Gli
eventi meteorologici di questi giorni hanno messo in ginocchio
Benevento e molti paesi della sua provincia che nel complesso (giova
ricordarlo al Presidente Renzi e ai palazzi romani) conta 316.000
abitanti - ossia voti – che con molta probabilità, alle prossime
elezioni (se mai ci saranno), andranno in gran parte persi per l’incuria
e l’indifferenza dimostrata. Giornali e tv, infatti, di questa
tragedia non ne parlano se non sommariamente, e non certo con
l’attenzione in altri casi dimostrata come ad esempio accadde per il
torrente (torrente!!) Bisagno, che cagionò seri danni in un quartiere
(un solo quartiere!!) di Genova. Allora, però, si mosse il Governo, si
mossero presidenti di Regione e Provincia, si mosse il Parlamento, si
mosse il Papa, si mossero giornali e tv. Si mosse Bruno Vespa, e
finanche si mosse Barbara D’Urso.
Ma Benevento è lontana, è una piccola città (città, forse, ancora per poco), è difficile da raggiungere, i costi per portarvi giornalisti e cameramen sono onerosi per la tv di Stato (che però invierà puntuale il canone in bolletta), i comuni dell’entroterra hanno strade impervie e, per raggiungerli in condizioni normali dal capoluogo, occorrono anche due ore. Allora, meglio dare solo qualche notizia sommaria su questo evento, senza troppo clamore, e dedicare invece ore e ore di diretta tv ancora per capire chi e perché ha ucciso Yara Gambirasio o che fine abbia mai fatto l’imprenditore Mario Bozzoli scomparso in questi giorni dalla sua fonderia bresciana. Si tratta di argomenti di un certo peso e di grande interesse nazionale? O piuttosto – evidentemente – di notizie artatamente trasformate in gossip per soddisfare il gusto morboso di un pubblico televisivo ormai diseducato proprio da chi la tv la fa? Di certo si fa in modo che questa sorta di “intrattenimento giornalistico” faccia più ascolti - e a costi bassi – rispetto a una catastrofe naturale, perché di questo si tratta, che ha colpito il Sud Italia, volutamente costretto ad essere il fanalino di coda di un paese che non risorge a prescindere dai proclami renziani, e difficilmente riuscirà a farlo con queste premesse.
In Radio, alla Rai, si parla di Rèino (con l’accento sulla “e”), sui giornali si legge di Santa Croce “sul” Sannio, come fossero luoghi lontani, di un altro continente, mentre nella realtà si parla dell’Italia, di paesi e contrade della nostra bella Italia violentemente danneggiati in maniera forse irreparabile, di tre fiumi in piena (il Calore, il Sabato e il Tammaro, a beneficio di molti giornalisti che ancora ne ignorano i nomi) e così i loro affluenti che hanno seminato distruzione nella zona industriale di Benevento, abbattuto o danneggiato ponti nelle campagne isolandole dai paesi e separando gli stessi paesi tra loro, devastato vigne nella zona del Taburno, reso incoltivabili ettari ed ettari di terreno vicini ai corsi d’acqua. A San Marco dei Cavoti finanche il cimitero ha subito un grave danno con l’allagamento dell’ossario sotterraneo e con la caduta e la rottura delle cassette che contenevano resti mortali e che ora, confusi tra loro, finiranno in una fossa comune.
Non c’è stato scampo neanche per i defunti, mentre i vivi (spesso famiglie di anziani contadini) fanno i conti con un futuro senza speranze perché il lavoro di una vita è stato portato via in poche ore, mancano i mezzi e le forze per ricominciare, e con molta probabilità altri giovani (i pochi rimasti) saranno costretti a cercare lavoro altrove.
In molti paesi centinaia di persone a tre giorni dall’alluvione sono ancora isolate senza luce, gas e telefono. Poi ci sono tre vittime, ma anche per loro le cronache nazionali mostrano scarse attenzioni. Sono un numero, senza nomi e senza storie. L’unica voce per il popolo sannita restano i giornali e le tv locali, oltre i social network da dove, tra l’altro, è sempre attiva una rete di informazioni ed è partita la gara di solidarietà per il pastificio Rummo. Tacciono, invece, i media nazionali e, quando si occupano della lontana e “ignota” Benevento, si arenano nel pressapochismo, nella superficialità, nel maldestro tentativo di trovare – come sempre nella politica che certo non è priva di colpe – un responsabile di quanto accaduto. Ma la politica, ora, ha solo il dovere di intervenire e far sentire la propria presenza fisica, al di là dei comitati e delle tavole rotonde, in un pezzo importante del Mezzogiorno, senza dimenticare che – come diceva lo scrittore inglese Edward Hutton – “Nulla in Italia è più antico di Benevento”, e prendendo inoltre ad esempio il Re Umberto I che nel 1884, atteso in Friuli per assistere a una gara sportiva, venuto a conoscenza della grave epidemia di colera nel Mezzogiorno declinò l’invito con un celebre telegramma in cui scrisse “A Pordenone si fa festa. A Napoli si muore. Vado a Napoli”. Certo, all’epoca, la politica era una cosa seria. I capi di Stato non andavano all’estero per assistere a una partita di tennis; i Re soccorrevano gli ammalati, i terremotati e gli alluvionati, i deputati partivano volontari per le guerre e le regine facevano le crocerossine. La politica, allora, era una missione sentita e non una vana gara di annunci e comodi presenzialismi. Soprattutto, era profonda conoscenza dello Stato che oggi viene mortficato nei principi costituzionali e finanche privato di molti suoi enti, evidentemente (e lo si vede adesso) non tanto inutili come si vorrebbe far credere, come nel caso delle Province che erano responsabili della manutenzione di una fitta rete viaria; la stessa rete viaria oggi devastata, con ponti e viadotti distrutti e che chissà chi e quando ricostruirà mancando non solo i fondi ma anche la certezza delle competenze.
E’ il momento insomma di risvegliare le coscienze, di accorrere –
nel fango – tra la gente ed è
giusto che lo facciano tutti, anche quei personaggi noti della tv e
dello spettacolo che col Sannio hanno un legame molto saldo (Antonio
Ricci e Loretta Goggi a Circello, Silvio Orlando a Pesco Sannita,
Gianluigi Paragone a San Giorgio la Molara); è giusto, infine, che anche
la Chiesa faccia la sua parte proprio come fece l’arcivescovo Agostino
Mancinelli in occasione dell’alluvione del 2 ottobre 1949 così come
testimonia questa immagine dell’archivio Jelardi. Sono passati quasi
settant’anni ma la storia, purtroppo, si ripete quasi come allora.Ma Benevento è lontana, è una piccola città (città, forse, ancora per poco), è difficile da raggiungere, i costi per portarvi giornalisti e cameramen sono onerosi per la tv di Stato (che però invierà puntuale il canone in bolletta), i comuni dell’entroterra hanno strade impervie e, per raggiungerli in condizioni normali dal capoluogo, occorrono anche due ore. Allora, meglio dare solo qualche notizia sommaria su questo evento, senza troppo clamore, e dedicare invece ore e ore di diretta tv ancora per capire chi e perché ha ucciso Yara Gambirasio o che fine abbia mai fatto l’imprenditore Mario Bozzoli scomparso in questi giorni dalla sua fonderia bresciana. Si tratta di argomenti di un certo peso e di grande interesse nazionale? O piuttosto – evidentemente – di notizie artatamente trasformate in gossip per soddisfare il gusto morboso di un pubblico televisivo ormai diseducato proprio da chi la tv la fa? Di certo si fa in modo che questa sorta di “intrattenimento giornalistico” faccia più ascolti - e a costi bassi – rispetto a una catastrofe naturale, perché di questo si tratta, che ha colpito il Sud Italia, volutamente costretto ad essere il fanalino di coda di un paese che non risorge a prescindere dai proclami renziani, e difficilmente riuscirà a farlo con queste premesse.
In Radio, alla Rai, si parla di Rèino (con l’accento sulla “e”), sui giornali si legge di Santa Croce “sul” Sannio, come fossero luoghi lontani, di un altro continente, mentre nella realtà si parla dell’Italia, di paesi e contrade della nostra bella Italia violentemente danneggiati in maniera forse irreparabile, di tre fiumi in piena (il Calore, il Sabato e il Tammaro, a beneficio di molti giornalisti che ancora ne ignorano i nomi) e così i loro affluenti che hanno seminato distruzione nella zona industriale di Benevento, abbattuto o danneggiato ponti nelle campagne isolandole dai paesi e separando gli stessi paesi tra loro, devastato vigne nella zona del Taburno, reso incoltivabili ettari ed ettari di terreno vicini ai corsi d’acqua. A San Marco dei Cavoti finanche il cimitero ha subito un grave danno con l’allagamento dell’ossario sotterraneo e con la caduta e la rottura delle cassette che contenevano resti mortali e che ora, confusi tra loro, finiranno in una fossa comune.
Non c’è stato scampo neanche per i defunti, mentre i vivi (spesso famiglie di anziani contadini) fanno i conti con un futuro senza speranze perché il lavoro di una vita è stato portato via in poche ore, mancano i mezzi e le forze per ricominciare, e con molta probabilità altri giovani (i pochi rimasti) saranno costretti a cercare lavoro altrove.
In molti paesi centinaia di persone a tre giorni dall’alluvione sono ancora isolate senza luce, gas e telefono. Poi ci sono tre vittime, ma anche per loro le cronache nazionali mostrano scarse attenzioni. Sono un numero, senza nomi e senza storie. L’unica voce per il popolo sannita restano i giornali e le tv locali, oltre i social network da dove, tra l’altro, è sempre attiva una rete di informazioni ed è partita la gara di solidarietà per il pastificio Rummo. Tacciono, invece, i media nazionali e, quando si occupano della lontana e “ignota” Benevento, si arenano nel pressapochismo, nella superficialità, nel maldestro tentativo di trovare – come sempre nella politica che certo non è priva di colpe – un responsabile di quanto accaduto. Ma la politica, ora, ha solo il dovere di intervenire e far sentire la propria presenza fisica, al di là dei comitati e delle tavole rotonde, in un pezzo importante del Mezzogiorno, senza dimenticare che – come diceva lo scrittore inglese Edward Hutton – “Nulla in Italia è più antico di Benevento”, e prendendo inoltre ad esempio il Re Umberto I che nel 1884, atteso in Friuli per assistere a una gara sportiva, venuto a conoscenza della grave epidemia di colera nel Mezzogiorno declinò l’invito con un celebre telegramma in cui scrisse “A Pordenone si fa festa. A Napoli si muore. Vado a Napoli”. Certo, all’epoca, la politica era una cosa seria. I capi di Stato non andavano all’estero per assistere a una partita di tennis; i Re soccorrevano gli ammalati, i terremotati e gli alluvionati, i deputati partivano volontari per le guerre e le regine facevano le crocerossine. La politica, allora, era una missione sentita e non una vana gara di annunci e comodi presenzialismi. Soprattutto, era profonda conoscenza dello Stato che oggi viene mortficato nei principi costituzionali e finanche privato di molti suoi enti, evidentemente (e lo si vede adesso) non tanto inutili come si vorrebbe far credere, come nel caso delle Province che erano responsabili della manutenzione di una fitta rete viaria; la stessa rete viaria oggi devastata, con ponti e viadotti distrutti e che chissà chi e quando ricostruirà mancando non solo i fondi ma anche la certezza delle competenze.
E’ il momento insomma di risvegliare le coscienze, di accorrere –
ANDREA JELARDI
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