A 22 anni, una ragazza può credere di aver trovato l’amore della sua vita, un amore, che cioccolatini e film e riti religiosi ci hanno insegnato che dura per sempre.
Poi il ragazzo che credevamo di amare impone le sue ferree leggi: non uscire con altri all’infuori di me; non mandare messaggi che io non possa leggere; non laurearti per prima.
E quell’ipoteca che avevamo messo su noi stesse per onorare la promessa d’amore, il fidanzamento, comincia a gravare come un macigno: perché non posso? Non siamo mica in Iran o in Pakistan! In Italia c’è stato il femminismo: “il corpo è mio e lo gestisco io”; “tremate, tremate, le streghe son tornate” recitavano gli slogan degli anni Settanta.
Cortei, striscioni, assemblee, leggi di progresso civile hanno reso l’Italia un luogo in cui le donne erano diventate consapevoli della loro dignità e del loro valore come esseri umani pensanti, liberi e autonomi da potestà genitoriali, da tutoraggi maritali e parentelari.
Anche l’educazione doveva promuovere questo spirito di indipendenza e intraprendenza nelle bambine, avviando alla misteriosa e agognata parità di genere.
Poi … che è successo? Da un osservatorio privilegiato come la scuola, posso affermare che un lento declino affligge le giovani generazioni, unitamente al lento declino dell’istituzione scolastica, che non è vista più come ente che fornisce istruzione e certificazione della formazione civica e culturale dell’individuo, ma solo come luogo di aggregazione e socializzazione, che pure erano obiettivi fondamentali, ma solo come corollario di quelli principali.
Ciò è stato molto chiaro nel biennio della pandemia, quando molti genitori erano in rivolta perché i figli bambini o adolescenti, lasciati a casa, non erano gestibili, privati di quelle stupidaggini che ti fanno passare il tempo.
Da soli, in isolamento, con lezioni virtuali, hanno dovuto affrontare il vuoto che avevano dentro, senza possibilità di compensarlo o scaricarlo all’esterno: niente palestra, scuola calcio, danza, corsi di questo e di quello, feste di compleanno, con genitori a fare da autisti; il tempo si è dilatato, le famiglie hanno dovuto fare i conti con ruoli sempre più stretti e con una quotidianità ingabbiata.
Allora tutti si sono accorti che la scuola era importante, ma non perché mancasse loro il contatto con il greco o la matematica, ma perché mancava l’uscita obbligatoria che stemperava i conflitti familiari, rendendo tollerabile la convivenza.
Il ritorno nelle aule ha fatto ritrovare il solito tran tran, ma con ragazzi sempre più svagati, abituati ormai a vivere metà del loro tempo sui cosiddetti social, che si sono sostituiti ai rapporti concreti.
Per moltissimi alunni è difficile trovare la concentrazione per più di un quarto d’ora; difficilissimo mantenerla per fare un compito in classe. Di fronte al compito o all’interrogazione che pongono problemi di ordinaria competenza scolastica, sempre più alunni non vogliono mettersi alla prova, ma sono presi dal panico. Un’insufficienza è vissuta come una tragedia e non come un incentivo a fare meglio o impegnarsi di più.
La scuola ormai deve certificare solo i successi, l’insegnante o il preside (ah, già, oggi si chiama dirigente!) sono nemici per genitori sempre più lontani dall’etica dello studente di scuola. Con melenso buonismo si dice: “I ragazzi di oggi sono fragili!” E come sono i bambini e i ragazzi che vivono adesso a Gaza? O in Ucraina?
I nostri ragazzi “fragili”, timidi, introversi, magari poi sono quelli capaci di uccidere a pugnalate una ragazza che dice loro un semplice no! No, non voglio stare più con te! Non voglio sottostare alle tue imposizioni, ricatti, violenze. Sono talmente “fragili” che non accettano nessuna deroga alla programmazione che si sono dati, incapaci di autocritica, incapaci di accettare il fallimento nella scuola e nella vita.
Il fallimento oggi bisogna nasconderlo; il quattro sulla pagella non si vede più sui quadri esposti nella bacheca della scuola, paragonato a una pubblica gogna, è misteriosamente scomparso, sostituito prima da un sei dipinto di rosso e poi da un sei con l’asterisco e poi da un laconico messaggio privato inviato dalla scuola al diretto interessato. Nessuno deve sapere! Siamo ritornati all’omerica civiltà di vergogna, in cui l’insuccesso scolastico o qualsiasi insuccesso è fonte di dileggio e disperazione.
In una società di belli e vincenti, il ragazzino disabile viene bullizzato o tenuto segregato, non merita solidarietà e affetto, come ci dicono numerosi episodi di cronaca.
Il ministro della pubblica istruzione fa sapere di avere pronta la ricetta per risolvere il dilemma: come può la scuola educare soprattutto i maschi al rispetto delle donne e bandire la violenza? Secondo me, la domanda dovrebbe essere un’altra: come può la scuola ritrovare il suo ruolo di guida e di educatrice nella società edonista che abbiamo costruito?
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