In una grande mostra attualmente in corso nel cuore di Roma delle artiste arabe per la prima volta hanno dato voce a quello che nella loro cultura è il sottaciuto mondo dei sentimenti femminili. L’hanno materializzato in forme, colori, materiali. Con questo mezzo lo hanno denunciato, reso vivo e presente anche alla componente maschile araba che per millenni lo ha negato o ha fatto finta di non vederlo. La rivoluzione femminista in Europa iniziò negli anni ’60 a partire dalla riflessione sul proprio corpo, sulla differenza sessuale (oggi si direbbe “di genere”). La classe dirigente, manco a dirlo, esclusivamente maschile, ne rimase spiazzata, destabilizzata, perché di tutto si sarebbe potuto immaginare, meno che le donne avessero capito che il cuore del problema stesse nella presunta inferiorità biologica da secoli sfruttata dalla componente maschile della società per appropriarsi del potere politico. Ma quelli erano gli anni Sessanta: si parlava di rivoluzione, di lotta di classe, di schieramenti politici di destra e di sinistra. Era questa la roba di cui si occupavano gli uomini. Le donne affrontarono lo spinoso problema dell’emancipazione e dei diritti su di un terreno nel quale gli uomini non avevano competenza: la conoscenza di sé stesse. “Il corpo è mio e me lo gestisco io”. Di lì partì tutto. Da lì si arrivò alla conquista di diritti sociali e politici. Quarant’anni dopo, nella parte del mondo dove l’altra metà del cielo dove questi diritti non esistono ancora, la rivoluzione si fa con mezzi più raffinati. Senza cortei né striscioni. Con le tele, i pennelli, le pietre, il legno, i colori. L’insostenibile leggerezza dell’essere.
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