venerdì 28 ottobre 2011

I MITI DEI GIOVANI

Simoncelli, Rossi e la Winehouse
La sfida virtuale alla normalità

Cosa ci dice il fascino irresistibile dei personaggi amati dai ragazzi

CHRISTIAN FRASCELLA*

Valentino Rossi che biascica poche sconfortate parole sotto la luce delle telecamere che pornograficamente lo inquadrano mentre soffre per la morte dell'amico e collega Marco Simoncelli e, accanto a lui, qualcuno - un giovane tifoso, a quanto pare - gli dice: «Sei un grande, Vale» e sembra che l'eco di quelle parole ne diffonda altre e conclusive tipo: «...anche in questi momenti», spinge a una riflessione. Le parole suggerite dal tono del tifoso indicano che Rossi è un grande, è un mito anche quando soffre. È un mito quando vince, è un mito quando polemizza, è un mito, un punto di riferimento per migliaia di giovani e non di questo (e presumiamo altri) Paesi per il solo fatto di esistere e di essere come è.

Ma com'è Valentino agli occhi dei giovani? Come viene percepito e perché? Diciamo quali sono i primi aggettivi che vengono in mente pensando a lui: forte, campione, grintoso, schietto, abile, ricco, giovane, belloccio. Uno che è riuscito ad arrivare sul tetto del mondo diventando un maestro di professionismo in quello che inizialmente doveva apparirgli un divertimento. Le prime gare da ragazzino, il talento che viene fuori, poi la MotoGP e le vittorie, gli sponsor, i soldi, le donne, le polemiche con gli avversari in cui allunga una battuta delle sue nel suo accento, gli spot, la totale copertura mediatica della sua vita. Valentino è un mito perché è figo, e tutto ciò che lo circonda è altrettanto figo. Il giovane, il tifoso lo ammira, lo mitizza appunto, perché corre con le moto e guadagna tutto quello che si può guadagnare.

Lo adora perché il centauro rappresenta tutto ciò che lui non potrà mai essere: libero di fare quello che sa fare e di e di dire ciò che vuole dire e alla fine di passare all'incasso. Una lunga scia di popolarità avvinghiata al numero di zeri sul suo conto corrente. E se poi Valentino evade le tasse, ciò lo rende una specie di Robin Hood in cui lo Stato fa la figura pulciara dello Sceriffo di Notthingam.

E ancora miti, belli e dannati, tanto amati perché talentuosi e folli. Amy Winehouse, per esempio, morta da poco, grande voce e fragilissima personalità. Se l'è sbranata l'eccesso. Ora la sua foto campeggia sui quadrati dei profili dei social network, sulle «bacheche», sulle magliette dei fan. Il mito che vocalizza dagli mp3 col timbro nostalgico di chi c'era e non c'è più. Schiere di ragazzi che se la spartiscono, Amy, in rete, e che dicono sui blog che «nessuno la capiva» e che in questo consisteva la sua grandezza. Truccate come lei ma un tantino più stonate, su youtube puoi trovare piccole grossolane figure di cantanti replicanti, piccole Amy che una vita come quella della star (tra droghe e alcol e amori violenti) non la vorrebbero, ma fa cool credere di sì. Valentino Rossi solare. Amy sola. Le due facce del mito a confronto. Amarli è una missione.
E Steve Jobs, il mago della tecnologia, già mito e guru in vita ora in morte assimilato a Dio, trasformato nella Sua versione terrena ma speculare da orde di Mac-dipendenti che mandano e rimandano sui loro iPad il discorso di Stanford, con quell'intronante «siate affamati, siate folli» che rimbalza ovunque come un Padre Nostro o un atto d'accusa alla mediocrità. O, peggio, alla normalità.
Morderò la mela della vita anch'io, pare ripetersi l'ammirato fan che corre in libreria a comprarsi e forse leggersi la biografia autorizzata del Vate, morderò la mela anch'io se mi impegnerò in ciò che so fare, anche se poi non so fare niente. Sarò affamato, folle, geniale. Sarò Steve perché Steve era come me. L'ammiratore che assurge a mito per interposto sogno.
Farebbe bene ricordare, però, che sotto la polvere del grigiore e della medietà, sui banchi di scuola della quotidianità ci sono altri tipi di miti del tutto ignorati, cui i giovani forse dovrebbero prestare più accurata attenzione: tuo padre che ogni mattina si alza e va a lavorare, per esempio, al tornio nella oscura chiassosa dimenticata fabbrica o nella redazione ticchettante di un giornale di provincia a raccontare i nudi fatti, pochi soldi e tanta passione. Tua madre che pulisce le scale nei grandi stabili dove si muovono milioni di euro al minuto, un colpo di straccio, una goccia di sudore che le imperla il naso mentre pensa che è stanca, che non ce la fa più. Tua sorella che insegna in una scuola dove è precaria, aule fatiscenti, gessetti portati da casa, uno studente che sbadigliando pensa al Milan e la ignora, ignora il suo impegno per ficcargli un po' di sale in zucca.
Spegnere la televisione o il pc, ogni tanto, e guardare alla vita di chi ti circonda. Non sarà inebriante come l'inclinazione di Valentino in curva sulla sua Ducati, o abbagliante come le luci dei flash quando passa Justin Bieber. Ma partire dalla realtà e non dal sogno patinato è già capire che il mito è nelle piccole cose semplici. Poi, se verrà il tuo tempo di correre o inventare, saprai almeno raccontare da dove hai cominciato.

* Scrittore, autore de "La sfuriata di Bet" (Einaudi)

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