Lo relegheranno a caso di ordinaria follia.
Un vigile urbano avanti con gli anni che viene accusato di timbrare il
cartellino anche per i colleghi. Il processo, la condanna, la
destituzione dall’incarico. E intanto il virus nazionale del vittimismo
che gli monta dentro, fino a catalizzarsi intorno a un bersaglio in
carne e ossa: la sindaca di un paese del Varesotto, teatro di tutta
vicenda. Per trasformarla in tragedia manca l’ultimo requisito: il porto
d’armi che consente a quest’uomo di mantenere un arsenale di carabine e
fucili a pompa. Giuseppe Pegoraro si presenta in Comune, spara al primo
cittadino, ferisce anche il secondo, e quando viene infine messo nelle
condizioni di non nuocere, le sue prime parole sono quelle di un
giustiziere della notte cresciuto a rancore e telefilm: «Adesso ho
regolato i miei conti».
Ordinaria follia. E però quanti Pegoraro, per fortuna senza
porto d’armi, solcano ogni giorno le strade del nostro scontento? Quanta
rabbia intrisa di mania di persecuzione, alla ricerca spasmodica di un
capro espiatorio da sacrificare sull’altare di un regolamento di conti
scambiato per giustizia? L’essere umano funziona così da quando
frequenta il mondo. A non funzionare più è la comunità che un tempo
assorbiva un po’ di questo disagio. Il prete, il medico condotto, il
circolo comunista, la famiglia patriarcale. Non facevano miracoli, ma
erano camere di decompressione, sfogatoi legalizzati in cui scaricare
malumori e risentimenti prima che montassero fino all’impazzimento.
Oggi gli sfogatoi sono i social network, ma senza contatto fisico la
solitudine fa in fretta a diventare malattia.
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