sabato 25 novembre 2023

SIAMO TUTTE GIULIA! IL RUOLO DELLA SCUOLA NELL'EDUCAZIONE ALLA NON-VIOLENZA

PAOLA CARUSO

A 22 anni, una ragazza può credere di aver trovato l’amore della sua vita, un amore, che cioccolatini e film e riti religiosi ci hanno insegnato che dura per sempre.

Poi il ragazzo che credevamo di amare impone le sue ferree leggi: non uscire con altri all’infuori di me; non mandare messaggi che io non possa leggere; non laurearti per prima.

E quell’ipoteca che avevamo messo su noi stesse per onorare la promessa d’amore, il fidanzamento, comincia a gravare come un macigno: perché non posso? Non siamo mica in Iran o in Pakistan! In Italia c’è stato il femminismo: “il corpo è mio e lo gestisco io”; “tremate, tremate, le streghe son tornate” recitavano gli slogan degli anni Settanta.

Cortei, striscioni, assemblee, leggi di progresso civile hanno reso l’Italia un luogo in cui le donne erano diventate consapevoli della loro dignità e del loro valore come esseri umani pensanti, liberi e autonomi da potestà genitoriali, da tutoraggi maritali e parentelari.

Anche l’educazione doveva promuovere questo spirito di indipendenza e intraprendenza nelle bambine, avviando alla misteriosa e agognata parità di genere.

Poi … che è successo? Da un osservatorio privilegiato come la scuola, posso affermare che un lento declino affligge le giovani generazioni, unitamente al lento declino dell’istituzione scolastica, che non è vista più come ente che fornisce istruzione e certificazione della formazione civica e culturale dell’individuo, ma solo come luogo di aggregazione e socializzazione, che pure erano obiettivi fondamentali, ma solo come corollario di quelli principali.

Ciò è stato molto chiaro nel biennio della pandemia, quando molti genitori erano in rivolta perché i figli bambini o adolescenti, lasciati a casa, non erano gestibili, privati di quelle stupidaggini che ti fanno passare il tempo.

Da soli, in isolamento, con lezioni virtuali, hanno dovuto affrontare il vuoto che avevano dentro, senza possibilità di compensarlo o scaricarlo all’esterno: niente palestra, scuola calcio, danza, corsi di questo e di quello, feste di compleanno, con genitori a fare da autisti; il tempo si è dilatato, le famiglie hanno dovuto fare i conti con ruoli sempre più stretti e con una quotidianità ingabbiata.

Allora tutti si sono accorti che la scuola era importante, ma non perché mancasse loro il contatto con il greco o la matematica, ma perché mancava l’uscita obbligatoria che stemperava i conflitti familiari, rendendo tollerabile la convivenza.

Il ritorno nelle aule ha fatto ritrovare il solito tran tran, ma con ragazzi sempre più svagati, abituati ormai a vivere metà del loro tempo sui cosiddetti social, che si sono sostituiti ai rapporti concreti.

Per moltissimi alunni è difficile trovare la concentrazione per più di un quarto d’ora; difficilissimo mantenerla per fare un compito in classe. Di fronte al compito o all’interrogazione che pongono problemi di ordinaria competenza scolastica, sempre più alunni non vogliono mettersi alla prova, ma sono presi dal panico. Un’insufficienza è vissuta come una tragedia e non come un incentivo a fare meglio o impegnarsi di più.

La scuola ormai deve certificare solo i successi, l’insegnante o il preside (ah, già, oggi si chiama dirigente!) sono nemici per genitori sempre più lontani dall’etica dello studente di scuola. Con melenso buonismo si dice: “I ragazzi di oggi sono fragili!” E come sono i bambini e i ragazzi che vivono adesso a Gaza? O in Ucraina?

I nostri ragazzi “fragili”, timidi, introversi, magari poi sono quelli capaci di uccidere a pugnalate una ragazza che dice loro un semplice no! No, non voglio stare più con te! Non voglio sottostare alle tue imposizioni, ricatti, violenze. Sono talmente “fragili” che non accettano nessuna deroga alla programmazione che si sono dati, incapaci di autocritica, incapaci di accettare il fallimento nella scuola e nella vita.

Il fallimento oggi bisogna nasconderlo; il quattro sulla pagella non si vede più sui quadri esposti nella bacheca della scuola, paragonato a una pubblica gogna, è misteriosamente scomparso, sostituito prima da un sei dipinto di rosso e poi da un sei con l’asterisco e poi da un laconico messaggio privato inviato dalla scuola al diretto interessato. Nessuno deve sapere! Siamo ritornati all’omerica civiltà di vergogna, in cui l’insuccesso scolastico o qualsiasi insuccesso è fonte di dileggio e disperazione.

In una società di belli e vincenti, il ragazzino disabile viene bullizzato o tenuto segregato, non merita solidarietà e affetto, come ci dicono numerosi episodi di cronaca.

Il ministro della pubblica istruzione fa sapere di avere pronta la ricetta per risolvere il dilemma: come può la scuola educare soprattutto i maschi al rispetto delle donne e bandire la violenza? Secondo me, la domanda dovrebbe essere un’altra: come può la scuola ritrovare il suo ruolo di guida e di educatrice nella società edonista che abbiamo costruito?

martedì 21 novembre 2023

VATTENE VIA SUBITO

 


- La prima volta che ti umilia in pubblico o in privato, VATTENE VIA SUBITO

- Quando ti farà notare che tu hai meno diritti di lui, VATTENE VIA SUBITO
- Quando sparisce per giorni e poi ritorna, VATTENE VIA SUBITO
- Se colpisce il muro o un mobile durante un litigio, VATTENE VIA SUBITO
- Se tu sei felice e splendente, ma lui non lo è per te, VATTENE VIA SUBITO
- Se guarda le altre sempre e non valorizza te, VATTENE VIA SUBITO
- Se ti dice "sono fatto così, questo posso darti",
VATTENE VIA SUBITO
- Quando ti schiaccia l'ego o ti usa per essere idolatrato, VATTENE VIA SUBITO
- Quando abbatte la tua autostima e ferisce la tua anima, VATTENE VIA SUBITO
- Se ti deride per l'aspetto fisico o schernisce le tue idee, VATTENE VIA SUBITO
- La prima volta che ti controlla, VATTENE VIA SUBITO
- Quando ti tradisce, ti mente, ti insulta, usa toni aggressivi, t'incolpa, ti manipola, usa silenzi punitivi, VATTENE VIA SUBITO
- Quando non gli importa nulla se gli manchi, se lo aspetti, se fai delle cose importanti per lui, VATTENE VIA SUBITO
- Se ti fa pesare delle cose normali, le ingigantisce oppure minimizza il tuo dolore, VATTENE VIA SUBITO
VATTENE VIA SUBITO PERCHÉ TU VALI PIÙ DI CHIUNQUE ALTRO!

LA CULTURA DEL RISPETTO CHE NON C'E'

 


Il Mattino, 20 novembre 2023

martedì 19 settembre 2023

MUSSOLINI, IL FASCISMO, I PARTIGIANI NELLE RIFLESSIONI DEL FILOSOFO PIERO DI VONA

Piero Di Vona (nella foto), ontologo (Buccino, 6 giugno 1928 - Salerno, 5 gennaio 2018)ha insegnato Storia della filosofia nelle università di Pavia, Palermo, Salerno e Napoli “Federico II”. E' figlio dell'antifascista italiano Quintino Di Vona, che pagò con la vita la sua opposizione al regime.


Debbo dire che gli antifascisti a me non sono mai parsi eccelsi. Essi non ebbero nessuna parte nella caduta del fascismo, il re e Badoglio, tutti e due legatissimi al fascismo, che ne provocarono la caduta con la loro azione, non si sa bene per quale scopo, quando furono messi di fronte alla sconfitta militare. Non si sa bene se lo fecero pensando di sacrificare Mussolini per conservare il regime autoritario, o se volessero sinceramente ritornare alla vecchia costituzione, come è meno probabile. Le divisioni ideologiche degli antifascisti, ed i loro contrasti personali, resero inefficace la loro azione. Del resto, nemmeno gli angloamericani ebbero mai ebbero mai una grande considerazione per i fuoriusciti, perché non tentarono mai di costituire un governo italiano antifascista da contrapporre a quello di Mussolini. Io non pensavo nemmeno che questi fosse meritevole di una opposizione. Come in filosofia non tutti e non sempre sono degni di confutazione, così in politica non tutti e non sempre sono degni di una opposizione, e almeno per me certo Mussolini non lo era. Ora che sono anziano penso con Sant’Agostino che occorresse che il tiranno si distruggesse da solo, come in effetti avvenne. Mussolini piacque agli Italiani perché portava agli eccessi i loro difetti. Ma non fu affatto quel grande statista che gli Italiani credono ancora che fosse stato, perché non hanno ancora misurato lo spaventoso abisso in cui per sua colpa sono caduti, e neppure compreso che l’invasione dell’Italia dal Nord al Sud per colpa della politica di Mussolini non fu altro che una delle invasioni straniere succedutesi nei lunghi secoli seguiti alla caduta dell’impero romano. Questa fu la vera colpa di Mussolini, veramente imperdonabile assai più dell’aver instaurato un regime dittatoriale, perché l’unità d’Italia fu voluta per impedire invasioni straniere e garantire alla nazione la libertà dagli stranieri. Nessuno prima di Mussolini era stato capo del governo per vent’anni nello Stato italiano. Eppure con una simile eccezionale esperienza, egli ragionò come il popolino: la Germania aveva già vinto, e l’Inghilterra o si sarebbe arresa, o sarebbe venuta a patti. Chi più di lui, che soffriva di stomaco, poteva capire che dopo un lauto pasto bisogna concedere al corpo un lungo riposo? Eppure egli seppe conquistare, ma non conservare l’Etiopia. Soprattutto non capì che solo conservando la neutralità l’Italia avrebbe vinto la guerra che altre nazioni combattevano. Mussolini fu ucciso dai partigiani per decisione del Comitato di liberazione dell’alta Italia per almeno quattro ragioni, tre private e una pubblica. Nei suoi vent’anni di governo non gli erano mancati i mezzi per conoscere vita, opere e miracoli dei cosiddetti grandi capi dell’antifascismo. Inoltre, Churcill e gli Inglesi temevano che, se fosse vissuto, avrebbe pubblicato i documenti dei loro rapporti con lui e col regime fascista. Queste furono ragioni private. La ragione pubblica fu che bisognava assolutamente evitare che il capo dell’Italia vinta ed occupata, caduto in mano ai vincitori, subisse il processo di Norimberga, o di altro luogo, e venisse giustiziato dagli stranieri dopo un processo pubblico tenuto dinanzi a tutto il mondo. Vi fu poi la ragione più vile, il timore molto forte che, se fosse vissuto, anche nel futuro regime democratico, con la sua capacità oratoria e la sua personalità, che godeva ancora di un seguito nonostante la funesta disfatta, potesse riprendere il potere.


Piero Di Vona, Ricordo di mio padre, in “La vita e la storia familiare: interviste, lettere, articoli, testimonianze su La Voce di Buccino dal 2007 al 2023”, pp. 33-34

domenica 10 settembre 2023

OGNI TEMPO HA IL SUO FASCISMO

«Ogni tempo ha il suo fascismo: se ne notano i segni premonitori dovunque la concentrazione di potere nega al cittadino la possibilità e la capacità di esprimere ed attuare la sua volontà. A questo si arriva in molti modi, non necessariamente col timore dell'intimidazione poliziesca, ma anche negando o distorcendo l'informazione, inquinando la giustizia, paralizzando la scuola, diffondendo in molti modi sottili la nostalgia per un mondo in cui regnava sovrano l'ordine, ed in cui la sicurezza dei pochi privilegiati riposava sul lavoro forzato e sul silenzio forzato dei molti».

(Primo Levi, da "La simmetria e la vita")

lunedì 4 settembre 2023

IL MASSACRO DI AIGUES-MORTES NEL 1893

 


Si tratta di una delle pagine più nere nella storia dell’emigrazione e del lavoro operario. Aigues-Mortes (acque morte) è una piccola località della regione dell’Occitania, nel sud della Francia, a 35 km da Nîmes e 30 km da Montpellier. La località è collegata al mare ed al Rodano da canali navigabili. Da sempre è specializzata nella produzione del sale.

A fine Ottocento, in decenni caratterizzati dalla fame e dalla mancanza di lavoro che spingevano molti italiani a cercare occupazione altrove, in questa piccola località francese si verificò un massacro in cui morirono otto italiani, almeno una decina rimasero sconosciuti e un centinaio rimasero gravemente feriti, alcuni restando invalidi per tutta la vita.

Un misto di motivazioni xenofobe e guerra fra poveri fu all’origine della strage, che si verificò tra il 16 ed il 17 agosto 1893, esattamente 130 anni fa. L’episodio è ben descritto e documentato da Enzo Barnabà, che ha scritto un libro su quanto accaduto.

I lavoratori stagionali del posto si dividevano in tre categorie: i “piémontais” o “francesi de Cuneo”, cioè gli italiani, la maggioranza dei quali era piemontese; gli “ardechois”, contadini di origine francese; ed infine i “trimards”, cioè i vagabondi di qualsiasi provenienza, per lo più francesi del sud e rom.

Le tensioni di tipo razziale ed etnico erano molto forti e così, quando alcuni cittadini di Aigues-Mortes morirono in circostanze misteriose, la colpa fu immediatamente attribuita agli italiani. La mattina del 16 agosto si verificò una rissa tra le parti in causa ed ebbe inizio una caccia all’italiano, nonostante l’intervento dei gendarmi.

La rappresaglia fu feroce.

C’era anche un altro motivo. Gli italiani erano disposti a piegarsi a qualsiasi richiesta dei padroni, mentre i francesi si stavano organizzando per una protesta.

Alcuni operai italiani dovettero abbandonare il lavoro e fuggirono a rifugiarsi in una panetteria, che fu ben presto assediata da francesi inferociti, i quali minacciarono di dare fuoco allo stabile. Il Prefetto decise allora di inviare delle truppe per risolvere la situazione, ma esse arrivarono a destinazione il giorno dopo, quando la strage si era consumata.

Alcuni operai italiani rimasti nelle saline furono seriamente minacciati il giorno dopo e così la Gendarmerie pensò di placare gli animi rispedendoli in patria. Tuttavia, durante il loro trasferimento alla stazione, essi furono attaccati da rivoltosi, venendo linciati, bastonati, sparati e affogati.

L’opinione pubblica italiana attaccò le istituzioni francesi sul nostro territorio, ritenute la causa di quella vile aggressione. Ci furono clamorose manifestazioni popolari sotto l’ambasciata francese a Roma, che fu gravemente danneggiata con lanci di sassi, ed anche un attacco ai tram di proprietà di una compagnia francese a Napoli.

Per evitare un incidente diplomatico in grande stile, o addirittura un vero e proprio conflitto tra i due paesi, intervenne con saggezza Giovanni Giolitti, che era divenuto presidente del consiglio per la prima volta proprio in quell’anno. Ci fu un compromesso tra i due governi. Lo Stato francese avrebbe risarcito le famiglie delle vittime italiane, e lo Stato italiano avrebbe provveduto a riparare i danni strutturali subiti dall’ambasciata francese.

Le vittime accertate furono otto: Carlo Tasso di Alessandria, Vittorio Caffaro di Pinerolo, Bartolomeo Calori di Torino, Giuseppe Merlo di Centallo, Rolando Lorenzo di Altare, Paolo Zanetti di Nese, Amaddio Caponi di San Miniato e Giovanni Bonetto di Frassino. Il corpo di una nona vittima, Secondo Torchio di Tigliole, non fu mai trovato.

Altri 17 italiani erano feriti in modo grave e, non potendo essere evacuati in treno, rimasero in Francia. Uno di loro morì di tetano dopo un mese. I morti in totale sarebbero stati 17 ed i feriti 150.

Seguì un processo che assolse tutti gli imputati. La stampa internazionale definì il processo una farsa e molti giornali scrissero che il motivo per cui nessun francese fu condannato era l’italianità delle vittime. Con coraggio un cronista del Journal de Midi scrisse: “Ho appena assistito ad una scena di efferatezza senza precedenti e indegna di un popolo civile”.

Questa vicenda non è mai ricordata nei libri di storia, di cui sempre poco si parla delle tematiche legate all’emigrazione.

Nel tempo vi sono state sporadiche celebrazioni ed oggi, ad Aigues-Mortes, campeggiano due targhe, che sono state messe lì nel 2018. Una ricorda le vittime italiane ed un’altra i “Giusti” francesi, che si opposero alla barbarie xenofoba di quei giorni, come il panettiere di cui abbiamo già parlato, una donna che morirà per via di una randellata ed il parroco che diede conforto e aiuti agli italiani perseguitati.

 

Fonti: 

www.cuneo24.it/2021/08/128-anni-fa-il-massacro-di-aigues-mortes-dove-morirono-otto-operai-italiani-di-cui-due-cuneesi-125491/

www.ibs.it/morte-agli-italiani-massacro-di-libro-enzo-barnaba/e/9788889602423

www.mimbelluno.it/libri-del-mese/il-massacro-degli-italiani-aigues-mortes-1983-quanso-il-lavoro-lo-rubavamo-noi/

www.novecento.org/didattica-in-classe/il-massacro-di-aigues-mortes-un-caso-di-xenofobia-o-guerra-tra-poveri-3487/

www.rivieratime.news/il-massacro-di-italiani-in-francia-che-non-ha-mai-visto-giustizia-i-fatti-di-aigues-mortes-nel-racconto-di-enzo-barnaba

https://rivistasavej.it/lung/2016-2020/la-strage-impunita-di-aigues-mortes-3b5a6912d46c

www.sagarana.net/anteprima.php?quale=682

www.savonanews.it/2019/10/18/leggi-notizia/argomenti/attualit/articolo/altare-targa-operaio.html

martedì 29 agosto 2023

GIAMBATTISTA VICO, IL PIU' GRANDE E MISCONOSCIUTO PENSATORE ITALIANO

Il più grande pensatore italiano è il meno conosciuto

Marcello Veneziani


Perché dedicare oggi, in un tempo che pensa poco, ha poca fede, poco amore della storia e della cultura umanistica una biografia a Giambattista Vico? Perché è il più grande pensatore italiano, di quell’Italia di cui fu padre Dante Alighieri sette secoli fa. Misconosciuto, incompreso, più spesso frainteso, o ridotto a qualche tormentone scolastico, tipo “corsi e ricorsi”, Vico è il filosofo che apre nuovi mondi e ci collega ai mondi più antichi; dei miti, della romanità, della cristianità, della tradizione, della civiltà mediterranea. E’ il pensatore che ha cercato il punto di confluenza tra la filosofia, la religione, il mito e la storia, preceduti dalla poesia ed ha pensato con mente eroica una Scienza nuova, che è il titolo del suo capolavoro di tre secoli fa.

Non c’era una biografia di Vico, la storia della sua vita tormentata. Ci sono tanti saggi su Vico, in primis di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, ci sono gli studi e le preziose ricerche di Fausto Nicolini ma non c’era un racconto organico e compiuto della sua vita e del suo travaglio. C’è la sua breve autobiografia incompiuta che è un’apologia di se stesso, quasi una rivendicazione rispetto ai suoi contemporanei. Questa strana assenza di biografia mi ha spinto a scrivere la sua vita in relazione al suo tempo e al suo pensiero.

Vico fu pure precursore del Risorgimento; espressione derivata dall’idea cristiana di resurrezione e da lui applicata alla storia delle nazioni. Il suo pensiero storico è il crocevia delle culture civili e politiche dell’Italia dopo l’unità: la cultura liberale e crociana, la cultura nazionale e fascista, la cultura socialcomunista e gramsciana, la cultura cattolica fino al suo ultimo pensatore, Augusto del Noce, che aveva in mente di dedicare una sua opera finale a Vico. Quando mi consegnò il suo ultimo scritto autografo, pochi giorni prima di morire, si raccomandò di inserire nel suo testo la citazione esatta sull’eterogenesi dei fini di Vico, che non aveva sotto mano.

Con Vico dei miracoli, che esce oggi da Rizzoli (pp.234, 20 euro) ho voluto raccontare la sua vita come un romanzo popolare, però fedele alla sua storia, alla sua epoca e al suo pensiero. Ho voluto riprendere, pur all’interno di una narrazione, i fili del suo pensiero, spiegare la sua complessa Scienza Nuova che è, come lui disse, una teologia civile ragionata ma anche la storia ideale, eterna e universale delle nazioni.

La parabola dell’infanzia in una famiglia povera e numerosa, la sua caduta fatale da bambino per cui sarebbe rimasto demente, secondo il cerusico che lo curò; il soggiorno giovanile da precettore a Vatolla, i suoi primi infelici amori; poi il suo sposalizio con una donna analfabeta che si firmava con la croce e diceva che con i libri non si mangia; la sua vita da capofamiglia, la sua opera concepita tra gli strepiti domestici. E in mezzo le tempeste, le bocciature, le malattie, le derisioni patite, un figlio delinquente che lui fa arrestare ma che tenta poi in extremis di salvare dai gendarmi; le figlie da maritare, le preghiere inascoltate rivolte ai potenti, le umiliazioni accademiche e gli sfottò; la sua vita da inquilino moroso, di casa in casa, le sue lezioni private nei palazzi signorili.

Vico s’identificò nella sua Napoli, che all’epoca era la più grande città europea dopo Parigi. Un ritratto dal vivo della Capitale del sud tra il ‘600 e il ‘700: miseria e nobiltà, bellezza, orrori e misteri napoletani, rivolte e calamità naturali. Nell’arco della vita di Vico nascono tutti i tratti identitari di Napoli, inclusi gli stereotipi: il lotto e la tombola, Pulcinella e il teatro san Carlo, i femminielli e i castrati, detti angiolilli, i munacielli e le vajasse, i maccarune e la pummarola, e molte altre cose che fanno l’identità di Napoli borbonica e del sud.

Incompreso dai contemporanei, frainteso da tanti posteri. Ebbe gloria postuma e ora internazionale. Fu il più grande ma non se ne accorsero, anzi lo presero in giro, ritenendolo un pedante. Quelle traversie che Vico vide trasformarsi in opportunità, lo incitarono a scrivere le sue opere.

C’è però una ragione che spiega l’incomprensione di Vico: i potenti e il clero non leggevano le sue opere o non se ne curavano, il popolo non le capiva, e la cerchia degli intellettuali, i letterati del suo tempo, erano cartesiani, atei, francofili e poi illuministi, avversavano la visione religiosa e tradizionale di Vico, la sua idea della “mano di Dio” che agisce nella storia, l’importanza dell’infanzia nella vita dei popoli e negli universi fantastici, la relazione tra fantasia e memoria, il suo pensiero metafisico rivolto al mito, la sua difesa del comune sentire popolare, della famiglia e del sacro in un’epoca che si andava secolarizzando. Nel suo capolavoro egli cercò di sposare tradizione e novità, mito e storia, progresso e ritorno in una visione ciclica della storia in forma di spirale. Su quelle basi nacque il realismo vichiano, dove il vero coincide col fatto (verum est factum).

Amò la Provvidenza ma non fu ricambiato, era malinconico e si riteneva sfortunato. I suoi funerali furono ripetuti due volte – corsi e ricorsi anche da morto- per una contesa tra il collegio accademico e la sua congregazione religiosa, una specie di conflitto simbolico tra intellettuali laici e credenti.

Ci sono tante ragioni di pensiero, tante curiosità di vita e di storia, tanti intrecci col suo tempo e col nostro, che meritavano di essere raccontati. Vico dei miracoli è un noto punto di Napoli, ma è la metafora di un pensiero miracoloso, non solo per i suoi riferimenti alla grazia della Provvidenza. E mentre la vecchiaia avanzava, Vico insegnava ai suoi alunni, che più la storia avanza più il mondo si rinnova e anziché invecchiare ringiovanisce… Oggi nella sua casa natia, sotto la lapide che lo ricorda, c’è una friggitoria, allegoria della fine che hanno fatto il pensiero e la memoria. Fritti.


La Verità – 29 agosto 2023

sabato 15 aprile 2023

SUZUME

Questo è il film di animazione più incredibile che io abbia mai visto. Una suspence dall'inizio alla fine, i colori del cielo e del mare, la commozione finale sul pianto della bambina di quattro anni che rimane orfana di madre. Un capolavoro.

sabato 11 febbraio 2023

SANDY MARTON: «MI SCOPRI' CECCHETTO A CASA DI DE MITA»

(Fonte: Corriere della Sera)

Sandy Marton: «Mi scoprì Cecchetto a casa di De Mita». Den Harrow: «Non cantavo, ci mettevo solo l’immagine»: parlano i reduci della Disco anni 8o

di Renato Franco

«Milioni di dischi venduti, soldi, donne e poi... la rovina». Ma forse non è finita. Gazebo: «Ho venduto 8 milioni di copie ma il successo è durato poco. Però all’ultimo concerto di quest’anno erano in 38 mila». Johnson Righeira: «Ho sperperato tutto»

Sandy Marton: «Mi scoprì Cecchetto a casa di De Mita». Den Harrow: «Non cantavo, ci mettevo solo l’immagine»: parlano i reduci della Disco anni 8o

Sandy Marton ai tempi dei suoi successi negli Anni Ottanta. Oggi ha 63 anni

Una curiosità legata a Sanremo: Sandy Marton, scoperto come racconta da Claudio Cecchetto, fece la sua prima comparsa in pubblico come ballerino del «Gioca Jouer» nel Festival del 1981. L’anno successivo tornò a Sanremo presentato da Cecchetto come ‘Steve Mustafa’, a capo di un corpo di ballo che accompagnava il suo nuovo singolo «Ska Chou Chou». Arrivò al successo come Sandy Marton nel 1984 con il brano «People from Ibiza».

Sulle ceneri degli Anni di Piombo nasce il cinepanettone: in queste due immagini — da una parte il ragazzo piegato sulle gambe, passamontagna e pistola in pugno; dall’altra gli yuppie che vestono griffato — c’è la sintesi iconografica del passaggio dagli Anni 70 agli Anni 80 con le grandi manifestazioni di piazza che si spostano sempre più frequentemente in discoteca. Fine dell’impegno. Vincono il consumismo, la superficialità, l’edonismo: soldi, carriera, look e aerobica sono i punti cardinali di una nuova epoca. La parabola di Ronald Reagan è esemplare: da attore a presidente degli Stati Uniti. Roberto D’Agostino scriveva: «Oggi, in piena civiltà dell’immagine, si è imposto un nuovo concetto, un nuovo effetto speciale, quello dell’apparire. Ognuno cerca di esibire quel mosaico di informazioni visive chiamato look. Attraverso un look l’uomo può evadere dall’universo ripetitivo della quotidianità dove ognuno assomiglia a chiunque altro, per scacciare l’ossessione più insopportabile di questi Anni 80: essere perdenti, non riscuotere il successo sociale, cadere nel cono d’ombra del banale quotidiano». È la Milano da bere e da ballare. L’italo dance vive una stagione irripetibile, successi clamorosi che in un decennio diventano meteore. Poi come un fiume carsico tutto ritorna a galla, il revival riporta popolarità a gente dimenticata.

SANDY MARTON: «ERO A UNA FESTA DI DE MITA, TUTTE LE DONNE MI VENIVANO INCONTRO. C’ERA CECCHETTO CHE MI CHIESE: “E TU CHI C...O SEI?”. COSÌ È COMINCIATA»

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I fratelli Righeira all’epoca del loro tormentone estivo «Vamos a la play»

I nomi sono esotici: Righeira, Gazebo, Ryan Paris, Sandy Marton, Den Harrow. Sandy Marton oggi ha 63 anni e vive a Ibiza, l’isola che l’ha fatto conoscere in tutto il mondo, chi se non lui poteva essere People from Ibiza ? «Sono arrivato a Milano all’inizio degli Anni 80 per studiare design — racconta in un italiano dalle ascendenze balcaniche (è nato a Zagabria) —, non cercavo di essere una rockstar: è stato tutto una grande sorpresa e una grande figata». La svolta ha il nome di Claudio Cecchetto: «Era Capodanno, ero a una festa a casa di De Mita, c’era un salone enorme e a un certo punto sono entrato nella cabina dove Claudio faceva il dj. Non voglio fare il figo ma tutte le donne si sono girate a guardarmi. Claudio mi osserva e mi fa: e tu chi cazzo sei? Avevo 20 anni, ero sbarbato, avevo i capelli lunghi e da lì è cominciato tutto. Il segreto si chiama culo». Il successo lo travolge per la prima volta in piazza Duomo a Milano: «Ero con un amico croato, ci hanno assaltato un centinaio di ragazze, non capivo nemmeno quello che succedeva, mi sono chiuso in una farmacia per due ore senza poter uscire, lì ho capito che era accaduto qualcosa di incredibile».

Tanta musica, tantissime donne. Quante?
«Tutte quelle che ho potuto. Non tanto le fan, piu che altro mi broccolavo le collaboratrici, le conduttrici...». A un certo punto è sparito, ma la sua parabola è un’eccezione rispetto ad altre meteore di successo di quell’epoca: «Ho fatto tre hit e ogni volta ne chiedevano una nuova, mi sembrava di lavorare in banca. Io sono così, sono fuori di testa, nessuno l’avrebbe fatto di mollare di botto ma io ero annoiato. Sono andato a Parigi dove ho speso tutti i soldi, per questo non ricordo volentieri gli Anni 90...».

La spesa più folle?
«Ho fatto milioni di cazzate... appena arrivato a Parigi ho comprato la Harley-Davidson più cara che c’era». Ibiza l’aveva scoperta in tempi non sospetti: «Un amico pizzaiolo mi diceva sempre: devi andare a Ibiza! Io non sapevo nemmeno dov’era. Avevo 400 mila lire in tasca e sono rimasto lì 6 mesi. Oggi vivo qua e sto da Dio, sono come un “pensionista”, poi faccio serate o ospitate tv. Non mi sono sposato ma ho qualche amica...».

RYAN PARIS: «DISSI A MIA MAMMA “HO FATTO UNA CANZONE CHE VENDERÀ 1 MILIONE DI COPIE”, NE HO VENDUTI 5. FACCIO ANCORA CONCERTI, ALL’ESTERO PERÒ»

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Paul Mazzolini (anche lui 63 anni) tutti lo conoscono come Gazebo e per I Like Chopin 8 milioni di copie vendute. La cantano ancora oggi tutti, da Tokyo a Rio: «Senza nemmeno fare gavetta a 20 anni mi sono ritrovato proiettato al successo, il primo disco subito in vetta. È stato un decennio fantastico, la voglia di scrollarsi di dosso i problemi e cercare di vivere in modo più superficiale, più ludico». Una popolarità imprevista e inaspettata: «Io da piccolo volevo fare il chitarrista in una band, non avevo intenzione di fare il frontman, ma puntualmente ogni gruppo a cui mi proponevo mi bocciava come chitarrista e mi promuoveva come leader. L’ironia della mia vita è che sono un chitarrista fallito e un cantante per caso... Da adolescente ero un rockettaro sovrappeso, capelli lunghi, il classico improbabile per le ragazzine. Poi mi sono ritrovato a interpretare il personaggio dei miei testi, con un’immagine alla Grande Gatsby, circondato da un pubblico di sbarbatine che mi mandavano montagne di lettere».

Il boom e poi il calo: «Io ho smesso di avere quell’enorme successo già dal secondo album, che era molto meno commerciale. Per noi artisti di quell’epoca gli Anni 90 sono stati come l’AntiCristo, tutto quello che veniva da noi era demodé, faceva schifo, la dance soppiantata dalla house, il rock patinato sostituito dal grunge... io avevo uno studio di registrazione e in quegli anni ho fatto la gavetta che non avevo fatto prima». Dopo il buio di nuovo la luce: «Festival e concerti, la risposta del pubblico è tornata grande». A Düsseldorf settimana scorsa c’erano 38 mila a cantare il suo ritornello. Un rimpianto? L’ironia non gli manca... «Se avessi saputo di chiamarmi Gazebo per il resto della mia vita ci avrei pensato due volte...».

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Fabio Roscioli, che oggi ha 69 anni, in una foto di quando era Ryan Paris (Getty)

Il quasi 70enne Fabio Roscioli è Ryan Paris, la sua hit «Dolce Vita»: «Lo sapevo che avrebbe spaccato, la ascoltai, tornai a casa e feci un salto. A mia mamma dissi: canterò una canzone che venderà un milione di copie. Invece ne ha venduti più di cinque... Di quel periodo ricordo le litigate con la fidanzata, una volta la portai in Spagna e mi ritrovò in camerino con 50 donne». Per lui come per tutti i 90 sono la peste: «Sono stati anni duri, un periodo nero economicamente. Poi è ricominciata. Oggi faccio concerti in Spagna, Francia, Germania».

Cosa le manca degli 80?
«Niente. Lavoro più di prima, a parte in Italia dove nessuno è mai profeta. All’estero grazie a Dolce Vita sono considerato una superstar: c’è gente che si è sposata con la mia canzone, coppie che hanno chiamato i figli Ryan come me. È meraviglioso. Ogni volta che la canto volo, ancora adesso».

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I Righeira (da sinistra Johnson e Michael, Stefano Righi e Stefano Rota) giunsero al successo con «Vamos a la playa». Oggi hanno 62 e 61 anni

Stefano Righi e Stefano Rota. Così due sconosciuti, ma famosissimi come Johnson e Michael Righeira, la coppia che con due canzoni — Vamos a la playa L’estate sta finendo — ha vissuto una parabola eterna durata due sole stagioni. Ricorda Johnson Righeira: «Vamos a la playa era sì una canzone da spiaggia ma postatomica, immaginava uno scenario apocalittico fatto di bombe, radiazioni, mare contaminato. I fratelli La Bionda divennero i nostri produttori, ci presero sotto la loro ala e intuirono il potenziale del brano. La mia versione però era molto più dark, new wave, molto cupa, l’idea era il contrasto tra l’andare in spiaggia e le bombe che esplodevano; loro la resero molto più solare, tanto che del testo non si è parlato per molti anni, nessuno ci ha fatto caso, è stato oscurato dalla melodia».

Come ha vissuto quello schiaffo improvviso di popolarità?
«Con estrema incoscienza: sono passato dal non avere una lira a poter prendere aerei e taxi senza pensarci, potevo scegliere gli alberghi più belli, vivevo nei residence. Ho buttato via un sacco di soldi. Non ho la minima idea di quanto ho sperperato, anche perché non so neanche quello che ho guadagnato». Oggi lui continua a fare serate, ma nel frattempo la coppia è scoppiata: «Con Stefano c’è stato un progressivo allontanamento culminato in una lite che ha sancito la separazione. Da tempo non ci sentiamo più».

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Stefano Zandri, oggi 60 anni, fotografato negli Anni 80 quando è diventato Den Harrow: «Quando ballavo intorno a me la gente si metteva in cerchio a guardarmi»

Vuoi mettere l’efficacia british dello pseudonimo Den Harrow rispetto all’autoctono Stefano Zandri (60 anni) da Nova Milanese e cresciuto a Bresso?: «La musica è arrivata per caso. Ero un brutto anatroccolo che da adolescente si è trasformato in un bel ragazzino, frequentavo le discoteche e quando ballavo intorno a me la gente si metteva in cerchio a guardarmi». La sua storia è incredibile perché ha successo con canzoni (Mad Desire, Future Brain, Don’t Break My Heart ...) che non canta lui: «Negli Anni 80 funzionava così, c’erano personaggi che prestavano solo l’immagine. Era la prassi, io avevo 19 anni ed ero facilmente “corruttibile”. A 30 anni mi ritrovai con brani cantati da 7 voci diverse senza che nessuno se ne fosse accorto». A un certo punto decide di dire basta: «Ero frustrato, mi sentivo di prendere per il culo la gente». Finisce che rimane senza soldi e parte per l’America. Poi insieme agli Anni 80 torna in auge pure lui. Da tempo vive a Malaga: «Faccio tantissime serate, ma oggi posso anche permettermi di non lavorare».

Un decennio passato e ritornato, che nessuno di loro però sembra rimpiangere. A Sandy Marton la popolarità degli Anni 80 non manca: «Ricordo una sera in discoteca: dal palco al camerino c’erano 30 metri e 6.000 ragazzine: mi hanno strappato tutto in un secondo, sono arrivato completamente nudo in camerino. Va bene qualche anno, ma quella pazzia non mi manca in assoluto. Oggi le mie fan sono le mamme e le nonne...».

7 febbraio 2023 (modifica il 7 febbraio 2023 | 10:43)

mercoledì 8 febbraio 2023

SALI - ANNA OXA

"È una cosa che non si può descrivere, professionalità ai massimi livelli un controllo vocale perfetto solo i più bravi si possono permettere di gestire la voce come ha fatto lei è una canzone molto complessa siamo a livelli veramente stellari anche gli altri molto bravi ma da lei hanno solo da imparare, questa canzone ti porta in un' altra dimensione ti alzi da terra e ti ritrovi in volo, grazie Anna".


"Quest'artista è inarrivabile, irraggiungibile
La sua voce è una dolce melodia che ha la potenza del cielo
Resterà in eterno".


"Stupenda la sua voce, è vibrante ed espressiva, su un brano che è una perla, una preghiera e un monito per l'umanità".


"Assolutamente sì, riascoltata stamattina attentamente, dentro un grido consapevole, verso una società da tempo fuori equilibrio, stordita e vuota, che se vorrà salvarsi dovrà "Salire" davvero, per riemergere da questo inferno... .Lei è stupenda per come usa la voce oggi, nel suo percorso artistico, tutto il resto sono solo noiose chiacchiere da bar..."


"Brano vero, sentito, ascensionale. Un grido dell'anima.
Anna Oxa, diva intramontabile, sei riuscita a inneggiare la verità con una potenza conturbante e penetrante.
Attraverso il tuo abito e il tuo trucco hai espresso pienamente il senso più intimo del tuo brano: esso riflette infatti un mondo in rovina che grida con tutta l'anima al divino, alla sua vera casa, per ritornarvi e anelare alla verità della sua essenza.
Diva, ribadisco, diva vera Anna Oxa. Tu che hai puntato alla trasmissione sincera di un messaggio, piuttosto che alla "vittoria".
La storia ti ringrazierà".


mercoledì 1 febbraio 2023

PROFESSORI IN FUGA DAL MONDO DELLA SCUOLA

 La scuola di oggi invoglia solo a fuggire. Per questo, con sollievo, ho salutato quel mondo

Il Fatto Quotidiano

Il desiderio di insegnare a scuola lo coltivavo fin dagli anni dell’università e quando lo confessavo i futuri colleghi musicologi non esitavano a prendermi quasi in giro: “E che fai con 1.400 euro al mese?”. Questa la prima, non proprio irragionevole, obiezione. Come dargli torto, ma come darlo al tempo stesso a una vocazione quasi genetica? Professori scolastici, prima di me, i genitori, il nonno e i bisnonni: praticamente un predestinato che della scuola aveva avuto però una narrazione ben più rosea e felice dell’ambiente che in prima persona avrebbe sperimentato. Un’idea di scuola mutuata soprattutto dal rispetto che l’ambiente cittadino aveva sempre avuto per il professore Nicola Cerminara, il nonno docente di italiano, latino e greco che, pluripremiato poeta, lungo una vita di onorata carriera scolastica aveva tenuto privatamente a docenza un indescrivibile numero di studenti, talmente tanti da dedicarvi le intere stagioni estive raggiungendo la famiglia, in villeggiatura al mare, i soli fine settimana.

L’idea, dunque, di una scuola nella quale il docente era una figura quasi mitologica, un essere superiore al quale portare un rispetto incondizionato; una scuola nella quale le famiglie, mettendovi raramente piede nei soli giorni comandati, temevano e al contempo rispettavano il giudizio del professore; una scuola in cui era normale e automatico alzarsi in piedi all’ingresso del docente. Andare alla cattedra quando interrogati e temere la reazione dei genitori se rimproverati, impreparati o addirittura rimandati: esercizio inutile immaginarsela nel malaugurato caso in cui si fosse stati bocciati. Nel frattempo, però, oltre la scuola stessa, martoriata da venti e più anni di scellerate schiforme, è radicalmente cambiata la società tutta.

Un cambiamento, quello a cui l’Italia è andata incontro negli ultimi decenni, che porta la firma del galoppante consumismo, di leggi di mercato e di un intero mondo nel quale, impietosamente, è il valore economico a indicare quello umano: vali quanto guadagni, ne più ne meno. E in una società in cui l’inflazione galoppa e gli stipendi dei docenti restano per interi decenni al palo, gli stessi, con un potere d’acquisto ridotto all’osso, diventano di colpo i proletari dell’intelletto. I poveri cristi su cui scaricare le frustrazioni e i fallimenti di ogni sogno infranto, di ogni sfumata illusione, di una società malata e moralmente compromessa. Pian pianino, senza quasi rendercene conto, i giornali hanno iniziato a riempirsi di titoli e titoloni su vessazioni, abusi e maltrattamenti che docenti di ogni ordine, grado e latitudine subiscono oramai quotidianamente da alunni e genitori.

Clienti, esattamente clienti e nulla più, di quelli che la scuola dell’autonomia, quella voluta da ogni sorta di governo succedutosi negli ultimi 25 anni nutre l’inconfessato terrore di perdere: badare alle iscrizioni, sanno bene i dirigenti, che solo quelle garantiscono la tenuta economica dell’istituto. Ed è così che l’insegnamento da valore si è ridotto a servizio, di quelli che devono innanzitutto rispettare il gradimento dell’utenza. Un’utenza non adeguatamente informata sul fatto che i livelli di apprendimento dei più diretti fruitori, gli alunni, dalle eccellenze di una scuola un tempo invidiabile, modello di caratura internazionale sono drasticamente crollati ai numeri degli annuali rapporti Invalsi: giovani diplomandi troppo spesso incapaci a comprendere un testo, a far di conto, ad affrontare un’interrogazione comodamente seduti al proprio banco, senza un libro o un quaderno spalancato sotto gli occhi.

Intere generazioni a cui lo Stato, le dirigenze e l’intero sistema dell’istruzione ha gradualmente sottratto il diritto all’apprendimento, alla crescita e alla formazione, migliaia e migliaia di giovani riempiti come scatole vuote di progetti, progettini ed educazioni civiche che di civico hanno il solo numero della scuola presso cui vengono erogate, come anche mille altre attività dal solo effetto, o più cinicamente scopo, di impedire una sana azione didattica, di portare a termine il programma annuale, di fornire loro gli adeguati strumenti per non soccombere in una società sempre più complessa, articolata, veloce e spietata.

Una scuola troppo spesso ridotta a parcheggio dell’infanzia, in ambienti e strutture troppo eufemisticamente inadeguate; una scuola in cui c’è una chat per ogni cosa, di classe, di dipartimento, di plesso, d’istituto, di educazione civica, di sostegno, d’esame, chat di ogni tipo per messaggi che, in barba a qualsiasi diritto alla disconnessione, giungono a ogni ora di ogni giorno: inutile opporsi, anche le circolari ormai si veicolano via chat; una scuola che si dimentica di premiare i docenti più culturalmente meritevoli e che baratta il principio meritocratico con logiche d’ordine aziendale, dove il docente meritevole è quello non culturalmente aggiornato, avanzato, progredito, ma quello che prende parte a tutti i corsi di formazione possibili, di quelli che con le materie di studio, con la didattica non c’entrano nulla, ma vanno altresì ad alimentare giri economici e potentati di non poco conto; una scuola che andrebbe rinnovata dalle fondamenta, ma i cui fondi per farlo vengono dirottati verso gli istituti privati; una scuola che invoglia solo a fuggire e che personalmente, trasferendomi a tempo pieno in conservatorio, con sollievo ho salutato a partire dal primo gennaio del 2023. Una sconfitta collettiva di cui prendere sempre più diffusamente atto, senza che venga a ricordarcelo una mamma finlandese o l’ennesimo docente maltrattato.

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