martedì 4 novembre 2025

MARIA ZAMBRANO, "UNA PARABOLA ARABA"


(Aggirando la scorciatoia - 
Dando vueltas al atajo) - L'interpretazione della parabola di Zambrano eleva lo sguardo a veicolo che favorisce il successo educativo. A seconda di come ci posizioniamo, otterremo una prospettiva più ampia o più ristretta (richiamando Ortega). L'educazione non dovrebbe essere altro che saper guardare, imparare a posizionare il nostro sguardo per raggiungere la prospettiva che ci permette di vedere l'orizzonte più ampio. Lo specchio purifica perché ingrandisce, perché lucida la realtà osservata. Allo stesso modo, il nostro sguardo ci permette di focalizzare l'attenzione su ciò che vediamo. Più ampio è il nostro campo visivo, più cose dobbiamo focalizzare. Più spesso focalizziamo la nostra attenzione su un campo più ampio, maggiori sono le nostre possibilità di fare quelle scoperte cruciali discusse nel suo articolo; più esperienze faremo, più pienamente vivremo. E questa è una delle funzioni che Zambrano attribuisce all'educazione: vivere pienamente, evolversi costantemente e scoprire se stessi vivendo. Non prestare attenzione significa non vivere perché non usiamo il nostro sguardo, non lo applichiamo alla realtà circostante e interiore, ostacolando così lo sviluppo personale.

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Il racconto è questo:

Un giorno un sultano volle decorare in modo particolarmente bello una sala del suo palazzo. Per questo fece venire due gruppi di pittori da luoghi molto lontani tra loro: Bisanzio e la Cina. Ogni gruppo avrebbe dipinto l'affresco in una delle due grandi pareti parallele del salone, senza poter sapere ciò che avrebbe dipinto l'altro. Assegnò a ciascun gruppo una parete senza permettere che entrassero in comunicazione; nel mezzo della sala una tenda debitamente collocata impediva qualsiasi tipo di comunicazione tra i pittori ai due lati. Quando l'opera fu terminata il sultano si diresse prima a ispezionare l'affresco dipinto dai cinesi. In verità era di una bellezza meravigliosa. "Nulla può essere più bello di questo" disse il Sultano e, con questa convinzione, fece scorrere la tenda perché apparisse la parete dipinta dai greci di Bisanzio. Ma in quella parete non era dipinto nulla, i greci l'avevano soltanto pulita e ripulita fino a mutarla in uno specchio di un biancore misterioso che rifletteva come in un mezzo più puro le forme sulla parete cinese. Le forme e i colori acquistavano una bellezza inimmaginabile che non sembrava più appartenere a questo mondo: una nuova dimensione, per gli occhi e per lo sguardo umano.

La lezione che si impara da questa storia è simile a quella delle parabole, degli apologhi, dei miti e di tutto ciò che ha un senso simbolico, multiplo. Per iniziare a comprenderne un po' di lezione, tutta non è possibile, pensiamo a cosa sarebbe accaduto se i cinesi, con la stessa finezza dei greci, avessero fatto la stessa cosa: questo era il massimo rischio come lo è in ogni sottigliezza estrema, cioè che l'altro sia fine allo stesso modo. In questo caso, la sala sarebbe rimasta come un luogo privilegiato perché la luce vi si raccogliesse, perché viaggiasse da una parete all'altra e mostrasse ciò che ha di simile alle creature alate: una colomba che sorge dalla luce quando le si dà l'occasione di farlo.

Se l'affresco dipinto dagli artisti cinesi fosse stato mediocre, allora la sua opacità nel riflettersi nello specchio dalla bianchezza incandescente sarebbe stata riscattata, come accade alle immagini riflesse sull'acqua. La lezione, a nostro parere, è questa: nulla è brutto se si guarda attraverso un altro mezzo più puro e più intellegibile. Ma portando alle estreme conseguenze questo caso, si potrebbe dire che lo sguardo sarebbe capace di riscattare ogni bruttura, ogni mediocrità, purché sia lo sguardo di chi sappia, guardando, creare un mezzo purificato e lavato come la parete bizantina.

E si potrebbe continuare, si potrebbe supporre che, prima di fare qualcosa, prima di percepire un'immagine, e prima di pensare, si renda necessario pulire e ripulire lo sguardo, l'anima, la mente fino a che gli assomigli, quanto più umanamente possibile, alla bianchezza che è pura vibrazione, velocissima vibrazione che unisce tutte le vibrazioni che generano il colore, mostrandosi apparentemente come quiete e passività. Ogni lettore può continuare per suo conto la serie delle interpretazioni, poiché ogni capolavoro dello spirito - grande o piccolo che sia - è un racconto senza fine.

Ottobre 1964

Maria Zambrano, Per l'amore e per la libertà, Marietti 1820, 2008, pp. 138-140

ROSA LUXEMBURG: "ESSERE UMANI"

Essere umani è la cosa più importante. E significa: essere saldi, lucidi e allegri, sì, allegri nonostante tutto e tutti, perché lamentarsi è il mestiere del debole. Essere umani significa gettare con gioia la propria vita sulla grande bilancia del destino, se i tempi lo richiedono, ma anche sapersi rallegrare di ogni giorno di sole e di ogni splendida nuvola, insomma... non ho ricette per come si debba essere umani, so solo come lo si è, e lo sapevi anche tu ogni volta che andavamo a passeggiare per qualche ora nella campagna di Südende e il tramonto si stendeva rosso sul grano. Pur con tutto il suo orrore il mondo è così bello e lo sarebbe ancora di più se non fosse infestato dai deboli e dai vigliacchi.


Rosa Luxemburg, Dappertutto è la felicità, L'Orma Editore, Roma 2019, p. 45


martedì 9 settembre 2025

MASSIMO CACCIARI: "EDUCARE E' LIBERARE, MA LA POLITICA LO IGNORA"

(La Stampa) Quale dovrebbe essere il compito fondamentale di uno Stato? La risposta che ci proviene dalle voci che stanno all’origine della nostra civiltà è una sola: nutrire, allevare ed educare i giovani. Nutrire e allevare il loro corpo, formare ed educare la loro anima. Nella loro indissolubile unità. Di che cosa infatti dovrebbe avere massima cura una città, una polis retta secondo ragione, se non della propria forza e della propria durata? E che cosa le garantisce se non nuove generazioni attrezzate in tutti i sensi ad affrontare anche l’imprevedibile? È un’idea gerontocratica dell’educazione quella che la riduce essenzialmente a trasmissione di saperi. Educare, come dice la stessa parola, significa trarre fuori dal giovane la potenza che già è in lui, aprire la sua mente, i suoi occhi, e non informarlo di ciò che padri e nonni hanno compreso e vissuto. Educare significa liberare. 


Il peccato mortale della nostra politica consiste nell’ignorare tutto ciò. Il suo fallimento è palese, ma ci si ostina a nasconderlo. I dati lo denunciano impietosamente. La sfiducia nelle capacità formative del nostro sistema cresce con disarmante regolarità. I laureati nella fascia d’età 25/34 anni sono il 30% (ma al Sud solo il 20%), il 10% in meno rispetto alla media europea. Di questi laureati quelli che prendono la via dell’emigrazione crescono ogni anno dall’inizio del nuovo millennio, passando da qualche centinaio a parecchie migliaia. Chi trova lavoro in patria lo ottiene, nella stragrande maggioranza dei casi, irregolare e sottopagato. E per ogni capitolo di questo dramma il Sud vede peggiorare la propria situazione rispetto al Centro-Nord. Sono dati a disposizione di tutti, non opinioni. La formazione delle nuove generazioni non rappresenta la priorità della nostra politica. E una politica che nella sua agenda non esprime questa priorità cessa di avere un qualsiasi futuro. 

Non si tratta soltanto di investimenti, di difendere almeno il potere d’acquisto degli stipendi di personale e insegnanti, di armare il cervello dei giovani piuttosto che riarmare eserciti per far guerre per interposta persona. Né la crisi della scuola italiana può essere semplicemente trattata come un capitolo del progressivo esaurirsi delle politiche di Welfare, del venire meno della volontà stessa da parte dello Stato di garantire a tutti i servizi essenziali. Nella sua politica per la scuola una classe dirigente ha sempre espresso, cosciente o no, nel modo più chiaro il proprio livello culturale e la propria strategia complessiva. L’assetto della scuola è lo specchio più veritiero della sua qualità. Quale idea di società emerge dagli attuali ordinamenti? Una confusa contrapposizione al modello classista gentiliano ha condotto a inseguire quello di una scuola “al servizio” del sistema economico-produttivo. Una scuola che tradisce il suo stesso etimo per diventare nec-otium, negozio, una sorta di pre-lavoro. 
Modello non solo culturalmente odioso, ma semplicemente idiota, poiché esso prefigura una scuola che si troverà sempre in costante ritardo rispetto alle trasformazioni organizzative e tecnologiche. Se la scuola deve essere nec-otium la si chiuda e si promuovano soltanto forme di learn-by-doing gestite da imprese e società, al loro interno. La rivoluzione tecnologica (e delle stesse forme di vita) in cui viviamo richiede persone capaci di capire, apprendere rapidamente, educate a un pensiero critico, pronte nel cogliere i segni del salto, della discontinuità nei processi economici e sociali. Altro che adattarsi allo stato presente e integrarsi in esso. 

Tutto si tiene. Una scuola, a tutti i gradi, che persegue l’obbiettivo di addomesticare il giovane al mercato, ossessionata dalla peregrina idea dello “sbocco occupazionale”, sarà necessariamente il trionfo dell’ordinamento burocratico, del controllismo formale. L’oppressione burocratica schiaccia l’autonomia didattica, omologa al basso, rende vacua chiacchiera ogni selezione meritocratica. L’insegnante ha sempre meno tempo per leggere, studiare, continuare a formarsi; produzione di riunioni per mezzo di riunioni, redazione di piani e progetti, rendiconti continui non sulle proprie conoscenze, ma sull’osservanza di procedure e metodi soffocano il suo spirito di iniziativa. Come ha bene spiegato Ivano Dionigi nel suo libro “Magister” ormai la scuola non la fanno i maestri, ma i ministri. 

È il sistema dell’universale sorveglianza. Tutto si svolge sotto il timore della punizione. Non hai seguito la regola, non hai riempito con diligenza i moduli prescritti, la controversia legale, magari fino al Tar, sta in agguato. Per essere tranquilli, obbedisci ai comandamenti ministeriali, per quanto stupidi possano essere e anche se ciò ostacola fino a impedirla la tua volontà di crescita intellettuale, di cambiare, di innovare dove le cose non ti sembra funzionino. Bada anzitutto al “successo formativo”, che si misura sulla percentuale degli studenti che finiscono il corso negli anni previsti. “Successo formativo” significa perciò non avere “bocciati”, non avere “fuori corso”. Il “sindacato Famiglia” vigila che così sia. La meritocrazia può attendere, anche perché quale meritocrazia potrebbe esserci in un regime che non ha alcuna politica per un reale diritto allo studio?. 

L’astratto metodologismo imperante determina anche i piani di studio. La competenza disciplinare lascia il posto a indigeribili melting pot specie nelle materie cosidette umanistiche, infarinature di impressioni generiche su letteratura, arte, storia, invece di letture dirette, poche ma solide, conoscenze specifiche, limitate ma reali, fondate. Il “politicamente corretto” completerà l’opera di metamorfosi della conoscenza disciplinare in chiacchiera universalistica. 

Così non si educa il giovane e così lo Stato abdica alla sua funzione politica essenziale. Docenti e studenti debbono allearsi nel combattere questa intollerabile situazione. Solo da questa lotta può nascere anche una nuova èlite politica, una nuova classe dirigente del Paese.


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