martedì 27 agosto 2024

I piccoli paesi lucani, le aree interne e i soldi che girano

 (Michele Finizio

Non sarà con la cultura “fritta e mangiata”, riservata ai “picnic eruditi” dei viaggiatori dell’estate e della domenica, che si salveranno i borghi in via di estinzione, ormai diventati luoghi della consumazione

Strategie per le aree interne e rurali, turismo delle radici, turismo religioso, attrattori costosi e a volte fallimentari. Azioni che appaiono, nel migliore dei casi, come un fronte di resistenza all’inesorabile spegnimento dei piccoli paesi. Nel peggiore dei casi si tratta di soldi, soldi in gran quantità “investiti” – si fa per dire- in una miriade di iniziative buone per tre giorni o una settimana, e ancora più buone per chi riceve quel denaro in cambio di qualche performance. Direzioni artistiche, anche improbabili, animatori, teatranti e musici, cucinieri e inventori di coriandoli. Il popolo “alternativo”, quello che non “soffre la fame” e vanta di possedere qualche centimetro di cultura superiore alla media, partecipa, balla, canta. E ascolta i sermoni pseudo-filosofici e poetici di taluni esperti di danza della pioggia. Poi tutti a casa. Il borgo torna alla sua solitudine e ai suoi problemi di sopravvivenza. A finanziare queste meteore annuali, la Regione, l’Apt, aziende e imprenditori privati, e anche i GAL. Soldi. Decine di milioni.

C’è un “accanimento terapeutico” sulla bellezza vera o presunta dei luoghi. Il che vuol dire puntare, con patetica insistenza, sul turismo, sulla dimensione ludica e sulle tavolate di prelibatezze tipiche del borgo. Qualcosa di comico avviene quando si scopre che il piatto tipico del paese pinco pallo è sostanzialmente uguale al piatto tipico del vicino paese Pallo pinco, magari cambia solo il nome. Eppure sembra che quella pietanza, quella montagna, quel paesaggio incantevole, quelle tradizioni “popolari” (una volta lo erano quando c’era il popolo) salveranno quei luoghi dalla definitiva dipartita. Intanto, tutto questo serve a distribuire soldi. E al momento, per alcuni, è l’unica cosa che conta, il resto si vedrà.

Secondo la logica dell’accanimento terapeutico sulla bellezza, si salveranno soltanto i paesi che, in base a banali criteri, sono affascinanti o lo diventeranno. Tutti gli altri, quelli “brutti”, avranno a che fare con un futuro che viaggia sul binario morto. Eppure, tutti hanno la stessa luna e lo stesso cielo. Tutti hanno lo stesso cibo, le stesse strade incerte e tortuose. Tutti hanno gli stessi problemi: l’assenza o la carenza di servizi per la vita; le distanze dal resto del mondo. E non sarà con la cultura “fritta e mangiata”, riservata ai “picnic” eruditi dei viaggiatori dell’estate e della domenica, che si salveranno.

Devo ripetermi. I piccoli paesi ridotti a luoghi di rappresentazione hanno invece bisogno di essere luoghi di creazione. E allora? Che i paesi siano luoghi di Arte e Cultura, anziché di poesie alla brace e di leggende in tempura. Siano soprattutto luoghi di creazione non di destinazione. Siano luoghi della realtà e non contenitori di simboli. Sembra una banalità, ma non lo è. Ancora una volta per capire la verità della fatica della gente che vive o sopravvive nei piccoli paesi è Vito Tetiche dobbiamo ascoltare: “Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.” E questo non è possibile se i borghi continuano a trasformarsi in luoghi della consumazione di ciò che resta e dei soldi che girano.

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venerdì 16 agosto 2024

venerdì 9 agosto 2024

CHIE ERA ISABELLE COLONNA?


(Memorie di Roma) - Dove la Principessa Isabelle Colonna riceveva la Regina Elisabetta....

A Palazzo Colonna, uno dei palazzi patrizi più maestosi del mondo, dove si apre una galleria che non ha nulla da invidiare ai grandiosi saloni di Versailles, i Principi Colonna conservano l’ appartamento della Principessa Isabelle esattamente com’ era quando lei era ancora in vita.
Qui è possibile ritrovare la stessa atmosfera raccolta, la stessa cura nei dettagli e l’ attenzione a non spostare le foto di famiglia, accanto alla celebre collezione che raccoglie ben trentasette vedute di Vanvitelli.
E non è l’ unico primato di questi ambienti, che si trovano nel piano terreno del palazzo sorto sulle fondamenta dell’ antico Tempio di Serapide.
Isabelle Colonna, (Beirut 1889 - Roma 1984) nata Sursock, famiglia di origine bizantina stabilitasi in Libano dal diciassettesimo secolo, si innamorò del Principe Marcantonio, che la portò in Italia, dove seppe inserirsi con successo nella società romana.
“Gran dama di corte, intelligente, colta, conservatrice nel senso più puro e coerente, dopo la caduta della monarchia si era trovata a sostituire Maria Josè come “regina supplente “, offrendo ricevimenti regali, cui erano ammesse unicamente teste coronate e fra i borghesi soltanto finanzieri e banchieri, purché, ovviamente, non fossero divorziati. Ospitò anche la regina Elisabetta II".
L'impronta della Principessa Isabelle, è particolarmente evidente nel suo appartamento rinascimentale al piano terreno, che ha abitato oltre 70 anni e che oggi è a lei dedicato.
Negli ultimi anni di vita il suo appartamento si era trasformato in uno scrigno di tesori, che amava mostrare soltanto agli amici più intimi.
Uno dei pezzi più rari è l’ orologio notturno dipinto, custodito tra due bauli all’antica nella Sala della Fontana:
all’ interno un meccanismo silenzioso muove i numeri retro-illuminati da una candela.
Solo un altro dei tanti tesori nascosti in questa dimora, che rivela come spesso si possa convivere tranquillamente a contatto con assoluti capolavori.
Fonte COSTANTINO D’ORAZIO



VOLTAIRE SUL POTERE

 


LA VIA APPIA REGINA VIARUM

mercoledì 7 agosto 2024

LA FESTA DEL SANTO PATRONO

 


Questo magnifico scatto è della docente e antropologa visuale Annalisa Cervone.
Le luminarie, la cassa armonica, la banda musicale, il piccolo pubblico attento e l'anziana donna di paese, vestita, appunto, a festa, che in quella festa ritrova il senso della propria comunità, oltre che della sua propria identità.
Il senso della radicamento alla terra ed alla comunità di nascita è qui magistralmente colto, ricordandoci che il momento della festa paesana, tra bevute, mangiate, preghiere al santo e stornelli che ricordano la fatica contadina, quel radicamento, insomma, è ciò che va mantenuto vivo più che mai, proprio nell'epoca in cui il mostro della globalizzazione fagocita e distrugge identità, differenze, sapienze millenarie. 
E' proprio disintegrando e sradicando le varie culture, nella bellezza delle loro differenze, che il livellamento verso il basso e l'infelicità individuale e collettiva è pronta per essere servita. Anche gli emigranti che ritornano una volta all'anno proprio per quella festa hanno bisogno di ritrovare lo spirito comunitario della loro infanzia e della prima giovinezza.
Pertanto, la festa diventa molto più che un momento di unita offerta al Santo Patrono: diventa il modo per sentire di "appartenere" ad un contesto comunitario, anche se lo si è lasciato da anni. Diventa il recupero dell'orgoglio delle radici, senza le quali è difficile, se non impossibile, costruirsi come persona e progettarsi come futuro.

Eloquente, è questa riflessione di un accademico sannita, il professor Pier Luigi Rovito: 

La foto di Annalisa Cervone esprime al meglio il valore della musica portata in piazza dalla banda, nella festa del Santo patrono. A sera dopo la processione. Poi, a conclusione, gli ultimi squilli di tromba sugli spari che illumineranno il cielo dell' addio. L'atteggiamento assorto della donna, l' abito della festa, i capelli bianchi, le vecchie luminarie, le sedie vuote attorno al palco, raccontano di letizia e di tristezza al tramonto della società comunitaria che un tempo sorreggeva queste feste. Ora divenute le sagre dei restanti e dei ritornanti al vecchio ovile. Per respirarne qualche refola d'aria, forse l' ultima. Siamo sul ciglio di un burrone sul nulla: paesi abbandonati, terre del pane invase dagli sterpi, desertificazione. È questo scenario ad imporre la necessità che i brandelli sempre più pallidi della tradizione, siano conservati con cura, vezzeggiati, proposti con testardaggine. Nella consapevolezza che senza queste radici svaniranno anche le speranze di futuro. Inesistente per le comunità disperse. Né potrà il vento sostituire i tocchi sferzanti di flicorni e tamburi nei giorni di festa. Poco importa se un po' scalcagnati.

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