L'editoriale di Mario Calabresi su La Stampa del 24.5.2011 (estratto)
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Agli italiani il rapporto annuale dell’Istat, presentato ieri, non dice assolutamente niente di nuovo. A loro non serve. Racconta cose che già sanno, che sentono sulla loro pelle ogni giorno: la paura di scivolare nella povertà, il calo del potere d’acquisto, la minore capacità di risparmiare e il gonfiarsi del numero dei giovani che non trovano lavoro e passano le loro giornate tra il divano della casa dei genitori, il computer e l’aperitivo in piazza.
Il rapporto dell’Istat sarebbe invece utilissimo per la nostra classe di governo, convinta che i problemi del nostro futuro si chiamino «spostamento di un paio di ministeri al Nord» o «sanatoria delle multe automobilistiche». Per tutti i nostri politici dovrebbe essere una lettura obbligatoria, per aprire loro gli occhi, per scuoterli, per indicargli le priorità e le ragioni di allarme.
Per mostrargli quella fotografia del Paese che si ostinano a non vedere, che non li tocca, non li scuote, non riesce a togliergli il sonno.
Eppure i segnali sono ovunque intorno a noi: sono i giovani spagnoli che hanno trovato il coraggio di riunirsi permanentemente al centro di Madrid (denunciando gli stessi identici disagi dei nostri ragazzi); è il voto delle amministrative che cerca sbocchi inediti e porta il movimento di Beppe Grillo a superare la soglia del cinque per cento in città importanti come Bologna, Milano o Torino; è il flusso in continuo aumento di chi va a cercare fortuna all’estero, è il numero esplosivo dei ventenni che non studiano e non lavorano, un pezzo di generazione futura che sta immobile e rischia di essere perduta per sempre.
Politici e genitori dovrebbero dire a gran voce ai nostri ragazzi che sono loro il futuro, che devono avere fiducia, che tutti giocheremo la loro partita, sono cose di una tale banalità che non andrebbero nemmeno scritte. Sarebbe come se qualcuno cominciasse a ricordare che la terra con i semi appena piantati va bagnata ogni giorno perché da lì nasceranno i fiori e le piante, che se la lasciamo seccare non avremo nessun raccolto futuro. Eppure questa volta le leggi di natura sembrano dimenticate: le nuove generazioni non meritano investimenti, non meritano fiducia e nemmeno impegno. Il messaggio di sfiducia è talmente forte e chiaro che siamo al quart’ultimo posto in Europa per numero di laureati e le immatricolazioni all’università dopo anni di costante incremento da un biennio hanno cominciato a calare visibilmente.
C’è chi, per levarsi un peso dalla coscienza, sostiene che queste nuove generazioni non valgono granché, sono disinteressate, distanti e apatiche, in fin dei conti la colpa è loro se sono chiusi fuori.
In un cartello innalzato dalla folla dei ragazzi di Madrid, si leggeva: «Siamo la generazione più preparata e la meno valorizzata». Nei curriculum che arrivano a questo giornale ogni giorno sono sempre di più quelli dei disoccupati che hanno una laurea, un master e parlano almeno due lingue: hanno fatto tutto quello che gli era stato chiesto e hanno avuto famiglie che hanno investito su di loro. Se non c’è spazio non possiamo colpevolizzarli, dobbiamo cominciare a creare nuove opportunità, allargare il mercato del lavoro sintonizzandoci sul mondo che è cambiato a gran velocità e far cadere muri e barriere.