Una società australiana, la Usocial, vende pacchetti di «amici» agli utenti di Facebook, la piazza gremita di tavolini virtuali (lo spiego a chi non passa la metà del suo tempo davanti al computer) in cui persone più o meno affini si incontrano per ciacolare. Qualcuno si è già scandalizzato: del cinismo di chi vende e della vanità di compra. L'amicizia è un bene sacro e i beni sacri non si commerciano né si ostentano. Ma lo scandalo non esiste. Da ragazzi chi aveva il maggior numero di invitati alle sue feste? Il più brillante, istruito e intelligente o quello che poteva garantire la casa più grande, i genitori più assenti, lo stereo più rumoroso e la cantina più fornita? L'amicizia di massa è soggetta alle regole della convenienza. La Usocial ha tolto il velo dell'ipocrisia a una pratica diffusa da sempre. Gli «amici» si comprano: con il potere, la comodità e, appunto, i soldi. Resta da intendersi sul significato della parola, di cui Facebook fa un uso spregiudicato. Gli «amici» della Rete assomigliano a quelli che si incontrano alle feste dei giovani e nei salotti degli adulti: conoscenze occasionali e relazioni utili. Gli amici senza virgolette sono pochi ma buoni, così si dice. Bisognerebbe aggiungere che, per essere buoni, devono necessariamente essere pochi. Un rapporto coltivato in profondità ha bisogno di tempo e gli amici stanno agli «amici» come l'amore di una vita all'avventura di un'estate. Ma ormai è tale l'abuso che forse dovremmo cominciare a chiamare gli amici con un altro nome.
MASSIMO GRAMELLINI
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