Cecilia Mangini è morta a Roma lo scorso 21 gennaio. Di origine pugliese, classe 1927, la Mangini è stata la prima donna in Italia a girare documentari nel dopoguerra. Di buona famiglia, cominciò a interessarsi della macchina da presa mentre studiava in un collegio svizzero e mentre frequentava compagne francesi, dalle quali apprendeva del cinema di Renoir, maestro indiscusso della cinematografia mondiale. Poi scoprì la fotografia. E poi ancora il documentario, utilizzato come strumento di denuncia sociale, atto a smascherare la realtà scomoda e sommersa delle persone emarginate e dei quartieri abbandonati. Il dolore non era un soggetto contemplato nelle arti visive degli anni Cinquanta. E proprio l’umanità è al centro della lunga ricerca visiva e documentaristica di Cecilia Mangini, anche quando negli anni Sessanta ella intraprese la strada del lungometraggio a carattere storico politico.
Il cinema del neorealismo per lei è stato la potente arma di riscatto dal regime fascista, cui, come da prassi consolidata, aveva giurato fedeltà all’età di sei anni, all’inizio della prima elementare.
Cecilia Mangini è già entrata nella storia, e ciò soprattutto per il documentario più innovativo della sua epoca: Essere donne. Un’analisi lucida e disincantata sulla condizione femminile in Italia nel dopoguerra. Lo realizza nel 1965, aderendo ad un progetto promosso dal Partito Comunista Italiano circa la realizzazione di documentario sulla vita dei lavoratori italiani, uomini o donne che fossero. Mentre l’industria culturale faceva passare sugli schermi l’immagine da Mulino Bianco della famiglia italiana, la Mangini denunciava la violenza, le contraddizioni, le problematiche familiari, la fatica e il lavoro delle donne italiane. E lo faceva con un linguaggio rapido e moderno, che si situa nel solco di quel neorealismo che lei ha tanto praticato. Ne emerge un quadro dettagliato della vita «avara di gratificazioni» delle donne italiane, divise tra lavoro di cura e lavoro in fabbrica. Osannato dai critici italiani e stranieri, il documentario fu boicottato da autori e registi della Commissione ministeriale impedirono che l’opera fosse diffusa sul territorio nazionale. La censura fu mascherata con la scusa di presunte mancanze tecnico-artistiche. La realtà era che la realtà e sincerità del documentario era disturbante all’interno di una società dove prassi e valori veri o presunti erano storia consolidata e dove il disagio e la realtà dolorosa si nascondevano dietro il boom economico e l’avvento dei consumi di massa.
Una voce come la sua mancherà e va riscoperta, per approfondire la riflessione sulla condizione delle donne e sulla società, come anche per dare spunto e alimento alle giovani che vogliano cimentarsi nelle arti visive ed in particolare nella settima arte.
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