A vent’anni dalla morte l’Italia ha dimenticato Fellini,
uno dei pochi italiani contemporanei che il mondo ricorda ancora. Non
sono stati i vent’anni migliori della nostra storia e neanche della
nostra vita. Abbiamo perso colpi dappertutto. Abbiamo perso Fellini e il
suo segreto, che poi era il nostro. Le nazioni sono come gli individui,
hanno un’indole che non si può impunemente rinnegare troppo a lungo.
Facciamocene una ragione: l’Italia che piace e che gode è
quella di Fellini. L’Italia della provincia sterminata, degli artigiani
che si lasciano invadere dalla pazzia del talento, l’Italia di Ferrero e
di Ferrari, tanto per non cambiare lettera dell’alfabeto. Un’Italia un
po’ ingenua, che guarda alla vita come se fosse un sogno e ai sogni come
se fossero la vita, ma sa sublimare il suo autoinganno in una forma
superiore d’espressione. Siamo gli occhi che guardano il Rex e siamo la
Gradisca che va fiera delle sue forme senza uniformarsi al modello
unico. Siamo anche la truffa mediatica dello Sceicco Bianco e la
dissoluzione intellettuale della Dolce Vita. Ma certi collassi
dell’essere, che da sempre ci accompagnano, vengono riscattati da una
fiducia inopinata nella vita. Perché poi siamo anche quelli che
conoscono il linguaggio silenzioso delle cose, come Gelsomina, e l’arte
di ridere con niente, come l’acrobata della Strada. Siamo il regista che
nel girotondo finale di Otto e Mezzo comprende che tutto ha un senso e
recupera la gioia d’esistere di un bambino. Se, come dice Baricco, il
futuro è tornare a casa, sarebbe tempo di rimetterci in marcia verso la
Rimini di Federico Fellini.
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