(Editoriale su La Stampa del 1° aprile 2015)
L’Italia
che vorrei» ha «Il buon governo» e «Per una ragione» e cioè «Il futuro
della libertà», tutto questo «Insieme» con «Le mie mani pulite» grazie
alle quali «Rimettiamo insieme l’Italia».
Perché comincia «Una nuova stagione», in fondo questo è «Il mio progetto» per «Un paese normale» anzi «Per un’Italia migliore» siccome «Una rivoluzione è possibile» e «Io ci provo», del resto «Basta zercar». Questi sono i titoli. Li avrete visti decine di volte, o forse vi è soltanto parso, opere assonanti, copertine mimetiche, tutte le migliori intenzioni impilate sugli scaffali delle librerie, messe in fila come abbiamo fatto noi a comporre il discorso della perfezione vaporosa. Non entrano nelle case, non entrano nelle classifiche, hanno il destino segnato di «Non solo euro», che per esteso è «Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa», un progetto ambizioso come l’autore, e cioè stiamo parlando del libro di Massimo D’Alema calato nella distrazione planetaria sul mercato editoriale dello scorso anno, e a cui soltanto una coop restituì un senso acquistandone cinquecento copie. Dice un editore che conosce bene i politici col pallino della scrittura che nove volte su dieci o forse diciannove su venti i volumetti salvano la pelle soltanto con l’intervento di una fondazione, e che ha miracolosamente a che fare con l’autore: lo sostiene, simpatizza, ne è guidata.
Eppure non è sempre malinconico spreco di carta e di opinione di sé. Il 1995 fu l’anno della sfida per il primato letterario, dopo quella per la segreteria: impossibile oggi dire se prevalse Walter Veltroni con «La bella politica» o D’Alema con «Un paese normale», è sufficiente dire che entrambi passarono le centomila copie. Da lì in poi D’Alema infilò un’operetta via l’altra contando sul proprio charme, ma non fu fortunato; Veltroni aveva già cominciato da lustri e avrebbe proseguito eclettico e con varie sorti sconfinando dalla saggistica nella narrativa, e ormai siamo intorno ai trenta titoli. La narrativa che portò Dario Franceschini a pubblicare con la prestigiosa Gallimard («Dans les veines ce fleuve d’argent», traduzione di «Nelle vene quell’acqua d’argento»), e questo è l’incompleto elenco delle eccezioni perché la norma è piuttosto Mercedes Bresso, ex governatrice del Piemonte che sognava di diventare «la Agatha Christie italiana» con gialli come «Il profilo del tartufo»: obiettivo ampiamente mancato. Ci sono politici che poetano – Pietro Ingrao e Nichi Vendola, non soltanto Sandro Bondi – politici che disegnano – è appena stata stampata una raccolta di vignette di Simone Baldelli – ma soprattutto politici che stendono autobiografie, dottrine, visioni. Sulle povere scrivanie dei cronisti sono transitate le riflessioni a due-trecento pagine di Giulio Tremonti, Piero Fassino, Renato Brunetta, Fabrizio Cicchitto, Carlo Giovanardi, Matteo Salvini, Umberto Bossi, Roberto Formigoni, Luigi De Magistris, Livia Turco, Rosy Bindi, Luciano Violante, Antonio Bassolino, e ci servirebbe l’edizione completa del giornale per concludere l’elenco, e lo si concluderebbe con Domenico Scilipoti («Il re dei peones») e Antonio Razzi («Le mie mani pulite»). Qualche volta sono la prova nero su bianco di esistenze trascurate, qualche volta il biglietto da visita sovrabbondante, capita anche che siano la testimonianza di momenti straordinari di leader straordinariamente momentanei, che fanno il botto, ma poi non colgono il declino e pronunciano sermoni anche se sono scesi dal pulpito. Allora, al massimo, la Coop sei tu.
Perché comincia «Una nuova stagione», in fondo questo è «Il mio progetto» per «Un paese normale» anzi «Per un’Italia migliore» siccome «Una rivoluzione è possibile» e «Io ci provo», del resto «Basta zercar». Questi sono i titoli. Li avrete visti decine di volte, o forse vi è soltanto parso, opere assonanti, copertine mimetiche, tutte le migliori intenzioni impilate sugli scaffali delle librerie, messe in fila come abbiamo fatto noi a comporre il discorso della perfezione vaporosa. Non entrano nelle case, non entrano nelle classifiche, hanno il destino segnato di «Non solo euro», che per esteso è «Non solo euro. Democrazia, lavoro, uguaglianza. Una nuova frontiera per l’Europa», un progetto ambizioso come l’autore, e cioè stiamo parlando del libro di Massimo D’Alema calato nella distrazione planetaria sul mercato editoriale dello scorso anno, e a cui soltanto una coop restituì un senso acquistandone cinquecento copie. Dice un editore che conosce bene i politici col pallino della scrittura che nove volte su dieci o forse diciannove su venti i volumetti salvano la pelle soltanto con l’intervento di una fondazione, e che ha miracolosamente a che fare con l’autore: lo sostiene, simpatizza, ne è guidata.
Eppure non è sempre malinconico spreco di carta e di opinione di sé. Il 1995 fu l’anno della sfida per il primato letterario, dopo quella per la segreteria: impossibile oggi dire se prevalse Walter Veltroni con «La bella politica» o D’Alema con «Un paese normale», è sufficiente dire che entrambi passarono le centomila copie. Da lì in poi D’Alema infilò un’operetta via l’altra contando sul proprio charme, ma non fu fortunato; Veltroni aveva già cominciato da lustri e avrebbe proseguito eclettico e con varie sorti sconfinando dalla saggistica nella narrativa, e ormai siamo intorno ai trenta titoli. La narrativa che portò Dario Franceschini a pubblicare con la prestigiosa Gallimard («Dans les veines ce fleuve d’argent», traduzione di «Nelle vene quell’acqua d’argento»), e questo è l’incompleto elenco delle eccezioni perché la norma è piuttosto Mercedes Bresso, ex governatrice del Piemonte che sognava di diventare «la Agatha Christie italiana» con gialli come «Il profilo del tartufo»: obiettivo ampiamente mancato. Ci sono politici che poetano – Pietro Ingrao e Nichi Vendola, non soltanto Sandro Bondi – politici che disegnano – è appena stata stampata una raccolta di vignette di Simone Baldelli – ma soprattutto politici che stendono autobiografie, dottrine, visioni. Sulle povere scrivanie dei cronisti sono transitate le riflessioni a due-trecento pagine di Giulio Tremonti, Piero Fassino, Renato Brunetta, Fabrizio Cicchitto, Carlo Giovanardi, Matteo Salvini, Umberto Bossi, Roberto Formigoni, Luigi De Magistris, Livia Turco, Rosy Bindi, Luciano Violante, Antonio Bassolino, e ci servirebbe l’edizione completa del giornale per concludere l’elenco, e lo si concluderebbe con Domenico Scilipoti («Il re dei peones») e Antonio Razzi («Le mie mani pulite»). Qualche volta sono la prova nero su bianco di esistenze trascurate, qualche volta il biglietto da visita sovrabbondante, capita anche che siano la testimonianza di momenti straordinari di leader straordinariamente momentanei, che fanno il botto, ma poi non colgono il declino e pronunciano sermoni anche se sono scesi dal pulpito. Allora, al massimo, la Coop sei tu.
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