lunedì 26 maggio 2014

ARTHUR RIMBAUD, PUBBLICATO L'INTERO CARTEGGIO CON VERLAINE

 Il giovanotto francese che tra i sedici ed i diciannove anni scriveva autentici capolavori e che faceva sesso selvaggio con Verlaine, sposato e padre, che per lui abbandonò il tetto coniugale e subì un umiliante processo per pedofilia, dopo avergli sparato con una pistola, divenne uno scandalo in patria. Si diede ad una vita dissipata assieme al suo amante, fu accusato di vagabondaggio, visse una vita irrequieta,  praticò ogni dissolutezza per "arrivare all'ignoto attraverso la sregolatezza di tutti i sensi», fu definito da Charles de Sivry, cognato di Verlaine, «un ignobile, vizioso, disgustoso, indecente piccolo scolaro». Rimbaud Girò mezza Europa a piedi, non avendo soldi per potersi spostare, e ad un certo punto abbandonò la letteratura, senza farne più cenno, forse perché troppo giovane e inesperto dei meccanismi editoriali, troppo orgoglioso, troppo impaziente, gli preclusero tale successo. Vivrà come agente commerciale in Abissinia. Tornerà in Francia per farsi amputare una gamba e poco dopo morirà, come in un triste, drammatico, edificante romanzo romantico.


(Fanpage) - “Non sono venuto qui per essere felice” è il titolo della recente pubblicazione, a cura di Vito Sorbello per i tipi di Aragno, delle lettere di Arthur Rimbaud (1854 – 1891). Due volumi che ci svelano aspetti poco noti della vita del grande poeta di Charleville, dalla fuga in Africa all’ultima corsa verso Aden su una barella e con la gamba in cancrena.

La vita di Arthur Rimbaud, il profeta contadino, si svolse in giro per il mondo in costante tensione tra fuga verso Parigi e poi da Parigi e ritorno alla sua odiata/amata Charleville, un paesino nella regione della Champagne-Ardenne nel nord della Francia. Mentre nella capitale francese nasceva la sua leggenda e si fantasticava sulla sua fuga in Africa, (si diceva infatti che fosse tornato allo stato di natura diventando il re di un popolo selvaggio) egli in realtà si inventò imprenditore viaggiando con lo zaino colmo di manuali di idraulica a falegnameria. Ad Harar contrasse la sifilide, primo inciampo di una serie sfortunata di eventi, e si comprò una schiava abissina che, a quanto risluta, trattò con rispetto e mandò a scuola dai missionari.
Certo Rimbaud aveva già scandalizzato mezza Francia e non solo per i suoi comportamenti bizzarri, per l’abbigliamento molto trasandato e per i pidocchi che aveva nei capelli e che lanciava addosso a chiunque gli stesse antipatico. Egli fu anche protagonista di uno dei gossip più discussi dell’epoca, la fuga d’amore col poeta Paul Verlaine che per lui lasciò il tetto coniugale lasciandosi trascinare a Bruxelles dove l’alcol, la droga e gli ambienti malfamati li ridussero al rango di reietti. Dopo alcuni mesi finirono addirittura quasi con l’ammazzarsi l’un l’altro a causa di un violento litigio (Verlaine ferì il giovane Arthur al polso con una rivoltella). Dopo la rottura Rimbaud si arruolò, sempre in Belgio, nelle truppe coloniali in partenza per Giava, ma poi finì col disertare.

L’ultima avventura del “poeta maledetto” fu su una barella con la gamba in cancrena, trasportato dagli indigeni verso Aden. Lì subì l’amputazione dell’arto e mai si adatto alla protesi che i medici gli raccomandavano. Fece ritorno, ancora una volta, alla sua Charleville, ormai invalido e immobile lontano dagli anni ruggenti che lo avevano visto partecipare ai tumulti della Comune di Parigi e dalla fughe per l’Europa. Passò gli ultimi anni della sua vita tra dolore e disperazione esattamente come lui aveva inteso la missione del poeta veggente, in opposizione netta al desolante ottimismo del secolo in cui visse.


domenica 4 maggio 2014

CONOSCERE ROCCA SAN FELICE, L'ASSISI DELL'ALTA IRPINIA

Per arrivare nell'Assisi di Irpinia, occorre superare Gesualdo, quindi Torella dei Lombardi e ritrovarsi così in questo graziosissimo centro medievale, completamente ristrutturato dopo il sisma dell'Ottanta, di incomparabile bellezza. Rocca San Felice, la bomboniera d'Alta Irpinia, è un minuscolo centro circondato dal verde, sulla cui piazza centrale si affaccia una graziosa fontana e delle botteghe ornate di targhe con scritte anticate ad arte. Sulla piazza principale spicca un tiglio. Peccato tornare da questo bellissimo paese senza la possibilità di portare con sé un oggettino, un ricordino di qualsiasi tipo. Probabilmente, se si fosse trovato in Piemonte, o in Trentino, sarebbe stato invaso dai turisti. Questione di promozione, di una mentalità volta al turismo spesso manchevole nelle nostre zone, seppure cariche di storia e di ricchezze. Ottima la cucina locale. Il pranzo della giornata consiste in un mega antipasto pieno di sfizi ed in un dolce, un morbido fagottino, ripieno di crema pasticciera, con un cuore di amarena. Il tour ideale, prima di visitare questo comune della valle di Mefite (Mefite è la dea dell'abbondanza e della fertilità, il cui culto nell'antichità era piuttosto diffuso in queste zone), è quello di fermarsi a visitare i bellissimi e stupefacenti castelli dei comuni prima citati: appunto Gesualdo e Torella dei Lombardi. Quello che stupisce, a Rocca San Felice, è che un comune così piccolo racchiuda in sé una quantità impressionante di palazzi nobiliari, tutti accuratamente segnalati da graziose insegne bilingue (italiano-inglese) che ne tratteggiano le caratteristiche fondamentali. Legata alla rocca che svetta in cima al paese è la storia infelice di Margherita d'Austria, riportata da 'L'Espresso Napoletano', anno 12 - n° 1 - Aprile 2012: "Negli ambienti della fortezza di Rocca San Felice trascorse parte della sua prigionia Enrico VII di Germania, figlio primogenito di Federico II di Svevia e di Costanza d'Aragona. Eletto re di Germania nel 1220, a soli nove anni, per volere del padre crebbe nella Germania feudale, a corte, fra i cattivi consigli e lontano dalla famiglia. La sua presenza sul trono tedesco era diventata una nuova speranza, per Federico, di realizzare il sogno di unire concretamente il Regno di Germania con quello di Sicilia. Sogno che fu infranto quando Enrico, maggiorenne, si dimostrò irrequieto e sovversivo. Enrico aveva sviluppato, infatti, nei confronti del padre un odio lacerante acuito dalla lontananza. Lo scontro tra padre e figlio fu quindi inevitabile quando Enrico, spinto dall'aristocrazia tedesca, si rese promotore di una lotta serrata contro il regime imperialistico di Federico. Alla fine del 1234, Federico apprese con costernazione che Enrico si era alleato con il suo più temibile nemico: la Lega Lombarda. Tutto ciò voleva dire alto tradimento ed Enrico fu deposto e condannato a morte dopo un processo sommario. Solo in un secondo tempo Federico fece commutare la condanna in carcere a vita, dando così avvio al peregrinare di Enrico per le varie fortezze del regno di Sicilia tra le quali anche quella di Rocca San Felice, dove fu rinchiuso per sei anni, prima di morire nel 1242 durante un trasferimento a Martinaro, cadendo da un dirupo, forse suicida. Ad accompagnarlo, seppure solo a distanza, nei suoi spostamenti vi era sua moglie, Margherita d'Austria, che, avendo perse le tracce del marito prese a girare per giorni nei dintorni del castello di Rocca di San Felice alla ricerca di notizie del suo amato. Ancora oggi, secondo un'antica leggenda, nelle notti di luna piena è possibile intravedere il fantasma della bella dama che si aggira tra le mura della rocca alla ricerca di Enrico".
Nel mese di agosto a Rocca si svolge una rievocazione in costume d'epoca della vicenda di Margherita d'Austria, con conferenze, spettacoli di piazza, un corteo in abiti d'epoca, momenti musicali, giochi medioevali e giochi di ruolo, rievocazione del duello medievale, taverne, osterie ed altro.

giovedì 1 maggio 2014

MA IL PECCATO E' DIMENTICARE LA BELLEZZA

(Alessandro D'Avenia) -  Denunciateci, cari genitori, ma non per quello che facciamo leggere ai vostri figli, ma per quello che non facciamo leggere loro.  
Noi insegnanti, frequentatori delle belle lettere, a volte rinunciamo alla bellezza. Per questo dovete mandarci in galera. Denunciateci perché non facciamo leggere che una vivisezione dei Promessi sposi (chi non odia quel romanzo dopo la scuola?). Denunciateci perché non facciamo leggere Dante, perché è difficile, perché tanto non lo capiscono, perché parla troppo di Dio. Denunciateci perché non facciamo leggere i classici per intero ma li facciamo a brani, come in macelleria. Denunciateci perché facciamo credere ai ragazzi che le poesie siano inutili coriandoli, e non parti di raccolte significative nella loro interezza. Denunciateci perché non facciamo leggere la letteratura straniera ma solo quella nostrana, minori compresi, piuttosto che Baudelaire, Dostoevskij, Eliot. Denunciateci perché non crediamo più alla bellezza tutta intera. Per farti amare la Venere di Botticelli te ne faccio vedere solo alcuni centimetri quadrati o ti porto di fronte al quadro?  
 
 
Quando dico ai miei ragazzi di prima superiore di mettere da parte l’antologia di epica perché leggeremo l’Odissea per intero si disperano. Pensano sia una follia, una noia. E non è né l’uno né l’altro, perché i classici sono sì faticosi, ma sempre interessanti (e l’interesse è l’unico antidoto alla noia, e non - come molti pensano - il divertimento). Non sanno che un libro dell’Odissea si legge ad alta voce in meno di 30 minuti e che quindi per leggere i 24 di cui è composta basterebbero 12 ore. Solo 12 ore. Alla fine di quell’esperienza (sì la lettura è ex-per-ire: andarsene in giro in posti diversi uscendo dal proprio guscio), ringraziano, come dopo un bel viaggio: sono stati ad Itaca, ciascuno di loro ha dato voce ad uno o più personaggi. Tutto è diventato «vera presenza», direbbe George Steiner e l’insegnante si è concesso lusso e gusto di essere Omero-narratore. 
Lo stesso accade quando affronto con i ragazzi di seconda superiore la lettura integrale dell’Allegria di Ungaretti. All’inizio sono sanamente confusi, poi a poco a poco le parole li possiedono. La bellezza educa se noi gli accordiamo quella fiducia «integrale» che merita.  
Questo è l’unico criterio per scegliere le letture: integralità e bellezza. Il resto è antologia o ideologia. Lascia il tempo che l’interrogazione trova. 
Denunciateci se non scegliamo letture capaci di intercettare la maturazione di un ragazzo che troverà finalmente parole vere per dare nome - quindi possedere e vivere direbbe Eliot - ciò che di invisibile c’è nella propria vita interiore, che abbiamo il compito di far fiorire.  
«Tra i segnali che mi avvertono essere finita la giovinezza è l’accorgersi che la letteratura non mi interessa più veramente. Voglio dire che non apro i libri con quella viva ed ansiosa speranza di cose spirituali che, malgrado tutto, un tempo sentivo». Così scriveva Cesare Pavese nel suo diario. 
Denunciateci, allora, quando priviamo i vostri ragazzi dell’alimento che li affama, come non mai, nella vita: la bellezza che nutre e fa sentire abitabile il mondo, la bellezza che non ha ragioni, ma dà ragioni all’esistere e lo rende per questo sensato e non semplicemente da consumare. Denunciateci non se facciamo leggere cose brutte, ma se non facciamo leggere secondo bellezza. Se lo facessimo non ci rimarrebbe tempo per le banalità. E per le denunce. 

Alessandro D’Avenia insegna italiano, latino e greco al liceo San Carlo di Milano 

Lettori fissi