venerdì 29 gennaio 2021

LIMITI DEL COSMOPOLITISMO

 La concezione “nobile ma imperfetta” del cosmopolitismo, come l’ha chiamata Martha Nussbaum nel suo ultimo lavoro, deve farci riflettere sul perché un modello nobile, nato in epoca stoicista allo scopo di promuovere la pace ed utilizzato in epoca contemporanea per arginare il ripetersi dei conflitti bellici, abbia invece affossato la sovranità nazionale e fatto perdere di vista quella considerazione della sovranità popolare, così tanto necessaria per lo stare insieme come società. La pandemia in atto, come dicono molti osservatori, oltre a far crollare i falsi miti della globalizzazione, sta spingendo verso un recupero dei concetti di sovranità e di nazione, al posto di entità sovranazionali. Dal canto suo, l’epidemiologo Frank Snowden, intervistato dal “Manifesto” e dal “New Yorker”, evidenzia che la maggiore fragilità del mondo globalizzato è proprio la sua iperconnessione, perché ciò determina ripetuti spillover, cioè il passaggio dei virus da una specie all’altra del pianeta.

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mercoledì 27 gennaio 2021

EZIO BOSSO, APPUNTI NEL E SUL GIORNO DELLA MEMORIA

Ogni anno il 27 gennaio Ezio Bosso pubblicava questo suo scritto:

Io ne ho memoria.
in quei giorni mi avrebbero messo un nero, quello per gli Asociali, che erano i "disabili" o prostitute, i malati o semplici oppositori: i diversi ci chiamavano.
Ho memoria del rosso per i comunisti, gli anarchici e gli oppositori politici fossero anche sacerdoti.
Del giallo per gli ebrei.
Del viola per testimoni di Geova.
Ho memoria del marrone degli zingari
e del blu per i tedeschi antifascisti.
Ho memoria del rosa degli omosessuali.
Erano triangoli.
Erano i miei fratelli e le mie sorelle.
A volte facevano la musica come me.
E io sono tutti loro. Sono tutti quei colori.
Per questo ho memoria di quei triangoli e continuerò ad averla.
Perché sono tutti quei triangoli.
Lo siamo tutti.
E quindi avrò memoria.
Oggi come ieri, come domani.

Credits: Ezio Bosso Community

L'EDUCAZIONE SERVE A RENDERE I NOSTRI FIGLI PIU' UMANI

«Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiore e università. Diffido – quindi – dall’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani». 




 Anniek Cojean, Les mémoires de la Shoah, in "Le Monde" del 29 aprile 1995.

lunedì 25 gennaio 2021

CECILIA MANGINI, PRIMA CINEASTA DELLA CONDIZIONE FEMMINILE IN ITALIA

Cecilia Mangini è morta a Roma lo scorso 21 gennaio. Di origine pugliese, classe 1927, la Mangini è stata la prima donna in Italia a girare documentari nel dopoguerra. Di buona famiglia, cominciò a interessarsi della macchina da presa mentre studiava in un collegio svizzero e mentre frequentava compagne francesi, dalle quali apprendeva del cinema di Renoir, maestro indiscusso della cinematografia mondiale. Poi scoprì la fotografia. E poi ancora il documentario, utilizzato come strumento di denuncia sociale, atto a smascherare la realtà scomoda e sommersa delle persone emarginate e dei quartieri abbandonati. Il dolore non era un soggetto contemplato nelle arti visive degli anni Cinquanta. E proprio l’umanità è al centro della lunga ricerca visiva e documentaristica di Cecilia Mangini, anche quando negli anni Sessanta ella intraprese la strada del lungometraggio a carattere storico politico.

Il cinema del neorealismo per lei è stato la potente arma di riscatto dal regime fascista, cui, come da prassi consolidata, aveva giurato fedeltà all’età di sei anni, all’inizio della prima elementare.

Cecilia Mangini è già entrata nella storia, e ciò soprattutto per il documentario più innovativo della sua epoca: Essere donne. Un’analisi lucida e disincantata sulla condizione femminile in Italia nel dopoguerra. Lo realizza nel 1965, aderendo ad un progetto promosso dal Partito Comunista Italiano circa la realizzazione di documentario sulla vita dei lavoratori italiani, uomini o donne che fossero. Mentre l’industria culturale faceva passare sugli schermi l’immagine da Mulino Bianco della famiglia italiana, la Mangini denunciava la violenza, le contraddizioni, le problematiche familiari, la fatica e il lavoro delle donne italiane. E lo faceva con un linguaggio rapido e moderno, che si situa nel solco di quel neorealismo che lei ha tanto praticato. Ne emerge un quadro dettagliato della vita «avara di gratificazioni» delle donne italiane, divise tra lavoro di cura e lavoro in fabbrica. Osannato dai critici italiani e stranieri, il documentario fu boicottato da autori e registi della Commissione ministeriale impedirono che l’opera fosse diffusa sul territorio nazionale. La censura fu mascherata con la scusa di presunte mancanze tecnico-artistiche. La realtà era che la realtà e sincerità del documentario era disturbante all’interno di una società dove prassi e valori veri o presunti erano storia consolidata e dove il disagio e la realtà dolorosa si nascondevano dietro il boom economico e l’avvento dei consumi di massa.

Una voce come la sua mancherà e va riscoperta, per approfondire la riflessione sulla condizione delle donne e sulla società, come anche per dare spunto e alimento alle giovani che vogliano cimentarsi nelle arti visive ed in particolare nella settima arte.

Pubblicato su Gli Stati Generali

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