Alex Corlazzoli
Maestro e giornalista
(Il Fatto Quotidiano)
Nelle scorse settimane mi è capitato di visitare una scuola secondaria di secondo grado svizzera. Un’esperienza sconvolgente.
Intanto ad accompagnarmi nel tardo pomeriggio di un giorno festivo è
stata una professoressa perché lì tutti i docenti possono entrare a qualsiasi ora del giorno e della notte:
con una chiave elettronica l’amica docente ha aperto ogni porta, da
quella d’ingresso a quella del laboratorio d’arte a quella della mensa.
La prima tappa è stata l’aula insegnanti:
un’accogliente stanza con divani, poltrone, quotidiani, riviste, una
bacheca con gli appuntamenti culturali della città e della scuola, un
angolo cottura e una scrivania con tanto di personal computer per ogni
professore. “Prepariamo qui le nostre lezioni. Questo è un luogo dove
possiamo studiare, formarci, scambiarci materiale e informazioni”, mi ha
spiegato la collega elvetica.
Per loro c’è anche una mensa gestita insieme a
quella dei ragazzi: tavoli e sedie comode, un self service
all’avanguardia, un’illuminazione moderna e per chi non vuole spendere
c’è una sala con dei forni a disposizione per riscaldare il cibo portato
da casa.
Senza parlare del teatro, moderno, attrezzato e dell’elegante
emeroteca con inclusa una ludoteca aperta ai ragazzi e gestita da
un’addetta che si prodiga per trovare sempre nuove proposte per i
giovani studenti. Il tutto in un contesto pensato e progettato non certo
dal tecnico comunale o dall’amico del sindaco ma dall’architetto Santiago Calatrava
che ha pensato questo spazio in funzione dei ragazzi. Insomma una
scuola che nasce per essere uno spazio educativo e non un antico palazzo
trasformato in edificio scolastico.
Senza parlare delle aule e del laboratorio d’arte attrezzato come se fosse l’Accademia. Ma la cosa che più mi ha stupito è stata quella di non trovare un cuore, un “Ti amo”, un Marco + Eva o una qualsiasi altra incisione “rupestre” sulle sedie, sopra o sotto il tavolo, sul muro.
Ad un certo punto ho chiesto alla mia amica di portarmi nei bagni.
Almeno lì ero certo che avrei trovato una scritta: ho pensato che
finalmente liberi dall’oppressione dei docenti svizzeri, nel segreto del
cesso, i giovani svizzeri sarebbero stati uguali agli adolescenti
italiani. Delusione: non una sola incisione. Nulla.
A quel punto ho iniziato a farmi qualche domanda: perché in Italia
dalla scuola “media” alle superiori non c’è un solo banco o cesso senza
scritte? Perché i nostri ragazzi non sentono “loro” la scuola dove
trascorrono la maggior parte del tempo? Che accadrebbe se anche in
Italia ogni insegnante avesse le chiavi per entrare a scuola quando
vuole? Perché nel nostro Paese le scuole sono vecchie, insicure, pericolose
e a poche centinaia di chilometri da Milano sono progettate da
architetti all’avanguardia? Quanto conta la scuola per gli svizzeri e
quanto per gli italiani? Eppure noi abbiamo la “Buona Scuola”.