martedì 25 aprile 2017

LIBERARE I PAESI DALLE ABITUDINI

Bisogna starci, nei paesi.
Bisogna arrivarci, nei paesi. Bisogna camminarli, attraversarli, parlare con i vecchi, con un cane, con un papavero che sta sul ciglio della strada.
La vera liberazione - in un paese - è quella dall'abitudine, dal parlare sempre con le stesse persone, vedere le cose sempre con gli stessi occhi e produrre - sempre - gli stessi sguardi. Dobbiamo liberare i paesi dalle abitudini. Dobbiamo liberare i paesi da quelli che qualche illuminato ha definito il "ripetente" e lo "scoraggiatore militante": colui che ripete sempre le stesse cose, lo stesso ruolo, dice le stesse cose con la medesima voce stridula e colui che declina il mantra del "non cambierà mai niente" o del "qui non c'è nulla".
I paesi hanno bisogno di costanza e ardimento; i paesi hanno bisogno - come l'acqua - di altri occhi con cui guardare le cose del paese; i paesi hanno bisogno di connessioni con le altre comunità e con le persone che li abitano; i paesi hanno bisogno di sperimentazioni e di invenzioni: i paesi devono liberarsi della "coazione a ripetere".
I paesi devono liberarsi del mito della lamentazione: devono dire cosa possono fare loro per il mondo e non cosa vorrebbero che il mondo facesse per loro (e che il mondo non farà perché mai lo ha fatto).
I paesi si devono liberare della vergogna di parlare la propria lingua, della vergogna di avere le mani sporche di terra, della vergogna di dire le poesie ad alta voce e di cantare le canzoni nei bar.
I paesi si devono liberare dei medici che non curano, dei politici che non ascoltano, dei preti che non pregano. 

(Franco Arminio)

sabato 22 aprile 2017

IL FELICE MATRIMONIO DEL RIFORMATORE HEINRICH BULLINGER CON UNA MONACA

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Di

Il 30 settembre 1527 un messo consegna al convento di Oetenbach una lettera che cambierà per sempre la vita di Anna Adlischwyler. L’ha scritta il pastore Heinrich Bullinger, un compagno del riformatore Huldrych Zwingli.

«Tu se l’unica che ho per la testa», confessa Bullinger alla giovane suora nella lettera. Il pastore dice di voler vivere e condividere tutto con lei. «Sei giovane e Dio non ti ha dato il tuo corpo perché tu rimanga per sempre suora e non faccia nulla perché porti frutto», scrive. Dopo una lode del matrimonio, aggiunge: «Leggi la lettera tre o quattro volte, pensaci e prega Dio che ti faccia conoscere la sua volontà».
Ancora pochi anni prima una lettera del genere sarebbe stata impensabile. Ma dopo la Riforma neppure Zurigo è più come prima. I preti si sposano e le monache, che hanno dedicato la loro esistenza a Dio, voltano le spalle alla vita in convento. Anche il riformatore tedesco Martin Lutero ha sposato una suora, 16 anni più giovane di lui.

Invettiva contro il «predicatore briccone»

A Zurigo già nell’estate 1522 Zwingli ha detto in una predica che la vita conventuale non è basata sulla Bibbia. Ma molte monache non conoscono altro, perché le loro famiglie le hanno mandate in convento che erano ancora bambine. Per questo alcune di loro sono indignate contro la decisione del governo cittadino di nominare il riformatore Leo Jud loro assistente spirituale. Inveiscono contro questo «predicatore briccone», che dicono inviato dal diavolo. Una di loro arriva persino a minacciare di «defecare nel suo evangelo».
Tra i cattolici e i protestanti scoppia un’aspra contesa per conquistare le anime di queste pie donne. Monaci predicatori cattolici tentano persino di scavalcare le mura del convento con scale a pioli per leggere la messa alle suore.

Il governo cittadino lascia la scelta alle suore

Nell’estate del 1523 il governo fa sapere che le monache possono scegliere: potranno sposarsi e vivere in una casa onorata oppure restare in convento. Due anni dopo il convento di Oetenbach è chiuso ufficialmente.
Ventotto suore scelgono la vita secolare. Possono portare con sé i loro abiti e i loro mobili e la città restituisce loro le prebende che le famiglie hanno versato al convento. Anche il denaro che hanno investito per ristrutturare le loro celle viene loro risarcito.
Quasi la metà delle suore trova presto un marito, una di loro sposa persino il cappellano del duomo cittadino, il Grossmünster. Questo matrimonio suscita però grandi polemiche. Molti zurighesi ritengono che non si possa fare, che sia un grave scandalo. Alcuni ne parlano come di un’infamia. Poesie ingiuriose sono appese ai muri, non si sa da chi.
Quattordici suore decidono di rimanere fra le mura del convento. Dovranno però portare abiti civili, frequentare la predica riformata e lavorare, come tutte le «donne onorate». Una di loro è Anna Adlischwyler, che ora deve decidere se accettare la proposta di matrimonio di Heinrich Bullinger.

La madre di Anna si oppone

I due si fidanzano il 29 ottobre 1527 nel Grossmünster. Bullinger torna al suo lavoro nel convento di Kappel, ma la madre di Anna manda all’aria i suoi piani. Se sua figlia si sposa, allora la vedova benestante vuole che almeno lo faccia con un partito migliore del figlio illegittimo di un prete. Anna è una figlia obbediente e prega il fidanzato di sciogliere la promessa di matrimonio.
Bullinger è fuori di sé. In una lettera implora Anna di sposarlo e di non esporlo al ridicolo. Poi le manda il suo amico Zwingli per cercare di farle cambiare idea. Invano.
Non a torto Bullinger teme che la madre possa promettere Anna a qualcun altro. Per questo ricorre al tribunale matrimoniale di Zurigo. Anna deve ammettere di aver promesso a Heinrich di sposarlo, ma ricorda anche di aver sempre detto di non voler far nulla contro la volontà della madre.

Bullinger deve portare pazienza

Zwingli, presente come testimone, aiuta come può il suo amico. Anna gli ha detto che la madre vorrebbe «darle un ricco, ma lei non lo vuole», assicura. Nell’estate 1528 il tribunale sentenzia che il fidanzamento è vincolante e che di conseguenza «Anna non può contrarre matrimonio con nessun altro uomo». Ciononostante Heinrich deve aspettare un altro anno.
Anna lo sposa solo sei settimane dopo la morte di sua madre. Il giorno del matrimonio Bullinger le dedica una poesia, in cui la chiama «imperatrice» e le assicura: «Ora sono calmo, ora sto bene, se io, amor mio, posso essere vicino a te».
È un matrimonio felice, per quanto si possa giudicare oggi. La coppia avrà 11 figli. Nel 1531 Bullinger succede a Zwingli nel ruolo di predicatore nel Grossmünster, sua moglie regge le sorti di una casa aperta a molti ospiti.
Quando dopo trentacinque anni Anna muori di peste, Henrich è inconsolabile. Con un amico si lamenta: «Tu sai che il Signore ha chiamato a sé il bastone della mia vecchiaia, la mia prescelta, la mia fedele moglie, tanto timorata di Dio. Ma Dio è giusto e il suo giudizio è giusto».


martedì 18 aprile 2017

BEPPE FENOGLIO E CONSORTE, RARA IMMAGINE D'EPOCA

(Centro Studi Beppe Fenoglio)

Era il 28 marzo 1960, un lunedì di inizio primavera quando Beppe e Luciana si sposano in Comune ad Alba. E' un rito civile, sono i primi in città a volerlo e grazie a loro vengono istituiti i registri per i matrimoni civili.
Nell'immagine i coniugi Fenoglio in uno scatto di A. Agnelli, archivio Centro studi Beppe Fenoglio.

 Viaggio di nozze a Ginevra

2017, UN ANNO RICCO DI ANNIVERSARI



10 anni dell’IPhone

20 anni della morte di Madre Teresa di Calcutta

20 anni della morte di Lady Diana

30 della prima puntata dei Simpson

30 anni della morte di Andy Warhol

30 anni della morte di Primo Levi

40 anni di Guerre Stellari

50 anni della morte di Totò

60 della prima Fiat 500

60 anni del lancio della cagnetta Laika nello spazio

80 anni della morte di Lou Salomé

100 anni della nascita di Kennedy

100 anni della Rivoluzione di Ottobre

100 anni della disfatta di Caporetto

150 anni della nascita di Luigi Pirandello

150 anni della nascita di Marie Curie

500 anni della Riforma Luterana

STUDENTI CONTRO L'ALTERNANZA SCUOLA-LAVORO

lunedì 17 aprile 2017

CEDI LA STRADA AGLI ALBERI


(frammenti di un discorso ecologico dalla casa della paesologia)

di FRANCO ARMINIO
Non ti affannare a seminare noie e malanni nelle tue giornate e in quelle degli altri, non chiedere altro che una gioia solenne. Non aspettarti niente da nessuno e se vuoi aspettarti qualcosa, aspettati l’immenso, l’inaudito.
Trovati uno scalino, riposati con la faccia al sole. Se c’è qualcuno che parla ascoltalo. Per tornare a casa aspetta che sia sera. Usa il buio come un fiocco per chiudere la giornata e fanne dono a chi ti vuole bene.
Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro. Vai a fargli visita prima di partire e quando torni. Stai all’aria aperta almeno due ore al giorno. Ascolta gli anziani, lascia che parlino della loro vita. Fatti delle piccole preghiere personali e usale. Esprimi almeno una volta al giorno ammirazione per qualcuno. Dai attenzione a chi cade. Leggi poesie ad alta voce. Fai cantare chi ama cantare. Prova a sentire il mondo con gli occhi di una mosca, con le zampe di un cane.
Il bene quando c’è dura assai poco, in genere svanisce il giorno dopo. Girati verso il muro, verso il sole che illumina una faccia qualsiasi. Festeggia appena puoi il minuto più inutile della tua vita.
Spesso gli uomini si ammalano per essere aiutati. Allora bisogna aiutarli prima che si ammalino. Salutare un vecchio non è gentilezza, è un progetto di sviluppo locale.
Camminare all’aperto non è seguire il consiglio del medico, è vedere le cose che stanno fuori, ogni cosa ha bisogno di essere vista, anche una vecchia conca piena di terra, una piccola catasta di legna davanti alla porta, un cane zoppo. Quando guardiamo con clemenza facciamo piccole feste silenziose, come se fosse il compleanno di un balcone, l’onomastico di una rosa.
Mai vista una primavera così bella, la luce sembra impazzita, è un diamante la testa del serpente, il silenzio concima le ginestre, sono quieti i paesi da lontano. Non insistere a dolerti, ogni albero è tranquillo e felice di vederti.
Camminare, guardare gli alberi, non dire e non fare nient’altro che un giro nei dintorni, uscire perché fra poco esce il sole, perché una giornata qualsiasi è il tuo splendore. Pensa, hanno già spezzato una zampa a un cane, una foglia è caduta. Fatti girare la testa velocemente e poi fermala, apri gli occhi a caso: davanti a te c’è una scena del mondo una qualunque, vedi quanto è preziosa, vedila bene, con calma, tieni la testa ferma, rallenta il giro del sangue. Che meraviglia che sia mattina, che abbia smesso di piovere.
C’è solo il respiro, forse ce n’è uno solo per tutti e per tutto. Spartirsi serenamente questo respiro è l’arte della vita. La faccenda è teologica. Abbiamo bisogno di politica e di economia, ma ci vuole una politica e un’economia del sacro. Ci vuole la poesia.
Molte albe, molte gentilezze, festeggiare molto spesso la luce, poco avere, scarsi indugi, minare il rancore, farlo saltare, meglio il silenzio, la carezza, il fiore.
Per stare bene non ci vogliono i medici, ci vuole una passione senza fine. Abbiamo bisogno di cose profonde e invece zampettiamo in superficie. Chi è chiuso nelle grandi malattie lo sa bene quanta vita sprechiamo noi che stiamo bene.
Sento che siamo arrivati ai giorni semplici. Ora si può credere a quello che ci accade,
credere all’aria che ci accoglie quando usciamo e al saluto di chi incontriamo, alla notte che viene, alla luce che rimane, credere che non c’è malattia fino a quando parliamo con la nostra voce, fino a quando lottiamo con gioia. Attraversiamo con fiducia ogni scena del vivere e del morire, facciamo di ogni fatica una fortuna, andiamo dentro le ore senza saltarne una.
Punta sulla nuvola e su altre cose mute, non tue, non vicine, non addestrate a compiacerti, punta sulla morte, anche sulla morte, sulla sua decenza, sul fatto che non ritratta niente, punta sulla luce, cercala sempre, infine punta sulla tua follia, se ce l’hai, se non te l’hanno rubata da piccolo.
La notte scorsa nel mondo sono morte tante persone. Noi no. È bene ricordarsi ogni tanto il miracolo di stare nella luce del giorno, davanti a un albero, a un volto.
Non so quando è accaduto il massacro di ciò che è lieve, lento, sacro, inerme.
Adesso per tornare a casa, per tornare assieme nella casa del mondo,non serve la rabbia, non serve lo sgomento, basta sentire che ogni attimo è un testamento.
Concedetevi una vacanza intorno a un filo d’erba, dove non c’è il troppo di ogni cosa,
dove il poco ancora ti festeggia con il pane e la luce, con la muta lussuria di una rosa.
Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento. Più che l’anno della crescita, ci vorrebbe l’anno dell’attenzione. Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato. Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare, significa dare valore al silenzio, al buio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza.

domenica 2 aprile 2017

A FRANCESCO DE SANCTIS, NEL BICENTENARIO DELLA NASCITA

di ANGELA MARTINO

Francesco De Sanctis (Morra Irpina, 28 marzo 1817- Napoli, 29 dicembre 1883), oltre ad essere stato grande storico e critico letterario, giornalista ed insegnante, fu un ardente patriota, deputato e ministro della Pubblica Istruzione, il primo ministro dell’Istruzione dell’Italia Unita.
Intendiamo rimarcare il suo patriottismo, il sacrificio, le sofferenze e il dolore di un uomo che seppe essere un grande letterato ed offrire il suo notevole contributo alla causa nazionale, diventando il primo ministro della Pubblica Istruzione dell’Italia Unita. Lo ritroviamo, pertanto, nei primi movimenti insurrezionali del 1848 con alcuni suoi alunni durante la tragica giornata del 15 maggio 1848 in cui si batté strenuamente nelle barricate a Napoli. A tal riguardo sono esemplari le sue parole rivolte ai suoi allievi: “Ma che? La nostra scuola è per avventura una Accademia? Siamo noi un’Arcadia? No, la scuola è la vita” .
Quindi, successivamente, scrisse: “Quando venne il giorno della prova, e la patria chiamò, maestro e discepoli entrammo nella vita politica, che conduceva all’esilio, alla prigione, al patibolo, e i miei discepoli affermarono questa grande verità che la scuola è la vita, chi con la morte, chi con la prigione, chi col confino, chi con l’esilio, ed io, io seguii le sorti dei miei discepoli, gioioso di partire con loro”.
In effetti, il grande letterato e patriota, durante la sanguinosa giornata del 15 maggio, fu fatto prigioniero dai soldati svizzeri e rinchiuso in fondo ad una nave da guerra, che si trovava nel porto. Egli venne poi rilasciato, in seguito all’indulto del 17 maggio, ma non dimenticò i suoi discepoli che avevano trovato la morte, fra cui il più amato, Luigi La Vista, lucano, ucciso dai soldati svizzeri a Napoli, in piazza Carità.
Successivamente fece parte della “Setta dell’Unità d’Italia” di Luigi Spaventa e Luigi Settembrini, ma il 3 dicembre dell’anno 1850 Francesco De Sanctis fu arrestato per ordine del generale Alessandro Nunziante, subendo due anni e nove mesi di prigionia nella prigione di Castel dell’Ovo. Tale punizione, che considerava ingiusta ed inaccettabile, gli fecero scrivere delle parole straordinarie sulla necessità del dolore per il progresso dell’umanità.
“Il dolore, la fatica, il male e la morte sono le condizioni essenziali, che rendono possibile l’esplicazione progressiva dello spirito…Gli individui soffrono: l’umanità vince…Offriamo con orgoglio i nostro dolori alle future generazioni…Il dolore umano è seme di libertà, né alcuna stilla di sangue è sparsa indarno”.
Francesco De Sanctis, in seguito all’istruttoria, affidata a Cristiano Giambarba, commissario della delegazione marittima, fu riconosciuto innocente, ma fu liberato solo nell’agosto del 1853 per essere condannato all’esilio perpetuo da Ferdinando II. Pertanto il 3 agosto del 1853 fu imbarcato sul piroscafo Hellspont, per essere trasportato negli Stati Uniti d’America. Egli, tuttavia, sbarcò a Malta e, invece di vivere il suo esilio nell’isola, preferì raggiungere il Piemonte , la città di Torino. Qui ritrovò il suo discepolo Angelo Camillo De Meis, con cui si confronterà sulla necessità della continuazione della politica rivoluzionaria mazziniana o sul prendere atto che politicamente bisognava adeguarsi ad una visione più realistica per il raggiungimento dell’Unità e dell’Indipendenza , guardando alla politica di Cavour con occhi più attenti.
A tal riguardo lo storico Sergio Landucci ha ravvicinato la parabola politica del De Sanctis a quella di Daniele Manin nel senso che lo stesso De Sanctis chiarirà in tal modo: Cos’è l’uomo politico? E’ quello il quale ha una conoscenza adeguata dello stato di fatto in cui si trova il paese, e lasciando gli ideali ai filosofi, sa trovare le idee concrete attuabili in quelle condizioni” . De Sanctis aveva conosciuto il sacrificio, le sofferenze, il dolore delle idealità, ma prendeva atto delle tante sconfitte, di cui l’ultima, più terribile, fu quella del grande Carlo Pisacane, assassinato dagli stessi contadini che voleva liberare, aizzati dal clero oscurantista e dalla reazione borbonica.
Da grande patriota quale era stato, Francesco De Sanctis voleva recarsi anche a combattere contro l’Austria nel 1859, ma era un uomo già provato e non poté parteciparvi. Quando fu concessa la costituzione nel Regno di Napoli, De Sanctis si decise a ritornare nella sua terra. Era terminato il suo lungo esilio di sofferenza patriottica. Giunse a Napoli il 6 agosto 1860 con Camillo De Meis. Il 9 settembre 1860 fu nominato Governatore della provincia di Avellino. De Sanctis fu eletto parlamentare nella circoscrizione di Sessa Aurunca. Nel marzo del 1861 diverrà il titolare del dicastero della Istruzione Pubblica nel primo ministero dell’Italia Unita.

Fonte: www.comunedipignataro.it

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