(Vesuviolive) -“Quando fu fatta l’unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000
telai, producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un
telaio. Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa.
E ancora oggi è così”.
Andrea Camilleri, scrittore siciliano famoso in principal modo per i
romanzi aventi come protagonista il commissario Montalbano, da cui è
stata prodotta una serie televisiva, pronunciò le parole sopra riportate
in un’intervista concessa a Roberto Cotroneo nel 2008, che prendendo le
mosse dalla situazione politica di allora, lo scontro tra l’appena nato
Partito Democratico guidato da Veltroni e Silvio Berlusconi, ha toccato
le corde della questione meridionale e dell’Unità d’Italia. Senza giri
di parole Andrea Camilleri denunciò il fatto che il Mezzogiorno non è altro che una colonia destinata a soccombere sempre di più, poiché rende man mano di meno e non può essere utile alla gestione politica quale è dal 1860:
“Io penso che nel 2008 l’operazione colonialista, iniziata subito dopo l’Unità d’Italia nei riguardi del Sud,
sia arrivata al punto finale: questa colonia del Sud rendendo sempre di
meno, sempre di più viene abbandonata a se stessa. E la colonia del Sud
è come se non facesse parte dell’Italia, come qualche cosa di aggiunto
all’Italia. Però se poi vado a vedere chi costituisce la mente direttiva
delle industrie del nord, dell’informazione del nord, mi accorgo che
sono dei meridionali. E allora mi sento in dovere di chiedere una
quantificazione in denaro delle menti meridionali che promuovono il
Nord. Voglio metterlo sul piatto della bilancia. Voglio vedere quanto
può valere il cervello di un industriale meridionale che lavora e
produce ricchezza al Nord”.
Cervelli del Nord che producono ricchezza al Sud non esistono per
Camilleri, il quale ha anche la spiegazione di tale circostanza:
La spiegazione risale al 1860. Quando una rivoluzione contadina venne chiamata brigantaggio.
Per cui uccisero 17 mila briganti che non esistono da nessuna parte del
mondo. Ed erano invece contadini in rivolta, o ex militari borbonici.
Tutto già da allora ha preso una piega diversa. Quando fu fatta l’Unità d’Italia noi in Sicilia avevamo 8000 telai,
producevamo stoffa. Nel giro di due anni non avevamo più un telaio.
Funzionavano solo quelli di Biella. E noi importavamo la stoffa. E
ancora oggi è così”.
Andrea Camilleri, il maggiore scrittore italiano in vita, parla
insomma di colonia interna, di sfruttamento sistematico del Mezzogiorno
sin dal momento dell’Unità, di falso Risorgimento che in realtà è stato una guerra di conquista,
di storia nascosta. Col passare del tempo il Sud non poteva che
diventare inutile, sfruttato ed inquinato, e allora bisogna trasferire
le menti al Nord dopo averle opportunamente programmate affinché
dimenticassero le proprie radici, una situazione cui non è esente da
colpe la classe dirigente locale:
“Nell’Ottocento, quando cominciò a sorgere la cosiddetta
questione meridionale, c’erano parecchi deputati meridionali che si
battevano per la questione meridionale. Oggi si battono per altro, non
per la questione meridionale”.
Che il neonato Stato Italiano fosse marcio lo avevano rilevato anche altri due grandissimi scrittori siciliani, Luigi Pirandello e Giovanni Verga,
i quali, inizialmente entusiasti per quella doveva essere una nuova
epoca dorata per la Sicilia cui fu promessa l’autonomia, divennero
critici e rinnegarono nei fatti l’Unità d’Italia. Pirandello nacque nel
1867 in una famiglia che aveva partecipato attivamente ai moti
risorgimentali, lottando al fianco dei Mille per la liberazione della
Sicilia, ma egli manifestò le proprie aspre critiche soprattutto nel
romanzo “I vecchi e i giovani”, dove sono a confronto la
vecchia generazione, quella protagonista dell’Unità, e la nuova, quella
che vive sulle proprie spalle i fatti del 1860. È un’opera il cui fulcro
è l’eredità lasciata ai giovani, ma non i giovani del tempo, bensì
quelli che sarebbero continuati a nascere nei decenni successivi. Donna
Caterina, nel romanzo, afferma:
“Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i
latifondi, la tirannia feudale dei cosìddetti cappelli, le tasse
comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane“.
Eccoli qui, ma non solo essi, gli ottomila telai di cui parla Andrea Camilleri. È quella che Pirandello chiama “bancarotta del patriottismo”,
l’inganno e il fallimento del Risorgimento, l’amara consapevolezza che
dietro i Mille vi era ben altro disegno, ben altri burattinai che della
Sicilia e, del resto, di tutto il Mezzogiorno, non se ne curavano se non
come territorio attraverso cui accrescere la propria posizione, il
proprio potere, la propria ricchezza. La critica di Giovanni Verga
si dispiega invece nel cosiddetto “Ideale dell’ostrica”, secondo il
quale è impossibile migliorare la condizione nella quale si è nati, una
sorta di cu nasci tunnu un po muriri quatratu, nonostante tutti gli sforzi che possano essere fatti: Mastro Gesualdo non diverrà mai Don Gesualdo, al massimo Mastro Don Gesualdo,
e la famiglia di Padron ‘Ntoni, appena cercherà di ampliare la propria
“attività” perderà la barca – migliorare non si può, si può solo fare
peggio, dunque è meglio restare, come un’ostrica, attaccati al proprio
scoglio. I lavori di Verga sono tutti incentrati sulla condizione delle
classi più povere e disagiate, implacabilmente sfruttate e
impossibilitate a raggiungere non solo il benessere, ma neanche una
condizione leggermente migliore rispetto a quella di partenza. In
maniera un po’ velata, certo, ma evidente a chi vuole andare oltre il
racconto e contestualizzare l’opera di uno scrittore, capire le basi
sulle quali è stata scritta, sono presenti la sfiducia e la delusione
verso qualcosa che sembrava oro, ma era un’illusione, un miraggio, un inganno: era l’oro dei pazzi.
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