Già da diverso tempo acuti osservatori hanno evidenziato la deriva economicistica della scuola odierna, trasformatasi da luogo di formazione a luogo di produzione e scambio. Ne cito, per la cronaca, solo qualcuno: Martha Nussbaum, Maurizio Bettini, Susanna Tamaro, Dacia Maraini, Massimo Recalcati.
Proprio Recalcati (Insegnanti non scendete dalla cattedra, “Repubblica”, 24 luglio 2019) al riguardo scrive:
È il fondamento umanistico irrinunciabile della nostra
cultura che oggi rischiamo di dimenticare attratti dalle illusioni
scientiste che hanno sospinto di fatto la Scuola verso l’azienda e l’impresa
snaturando la sua vocazione autenticamente formativa. L’importazione di lemmi
economicistici (debiti, crediti, assessment, ecc.) unita alla
colonizzazione della lingua inglese, non sono sintomi marginali ma rivelano la
nostra subordinazione ad una “neolingua” che ha smarrito ogni spessore
enigmatico. Gli insegnanti dovrebbero invece difendere il carattere epico della
parola.
Più chiaro di così...
Il declino culturale è reale, tristemente diffuso e percepibile.
E' il fallimento di una scuola, non più agenzia educativa, ma commerciale, dove l'inclusione a tutti i costi impedisce di bocciare e fare selezione e nella quale ci si riempie la bocca di "successo formativo" (altro lemma preso dal lessico economico-aziendalistico) per alimentare il narcisismo di presidi e dirigenti vari, trasformatisi in capitani d'azienda e come tali interessati ai numeri ed a mettersi in mostra con l'utenza, mentre la reale formazione dei giovani e l'apprendimento sostanzioso vanno a farsi benedire.
Mala tempora...
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