(Fonte: Il Fatto Quotidiano) - Ci risiamo. Qualche tempo fa furono distribuite (Dove? Quante? Come
sono state usate?) per iniziativa dei ministri Gelmini e Brunetta le lavagne elettroniche nelle scuole italiane. Uno strumento bello a vedersi con un monitor touch che salvava e stampava.
Oggi si annunciano tablet e computer in ogni classe.
Mi piacerebbe che ogni tanto qualche ministro dicesse: “potevamo
stupirvi con effetti speciali e colori ultravioletti”, ma non lo abbiamo
fatto; perché prima gli insegnanti, i libri, la carta, i banchi, la
palestra, il teatro… le vecchie cose, insomma.
Intendiamoci, è una cosa positiva avere più strumenti per insegnare e anche per far apprendere. C’è però una retorica della scuola multimediale che mi lascia perplesso.
Io
il mio primo computer l’ho visto durante gli anni di università e ho
imparato ad usarlo bene per scriverci la tesi. Ho imparato da solo. Come
tutti d’altra parte. Siamo la generazione che ha fatto le scuole senza
computer, che ha pensato senza computer. O se vogliamo, ha pensato ‘al
posto del’ computer. I miei figli hanno conosciuto a due anni l’iPad
e ci restano male che la televisione non abbia un touch screen. Hanno
imparato a usarlo subito, da soli e il nostro sforzo, a casa, è quello
di tenerli il più possibile lontani da computer, tv, tablet,
video-giochi. Con scarso successo, devo dire. Ma, osservandoli, ci
sembra che ci sia più esercizio di fantasia e creatività, di stimolo a
completare le cose con i libri stampati, la carta da ritagliare e
dipingere, la matita da tenere in mano. Ci sono più domande e c’è più
conversazione quando si gioca alla vecchia maniera. Certo, le due cose
non si escludono, ma è davvero difficile proporre carta e penna, quando
l’iPad ti permette e promette mille colori, con suoni ed effetti
speciali. Penso che il loro processo di apprendimento sia più aperto con
entrambe le cose, ma penso anche che una istruzione informatizzata
potrebbe far perder qualcosa. Fosse anche la noia. La pausa. Il farsi
una domanda senza risposta.
L’Agcom nel suo programma sull’agenda digitale
italiana insisteva, tra gli altri punti qualificanti,
sull’alfabetizzazione informatica nelle scuole. Ma è facile scoprire che
non sono certo i ragazzi a non saper usare i computer. Spesso sono gli
insegnanti, qualche genitore e i nonni. L’informatizzazione della scuola
non deve essere pensata con il provincialismo di chi vorrebbe che i
giovani non abbiano le difficoltà che hanno oggi gli anziani. Perché
loro non le avranno.
Il ‘computer a scuola’ non deve esser pensato
come mezzo per insegnarne l’uso ai giovani e ai ragazzi. Lo imparano
subito e benissimo. Va invece pensato come uno strumento di verifica e
ricerca rispetto a ciò che si è insegnato prima, con la lettura e
l’ascolto. Il computer in classe serve forse a far capire agli studenti
l’importanza del docente che sa utilizzarlo come strumento aggiuntivo. E
non a generare l’equivoco che tutto il resto sia vecchio, inutile, ‘cliccabile’ o ‘downloadabile’ da qualche parte.
Le nuove generazioni sono già in rete
o lo saranno presto e per sempre. Forse ciò che bisogna insegnare loro è
la capacità di farne a meno. E visto che la rete è dappertutto, forse
davvero è rimasta solo la vecchia scuola il luogo privilegiato dove fare
questa (rara) esperienza.
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