domenica 27 settembre 2015

SORPRESA: IL PC A SCUOLA NON AIUTA A IMPARARE

Ocse: chi lo usa molto ha risultati peggiori, gli studenti con handicap si isolano. Le nuove tecnologie sono utili, ma solo se si rende la didattica interattiva e multidisciplinare

(La Stampa) - Andrea Gavosto *

Negli ultimi anni la scuola italiana sta cercando affannosamente di recuperare il ritardo nell’uso di internet e delle nuove tecnologie che ancora la separa da quelle dei Paesi più avanzati. La stessa legge della Buona Scuola dichiara fra i suoi obiettivi primari quello di sviluppare le competenze digitali degli studenti: di diventare, in altre parole, una scuola 2.0. Finora, lo sforzo principale si è concentrato sugli strumenti informatici: le scuole hanno cominciato a riempirsi di pc, tablet e lavagne interattive, mentre invece assai più lenti sono stati i progressi in termini di quelle connessioni che permettono a tutte le aule di dialogare con la rete. Un paio di anni fa, l’Ocse suonò l’allarme, dicendoci che da questo punto di vista segnavamo un ritardo di 15 anni rispetto, ad esempio, al Regno Unito. 
Naturalmente, però, accrescere le dotazioni tecnologiche e la connettività non è sufficiente. Quandanche le nostre aule fossero perfettamente attrezzate e connesse, resterebbe da rispondere a un quesito fondamentale: come utilizzare internet e le nuove tecnologie affinché gli studenti abbiano risultati migliori, in termini di conoscenze apprese e competenze acquisite? 
E qui arrivano i guai, non solo per l’Italia. Un nuovo rapporto dell’Ocse, che ha studiato la relazione fra uso delle Ict a scuola e i risultati dei test Pisa sulle competenze degli studenti di 15 anni in decine di Paesi, dà conferma autorevole a un sospetto che avevamo da tempo: di per sé le Ict non portano a un miglioramento apprezzabile nelle competenze linguistiche, matematiche e scientifiche degli studenti. E, ancora, un uso intensivo del computer a scuola porta a risultati significativamente peggiori di chi lo usa moderatamente. O, infine, le tecnologie digitali non servono a diminuire il ritardo degli studenti socialmente meno avvantaggiati: anzi questi ultimi ne fanno spesso un uso eccessivo, che li porta a isolarsi ulteriormente. Per inciso, a conclusioni simili era giunta la Fondazione Agnelli in uno studio sulla sperimentazione Cl@ssi 2.0 del Miur e nel suo Rapporto sulla scuola 2010.  
Abbiamo un paradosso. Da un lato, le nuove tecnologie sono ovunque e, come sappiamo, stanno rivoluzionando la vita quotidiana e il mondo del lavoro, abbattendo confini, trasformando le competenze, eliminando mansioni di routine, facendo nascere nuove industrie: sembra irragionevole che non entrino nella scuola e la scuola non insegni a sfruttarle al meglio per la formazione di un giovane. Dall’altro lato, la ricerca ci dice che il loro impiego nel processo educativo dà risultati modesti, se non addirittura negativi. 
Come si esce dal paradosso? A mio avviso, la risposta è nella qualità dell’impiego delle risorse informatiche. Se si usa la lavagna interattiva come si usava quella di ardesia, se le lezioni continuano a essere quelle tradizionali, se gli studenti rimangono spettatori passivi, sia pure di fronte a un tablet, non ci si può stupire che i risultati non si vedano. Le tecnologie non sono la bacchetta magica per tutti i problemi dell’istruzione: il problema è quindi la didattica. Internet offre l’occasione per ripensare il modo di insegnare: ma occorre avere il coraggio di abbandonare gli schemi seguiti da decenni, di superare i confini fra le materie, di favorire la partecipazione attiva e critica degli studenti. La rete è una miniera di informazioni facilmente accessibili, che rende obsoleto il semplice immagazzinare nozioni, ma richiede, più di prima, la capacità di ricercare, di stabilire nessi, di «imparare ad imparare», mettendo le conoscenze apprese al servizio di competenze che dovranno continuamente rinnovarsi per stare al passo con il progresso. Senza un radicale rinnovamento del modo in cui gli insegnanti fanno scuola con le Ict, la rincorsa tecnologica della nostra scuola rischia di essere un inutile e costoso spreco. 


* Direttore Fondazione  
Giovanni Agnelli 

sabato 5 settembre 2015

SCENA ANTICA CHE ANNULLA IL PRESENTE



 Migranti che superano a piedi il ponte Elisabeth sul Danubio (foto La Stampa)

E' vero che la scena di masse umane in cammino è una costante della storia. Proprio per questo continua a commuovere: perché conosciamo la storia che c'è dietro, che in fondo è sempre quella. Proprio per questo continua a commuovere: perché conosciamo la storia che c'è dietro, che in fondo è sempre quella, anche se diversa ogni volta. La meta è un desiderio di destino. "Vai nel luogo che ti dirò", dice il Signore ad Abramo, quando gli ingiunge di abbandonare la casa dove è nato per andare incontro a un futuro che né lui né Dio ancora conoscono. Abramo, che vuol dire "Padre Grande", è uno solo ma è come se fossero tanti. Sono lui le moltitudini di uomini, donne, bambini, giovani e anziani, sani e infermi, che nella storia si sono messe in cammino per raggiungere qualcosa di ancora sconosciuto ma carico di quella luce incerta che è la speranza. E il cammino a piedi è fatto di una lentezza il cui sapore noi che viaggiamo dentro la cabina di un aereo o sopra morbide ruote di gomma non conosciamo più.
Per questo ci scuote, il lento flusso di quei migranti dentro i nostri confini. Zaini in spalla, mani nelle mani, passeggini e fazzoletti in testa. Bandiere. Voci che s'incontrano. Colori che cangiano sotto la luce e l'ombra.
E' una scena antica eppure a ben guardare sempre presente, in un angolo o nell'altro della nostra storia. Loro sono stranieri, vengono da luoghi lontani che non conosciamo e di cui sappiamo o facciamo finta di sapere molto poco.

Elena Loewenthal
(Estratto dall'articolo pubblicato su La Stampa: "Scena antica che annulla il presente", di sabato 5 settembre 2015)

LA VITA DI FIANCO


L’infermiera Bronnie Ware ha raccolto in un libro («Vorrei averlo fatto» il titolo italiano) i rimpianti dei malati terminali che ha accompagnato al traguardo. Vi sorprenderà sapere, o forse no, che il rimpianto più diffuso è: «Mi è mancato il coraggio di vivere la mia vita senza preoccuparmi di quello che gli altri si aspettavano da me». La sensazione che la vita vera si trovi in un Altrove che abbiamo paura di raggiungere. Ne diamo la colpa agli altri, coltivando l’idea che le responsabilità che abbiamo nei confronti del prossimo costituiscano le sbarre di una gabbia contro cui vanno sistematicamente ad abbattersi i nostri tentativi di spiccare il volo. Ma si tratta di un alibi che ci raccontiamo per tutta la vita e anche in punto di morte.  
 
In realtà le sbarre ce le costruiamo da soli, e sono i «Non» di cui costelliamo le nostre giornate: Non si può, Non si deve, Non ce la faccio, Non è possibile, Non dipende da me. I saggi - e questa infermiera, a furia di vivere in mezzo alla morte, pare esserlo diventata - ci rivelano che certi rimpianti suonano autoassolutori. Ciascuno ha la vita che è capace di vivere. E quasi sempre è una vita inconsapevole, governata dalle abitudini, dalle mode, dalle tante piccole scelte compiute in automatico che condizionano quelle successive. Così ci adeguiamo a un’esistenza a bassa intensità, aggrappandoci alla nostalgia dell’Altrove come a una coperta di Linus che ci permette di non accorgerci che l’Altrove è qui davanti a noi perché è già dentro di noi. Ci lamentiamo per i sogni non realizzati, quando gli unici sogni che dovremmo rimpiangere sono quelli per i quali non abbiamo combattuto. 

venerdì 4 settembre 2015

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