AVERE LE FAMIGLIE VICINE NON L’ANSIA DI UN COMPITO DA CONSEGNARE
Continuiamo a ripetere che “la scuola non si ferma”, eppure le persone sono stressate, confuse e mi dispiace dirlo ma molto probabilmente ci sarà un notevole aumento di casi di depressione. Noi studenti, ma anche gli insegnanti e i genitori, vediamo ogni giorno aumentare il numero dei decessi, veniamo a sapere di un parente, amico o semplicemente conoscente risultato positivo, e abbiamo paura. Tutti noi facciamo fatica a concentrarci in questi giorni di lutto, nel bel pezzo di una pandemia, la più grande che la nostra e la vostra generazione abbia vissuto. Molti di noi hanno spesso problemi ad internet, la voce del docente si interrompe per la connessione, l’audio non funziona o non si arriva a comprendere al meglio la lezione. Certo, ci saranno sempre gli appunti sulla piattaforma di Argo, ma dovremo fare tutto da soli e non tutti ci riescono. È un momento difficile e tenebroso per tutti. La scuola deve senz’altro esserci perché l’istruzione è un nostro diritto, ma quando si inizia ad avere paura, perché è inevitabile, vorremo avere le nostre famiglie vicine, non l’ansia di un compito da consegnare, o una lezione da preparare. In più penso che per quanto efficienti siano, le video lezioni non saranno mai come vere e proprie lezioni "umane".
AV (Da un Liceo Classico di Palermo)
IL MIO ULTIMO GIORNO DI SCUOLA SENZA SAPERLO
Ho diciassette anni e frequento un liceo scientifico di Palermo. Quest’anno, io, come tutti i miei coetanei, avrei dovuto concludere la mia splendida esperienza scolastica. Invece, mi è stata bruscamente strappata ogni cosa. Immagino che a ciascuno di noi, giovani e adulti, sia stato strappato qualcosa che non potremo recuperare. Non ricorderò il mio ultimo periodo scolastico, non ricorderò il mio viaggio d’istruzione, non so se ricorderò la mia maturità. Probabilmente ho vissuto il mio ultimo giorno di scuola senza saperlo, senza stappare lo spumante con i miei compagni. I miei ricordi saranno piuttosto dolorosi: quelli di una pandemia, di una scuola snaturata. Saranno ricordi che, forse, ci consentiranno di comprendere il valore delle piccole cose, la cui presenza abbiamo sempre dato per scontata.
La scuola che viviamo oggi è fredda. Passiamo le nostre giornate a fissare uno schermo con cui possiamo interagire ben poco. I nostri docenti si sforzano di mascherare il loro sconforto e si adoperano per garantirci di proseguire i nostri studi. Le difficoltà di concentrazione sono notevoli.
Io che ho sempre amato lo studio, adesso non riesco ad amarlo. Ho scelto di vivere la mia esperienza scolastica in modo appassionato, affezionandomi a chi mi circondava. Difatti, l’insegnamento cui sono stata abituata è ricco di affetto, di calore umano, di scambi stimolanti.
Adesso dov’è il confronto? Dove sono i rapporti interpersonali con compagni e con docenti? Anche se consapevoli che l’apprendimento a distanza è l’unica alternativa possibile, possiamo affidare la conclusione del nostro percorso scolastico a un computer? La scuola che attualmente frequentiamo non è quella che voglio ricordare: voglio ricordare una scuola in cui il contatto è diretto, una scuola senza distanze.
Per di più noi studenti del quinto anno stiamo affrontando un periodo di estrema incertezza. Non sappiamo se e come si svolgerà il nostro esame di maturità. Rimanendo costantemente aggiornati sulle notizie più recenti, siamo venuti a conoscenza che in alcune nazioni il diploma è stato concesso senza alcuna verifica. Nessuno può ancora prevedere se questo accadrà anche a noi che, quasi certamente, a scuola non torneremo.
L’incertezza più grande resta, però, quella delle famiglie, degli affetti più cari. Proviamoun’angoscia cieca: il terrore di poter aver contratto il virus, pur essendoci muniti di mascherina e guanti, e di aver contagiato i nostri genitori, di aver abbandonato nella più totale solitudine i nostri nonni, di non poter incontrare mai più le persone cui vogliamo bene, perché il virus potrebbe sottrarcele.
Il solo effetto positivo della reclusione e dell’emergenza, se si può osare sostenere che essa ne abbia uno, è l’esperienza dell’unione e della solidarietà. Ho percepito una coesione inesistente in “tempi di pace” tra i miei compagni, tra i miei amici. Ognuno tenta con tutti i mezzi a sua disposizione di confortare chi gli sta intorno. Allo stesso modo, tra noi alunni e i nostri docenti, che ancor di più oggi si preoccupano di noi prima come persone che come studenti. Ho riscoperto l’ambiente familiare, il sapore dolce di una giornata serena trascorsa con chi si ama. Ho conosciuto i miei dirimpettai. I primi giorni mi sono commossa osservando la gente che si affacciava alla finestra per scambiarsi gesti di saluto, che condivideva le parole di una canzone, eleggendole a simbolo di fratellanza. Ogni sera il prete della chiesa vicino casa mia sale sulla terrazza e invita tutti alla preghiera. Ogni sera anche io vado al balcone e non per pregare: è straordinario osservare tutte le luci che lampeggiano di fronte a me. Mi fa comprendere che non solo sola, che non siamo soli a fronteggiare la tragedia del 2020.
Intanto, mentre alcuni di noi si curano della didattica a distanza, degli esami di maturità, di non poter vedere i propri amici o i propri parenti c’è chi perde qualcuno per sempre, senza neppure potergli dire addio, poiché l’isolamento a cui sono obbligati gli infetti da COVID-19 non consente visite. C’è chi non può restare con i propri genitori, impiegati di una struttura sanitaria, e da lontano li osserva rischiare il bene più caro che possiedono, la vita. Il mio pensiero va ai compagni del Nord, che attualmente combattono una battaglia più dura della nostra, che sono in lutto per le numerose perdite. A loro cosa può interessare dell’apprendimento a distanza? Cosa importa loro di terminare il programma quando i loro nonni o i loro genitori sono scomparsi? A loro non serve arrivare a studiare Montale o Freud, a loro serve la vicinanza di altri essere umani, il calore e l’empatia: in questo risiede la reale funzione della didattica a distanza.
AD (Da un Liceo Scientifico di Palermo)
UN RAGAZZO FINGE DI ASCOLTARE
Un garrito.
A volte può bastare anche un solo garrito a farci perdere nel meccanismo complesso della nostra mente.
La sera, al balcone, mentre tento di far volare via i brutti pensieri, ascolto i gabbiani: il loro verso si espande nel cielo spento, quasi a ricordare che questa fine sia solo una pausa, che la luce si sia solo allontanata per qualche minuto.
Quindi mi interrogo: “vogliono rammentarci che le nostre vite ci stanno aspettando? O forse stanno solamente gioendo, perché si sono riappropriati del cielo?”
Sicuramente avvertono che qualcosa sia cambiato.
Tuttavia, potrebbero mai immaginare che sia stato un bacio a spegnere la luce? Che sia stato un abbraccio ad uccidere una persona?
Neanche io ci rifletto spesso.
Ascolto numeri, statistiche, discussioni, dimenticando che siano riferiti a contagiati, guariti, morti.
La mattina accendo il computer, interagisco con i professori, prendo appunti, mi convinco che sia normale: io posso farlo.
Un altro ragazzo nel frattempo finge di ascoltare, perché la sua mente gli ricorda ogni secondo che quella video-lezione e la morte del nonno, dello zio o del padre abbiano causa comune.
Quindi ripensa all’ultima volta che ha abbracciato il suo caro, dimenticandosi che sia morto per un gesto simile: uno scambio di parole, una stretta di mano, un bacio di sfuggita.
È questo il motivo per cui a 18 mi rifiuto di credere che questo faccia parte di un disegno, che sia stato progettato.
Ascolto di persone che attribuiscono le colpe a Dio e sorrido amaramente all’idea che la causa stessa della vita possa anche solo avere intenzione di spingerci verso la morte.
Rispetto il pensiero di chi lo accusa, o di chi al contrario lo supplica di porre fine a tutto questo, perché l’istinto ci porta sempre ad individuare un segmento all’interno di una retta: trascorriamo ogni attimo della nostra esistenza all’insegna dei “perché” e dei “quindi”.
Tuttavia, non riesco ad accettare che al di là ci sia un arbitro universale, che sceglie chi merita la vita e chi no.
Trovo maggiore pace nel pensare che Dio, Allah, l’ordine delle cose (o qualsiasi nome gli si voglia attribuire) non decida, perché ogni avvenimento si sviluppa per caso, con meno razionalità.
Tutti noi infatti, superata la mezzanotte di questo triste giorno, per prima cosa torneremo a baciarci e ad abbracciarci. Ciò perché il contatto diventa più importante del ragionare, non a caso esso distingue l’essere umano dagli altri animali.
Fino a poche settimane fa infatti mai avrei pensato di dover seguire le lezioni attraverso uno schermo o di poter parlare solo tramite una chiamata.
E mentre mi impegno a rendere tutto ciò la normalità, ecco che i gabbiani tornano e mi ricordano che qualche giorno fa i rumori della città coprivano il loro garrito.
Quindi cade una lacrima al pensiero di tutte le persone che si spengono e ai loro cari che soffrono, e mi chiedo perché un gesto d’amore possa portare tanto dolore.
È un attimo, perché poi mi accorgo che non ci sia niente di cui stupirsi: d’altronde, anche la Bibbia spiega che Giuda tradì Gesù con un bacio.
(Da un Liceo Scientifico di Palermo)