Quando i messaggi in Rete divennero di uso comune, noi fanatici
della scrittura vivemmo un momento di rivalsa. L’oralità trionfante
cedeva sorprendentemente il passo a una comunicazione meno spudorata,
che avrebbe consentito anche ai timidi e ai riflessivi di fare sentire
la propria voce nella piazza dell’umanità. Mai previsione è stata più
stropicciata dalla realtà. Che si parli della malattia di Emma Bonino o
della liberazione delle ragazze rapite in Siria - per limitarsi agli
ultimi giorni - sul web si concentra un tasso insostenibile di volgarità
e di grettezza. Una grettezza cupa, oltretutto, raramente attraversata
da un refolo di ironia.
Non mi riferisco al merito dei commenti. Nell’Occidente di Charlie
ciascuno è libero di esprimere le opinioni più urticanti, purché
rispettose della legge. No, è la forma dei messaggi che corrompe
qualsiasi contenuto. Una radiografia di budella, una macedonia di
miasmi, una collezione di frasi impronunciabili persino con se stessi.
Nessuna di queste oscenità pigiate sui tasti troverebbe la strada per le
corde vocali. Nessuno di quelli che per iscritto augurano dolori atroci
alla Bonino e rimpiangono il mancato stupro delle cooperanti liberate
avrebbe la forza di ripetere le sue bestialità davanti a un microfono o
anche solo a uno specchio. La solitudine anonima della tastiera produce
il microclima ideale per estrarre dalle viscere un orrore che forse
neppure esiste. Non in una dimensione così allucinata, almeno. Per noi
innamorati della parola scritta è una sconfitta sanguinosa che mette in
crisi antiche certezze. Per la prima volta guardo il tasto «invio» del
mio computer come un nemico.
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