Strategie per le aree interne e rurali, turismo delle radici, turismo religioso, attrattori costosi e a volte fallimentari. Azioni che appaiono, nel migliore dei casi, come un fronte di resistenza all’inesorabile spegnimento dei piccoli paesi. Nel peggiore dei casi si tratta di soldi, soldi in gran quantità “investiti” – si fa per dire- in una miriade di iniziative buone per tre giorni o una settimana, e ancora più buone per chi riceve quel denaro in cambio di qualche performance. Direzioni artistiche, anche improbabili, animatori, teatranti e musici, cucinieri e inventori di coriandoli. Il popolo “alternativo”, quello che non “soffre la fame” e vanta di possedere qualche centimetro di cultura superiore alla media, partecipa, balla, canta. E ascolta i sermoni pseudo-filosofici e poetici di taluni esperti di danza della pioggia. Poi tutti a casa. Il borgo torna alla sua solitudine e ai suoi problemi di sopravvivenza. A finanziare queste meteore annuali, la Regione, l’Apt, aziende e imprenditori privati, e anche i GAL. Soldi. Decine di milioni.
C’è un “accanimento terapeutico” sulla bellezza vera o presunta dei luoghi. Il che vuol dire puntare, con patetica insistenza, sul turismo, sulla dimensione ludica e sulle tavolate di prelibatezze tipiche del borgo. Qualcosa di comico avviene quando si scopre che il piatto tipico del paese pinco pallo è sostanzialmente uguale al piatto tipico del vicino paese Pallo pinco, magari cambia solo il nome. Eppure sembra che quella pietanza, quella montagna, quel paesaggio incantevole, quelle tradizioni “popolari” (una volta lo erano quando c’era il popolo) salveranno quei luoghi dalla definitiva dipartita. Intanto, tutto questo serve a distribuire soldi. E al momento, per alcuni, è l’unica cosa che conta, il resto si vedrà.
Secondo la logica dell’accanimento terapeutico sulla bellezza, si salveranno soltanto i paesi che, in base a banali criteri, sono affascinanti o lo diventeranno. Tutti gli altri, quelli “brutti”, avranno a che fare con un futuro che viaggia sul binario morto. Eppure, tutti hanno la stessa luna e lo stesso cielo. Tutti hanno lo stesso cibo, le stesse strade incerte e tortuose. Tutti hanno gli stessi problemi: l’assenza o la carenza di servizi per la vita; le distanze dal resto del mondo. E non sarà con la cultura “fritta e mangiata”, riservata ai “picnic” eruditi dei viaggiatori dell’estate e della domenica, che si salveranno.
Devo ripetermi. I piccoli paesi ridotti a luoghi di rappresentazione hanno invece bisogno di essere luoghi di creazione. E allora? Che i paesi siano luoghi di Arte e Cultura, anziché di poesie alla brace e di leggende in tempura. Siano soprattutto luoghi di creazione non di destinazione. Siano luoghi della realtà e non contenitori di simboli. Sembra una banalità, ma non lo è. Ancora una volta per capire la verità della fatica della gente che vive o sopravvive nei piccoli paesi è Vito Tetiche dobbiamo ascoltare: “Partire e restare sono i due poli della storia dell’umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.” E questo non è possibile se i borghi continuano a trasformarsi in luoghi della consumazione di ciò che resta e dei soldi che girano.
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