua punizione
l’ha già avuta.
E’ già stato
dimenticato da tutti.