giovedì 18 aprile 2024
giovedì 11 aprile 2024
domenica 7 aprile 2024
GUSTAW HERLING-GRUDZINSKI E LA SUA CASA DI NAPOLI
venerdì 22 marzo 2024
CORSO ACCELERATO DI IMBECILLITA' SUICIDA
(MARCELLO VENEZIANI) - Ma in che mondo ci stanno portando? Dunque ricapitoliamo la situazione per chi si fosse distratto, avesse perso il filo complessivo della situazione o si fosse messo in contatto con il mondo solo adesso, dopo aver vissuto da automa. Stando a quel che abbiamo appreso in questi giorni, noi dovremmo scendere in guerra con Putin, chiudere un occhio sugli eccidi di Gaza perché non sono un genocidio, interrompere ogni tentativo di arginare i flussi migratori, non celebrare le nostre feste religiose ma solo il ramadam, inserire nella Costituzione non più il diritto alla vita ma il diritto ad abortire, seguire le prescrizioni woke nelle scuole, nelle università, sui social, in famiglia e nelle relazioni pubbliche e private, ovunque. A suggerirci questo catechismo non sono isolati maestrini che si sono bevuti il cervello, ma nell’ordine i vertici dell’Unione europea e di alcuni suoi governi nazionali, come la Francia.
domenica 17 marzo 2024
DIRITTO AL RIPOSO E ALLA STANCHEZZA
(🖊️Silvia Morosi @silvia.morosi) IL DIRITTO AL RIPOSO (E ALLA STANCHEZZA) - «Ogni individuo ha diritto al #riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite», recita l’articolo 24 della Dichiarazione universale dei diritti umani (adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre del 1948). In una società iper-produttiva, che ha fatto dell’avere l’agenda piena uno status e si è dimenticata del tasto “off”, ci sentiamo spesso in colpa se ci prendiamo del tempo per staccare. Del tempo per noi. Il tema mi sta a cuore e ci rifletto da mesi: ma siamo davvero sicuri che il riposo e la #stanchezza non siano due diritti per cui battersi senza vergogna?
domenica 10 marzo 2024
SCRITTRICI DIMENTICATE
domenica 3 marzo 2024
venerdì 1 marzo 2024
ELOGIO DELLA SPREZZATURA IN BALDASSARRE CASTIGLIONE
Baldesar Castiglione -Il libro del Cortegiano
XXVI.
Chi adunque vorrà esser bon discipulo, oltre al far le cose bene, sempre ha da metter ogni diligenzia per assimigliarsi al maestro e, se possibil fosse, transformarsi in lui. E quando già si sente aver fatto profitto, giova molto veder diversi omini di tal professione e, governandosi con quel bon giudicio che sempre gli ha da esser guida, andar scegliendo or da un or da un altro varie cose. E come la pecchia ne' verdi prati sempre tra l'erbe va carpendo i fiori, cosi il nostro cortegiano averà da rubare questa grazia da que' che a lui parerà che la tenghino e da ciascun quella parte che più sarà laudevole; e non far come un amico nostro, che voi tutti conoscete, che si pensava esser molto simileal reFerrando minored'Aragona, né in altro avea posto cura d'imitarlo, che nel spesso alzare il capo, torzendo una parte della bocca, il qual costume il re avea contratto cosi da infirmità. E di questi molti si ritrovano, che pensan far assai, pur che sian simili a un grand'omo in qualche cosa; e spesso si appigliano a quella che in colui è sola viciosa. M a avendo io già più volte pensato meco onde nasca questa grazia, lasciando quelli che dalle stelle l'hanno, trovo una regula universalissima, la qual mi par valer circa questo in tutte le cose umane che si facciano o dicano più che alcuna altra, e ciò è fuggir quanto più si po, e come un asperissimo e pericoloso scoglio, la affettazione; e, per dir forse una nova parola, usar in ogni cosa una certa sprezzatura, che nasconda l'arte e dimostri ciò che si fa e dice venir fatto senza fatica e quasi senza pensarvi. Da questo credo io che derivi assai la grazia; perché delle cose rare e ben fatte ognun sa la difficultà, onde in esse la facilità genera grandissima maraviglia; e per lo contrario il sforzare e, come si dice, tirar per i capegli dà somma disgrazia e fa estimar poco ogni cosa, per grande
ch'ella si sia. Però si po dir quella esser vera arte che non pare esser arte; né più in altro si ha da poner studio, che nel nasconderla: perché se è scoperta, leva in tutto il credito e fa l'omo poco estimato. E ricordomi io già aver letto esser stati alcuni antichi oratori eccellentissimi, i quali tra le altre loro industrie sforzavansi di far credere ad ognuno sé non aver notizia alcuna di lettere; e dissimulando il sapere mostravan le loro orazioni esser fatte simplicissimamente, e più tosto secondo che loro porgea la natura e la verità, che 'I studio e l'arte; la qual se fosse stata conosciuta, aria dato dubbio negli animi del populo di non dover esser da quella ingannati. Vedete adunque come il mostrar l'arte ed un cosi intento studio levi la grazia d'ogni cosa. Q ual di voi è che non rida quando 11 nostro messer Pierpaulo danza alla foggia sua, con que' saltetti e gambe stirate in punta di piede, senza mover la testa, come se tutto fosse un legno, con tanta attenzione, che di certo pare che vada numerando i passi?
Qual occhio è cosi cieco, che non vegga in questo la disgrazia della affettazione? e la grazia in molti omini e donne che sono qui presenti, di quella sprezzata desinvoltura (ché nei movimenti del corpo molti cosi la chiamano), con un parlar o ridere o adattarsi, mostrando non estimar e pensar più ad ogni altra cosa che a quello, per far credere a chi vede quasi di non saper né poter errare?
sabato 10 febbraio 2024
GLI STUDI DEL GRUPPO "ISTRIA ITALIANA"
(Daniele De Folchi) - Sabato Febbraio 2024 ,noi del gruppo di ricerca ISTRIA ITALIANA commemoriamo il giorno del ricordo,istituito dal senatore Roberto Menia con Legge n.92 del 30 Marzo 2004.
venerdì 9 febbraio 2024
FAUSTA CIALENTE: L’AVVENTURA DI RADIO CAIRO
Per
quanta indignazione potesse sollevare in noi lo spettacolo d’una seconda guerra
mondiale (a poco più di vent’anni dalla fine della prima) che si sarebbe potuta
evitare, con tutti gli orrori a cui ci fece assistere, se la chiara lezione che
ci aveva dato la guerra in Spagna e il trionfo del franchismo fossero almeno
serviti a far intendere agli stati europei, Francia e Gran Bretagna in prima
linea, che non bisognava, per l’eterna paura del “bolscevismo”, proteggere i
fascismi, non mi sentii sperduta come la prima volta. La grossa esperienza non
era stata inutile. Perciò, quando nell’ottobre del ’40, dagli ufficiali inglesi
della propaganda mi venne offerto d’iniziare una trasmissione antifascista alla
radio del Cairo, accettai subito; non con entusiasmo, perché sarebbe stato
difficile averne nelle condizioni in cui mi sarei trovata, già lo sapevo,
collaborando con quello che avrebbe dovuto essere il “nemico ufficiale” e del
cui sincero antifascismo dubitavo assai; ma lo sentii lo stesso come un preciso
dovere. Era un’arma che la sorte mi poneva in mano e con quell’arma, astuzia
aiutando, sul fascismo avrei finalmente sparato anch’io.
Dovetti
quindi trasferirmi da Alessandria al Cairo e in un primo momento non ritrovai
gli entusiasmi che la bellissima città, superbamente adagiata sulle rive del
Nilo, aveva sempre suscitato in me col suo paesaggio, i suoi colori e i suoi
odori – poiché un paese è fatto anche di questi, sopra tutto in Oriente. Il duro
lavoro che avevo accettato, i problemi che dovevo affrontare, mi fecero,
durante anni, in apparenza una solerte e precisa funzionaria; in realtà
svegliarono una persona che non avrei mai supposto di poter essere, con tutta
la malizia, l’arroganza, la capacità d’intrigo e d’aggressione che richiedevano
la quotidiana difesa dell’indipendenza e dell’efficienza del nostro lavoro;
perché non ero sola, evidentemente, avevo i miei bravi e fedeli collaboratori
che per fortuna m’erano stati imposti. Non ero più la “scrittrice”, avevo
perfino dimenticato d’esserlo stata, mi sembrava che non avrei più potuto
perder tempo a “inventare storielle”, la crudeltà della guerra mi faceva vedere
questo come la cosa più inutile del mondo. Avevo torto, ma così è stato.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 222-223.
(Alle pp. 232-233 parla della morte di Renato
Cialente)
FAUSTA CIALENTE: EQUIVOCO SU MUSSOLINI
Quella
che io avevo creduto intelligenza non era stata altro. Dunque, se non una buona
cultura musicale e letteraria. Incapace oggi ancora di farle intendere come la
sua città stesse già soccombendo a tutti i punti di vista da quando aveva la “fortuna”
di appartenere al regno d’Italia. Naturalmente, non sollevai nessun problema
del genere, nemmeno quello, vergognoso, del razzismo fascista contro gli
sloveni, tanto non avrebbe capito, o, peggio ancora, non mi avrebbe creduta; e
il mio soggiorno a Malborghetto fu piacevole, il clima di mezza montagna mi
aveva presto guarita e con me la zia era gentile e affettuosa.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 219-220.
domenica 4 febbraio 2024
FAUSTA CIALENTE: LA RICCA CULTURA LEVANTINA
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 211-212
FAUSTA CIALENTE: LA MARCIA SU ROMA. LE COLPE DELLA BORGHESIA
Mi ero sposata qualche anno dopo la fine della guerra e avevo lasciato l’Italia mentre il fascismo, che s’era apertamente messo al servizio d’una miope politica di conservazione, andava facendosi le ossa. La borghesia, fossero gl’industriali del nord o gli agrari del sud, aveva più che mai l’aria di volersi finalmente vendicare sulla massa di tutte le paure sofferte dopo Caporetto – le rivolte, gli scioperi, le settimane rosse – e si proponeva senza ulteriori indugi ad agguantare il potere. Il caso volle che al mio primo viaggio di ritorno dall’Egitto, mio marito ed io assistessimo a Milano alla partenza della “Marcia su Roma”. Una sparuta e scarsa marmaglia in camicia nera e nappe ballonzolanti era radunata in Piazza del Duomo, nel semibuio d’una sera d’ottobre; pochissima gente intorno e dalla Galleria, dove noi eravamo, partirono qualche fischio e qualche applauso, ma nulla di più. Già si sapeva che quei bravi sarebbero comodamente andati in treno e difatti, scendendo poi l’Italia per imbarcarci a Brindisi, li avremmo ritrovati a Firenze, dove per l’ultima volta avrei incontrato la sorridente e affettuosa Myrrhine. Ma, prima di partire, andammo a salutare mio padre e mia madre che abitavano di nuovo a Milano (non si erano ancora separati, come avvenne in seguito), e raccontammo quel che i giornali del mattino avevano annunciato. Mio padre posò il sigaro sul posacenere e guardandoci in viso disse freddamente: «Lo so… ed ora ne avremo per trent’anni».
(Sbagliò di dieci). Io lo guardai esterrefatta, non avevo capito dal suo tono gelido se assistevamo a qualcosa che, secondo lui, si doveva o no accettare, ma, riprendendo il sigaro e dopo averlo riacceso aveva aggiunto con impassibile disprezzo: «Siamo un gran popolo di cialtroni».
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 207-208
FAUSTA CIALENTE: VACCINATA CONTRO L’IRREDENTISMO E STOMACATA DALLA GUERRA
martedì 30 gennaio 2024
FAUSTA CIALENTE: CERTA BORGHESIA CI PREPARAVA IL FASCISMO
La catastrofe fu immediata. Ci sentimmo colpiti come se un’enorme trave ci fosse caduta sulla testa. La cosa peggiore fu l’inaudita rapidità della disfatta; le linee di difesa dalle quali sarebbero dovuti partire i nostri vantati attacchi, in pendenza o meno che fossero, ci sembrarono di biscotto, di marzapane, il nemico se le divorò in pochi giorni. Il 24 ottobre Caporetto era caduta, poi cadde anche il Monte Maggiore (eran nomi che giorno dopo giorno ci scottavano come cera bollente), le vie furono quindi sciaguratamente aperte; prima sentimmo annunciare che gli austro-tedeschi erano giunti a Cividale e i comandi ordinavano alle nostre armate di ritirarsi sul Tagliamento, poi la botta finale, tremenda: il 4 novembre s’erano ancora ritirate e fermate, sì, ma sul Piave! quello che avrebbe così a lungo “mormorato”.
E non era tanto l’idea della disfatta militare che significava, oltre i morti, centinaia di migliaia di prigionieri, tutte le armi cadute in mano al nemico, le vettovaglie perfino, quanto lo spettacolo dei poveri civili in fuga, le case, i campi, gli averi abbandonati, vecchi, donne e bambini gettati in furia allo sbaraglio; non erano certo diventati “profughi di lusso” come i nostri ricchi triestini.
Mio padre fu assai colpito ma rimase stranamente calmo, non ebbe in quei giorni nessuna delle furiose reazioni condite d’abbondanti invettive che ci avevano sempre amareggiato. In silenzio spostava le bandierine. Per il Piave disse: qui forse potranno veramente fermarsi e tenere.
Una specie di patriottismo s’era svegliato anche in me, ed era logico. Per quanto educata fin da bambina a vedere le cose in una luce realistica, e quasi mai dilatata la loro importanza, l’idea del “nostro suolo calpestato dal nemico” mi sconvolgeva, era un prezzo troppo alto che pagavamo all’imprevidenza e insufficienza dei comandi, all’ottusa stupidità dei governi e dei politici. Tuttavia non potevo allora capire, né, con me, i miei giovani amici, che la furibonda reazione di certa borghesia sedicente patriottica ci preparava il fascismo; c’era chi aveva ben calcolato quanto una disfatta poteva generarlo! Lo capimmo più tardi a guerra finita tornarono i combattenti e li vedemmo insoddisfatti, delusi e stomacati da ciò che trovarono nel paese: chi s’era tranquillamente imboscato o spudoratamente arricchito, altri avevano tutto perduto, e ai giovani o quasi giovani reduci la ricompensa che la nazione offriva dopo tanti rischi, rinunce e sacrifici era un avvenire incerto, deludente o misero addirittura; nulla da stupire quindi se tanti di essi, spesso in buona fede, qualche tempo dopo si lasciarono trascinare sulla via sbagliata.
Com’era da prevedere, dopo il clamore della disfatta restammo senza notizie di Fabio. Mia madre scriveva a Milano e pregava le sorelle di farci avere al più presto ciò che la famiglia avrebbe certamente ricevuto prima di noi. Cercavamo di dominare l’angoscia e di ammettere, ragionando, che nella confusione creata da un simile disastro le notizie sarebbero giunte con gran lentezza; tuttavia speravamo. Ch’egli fosse vivo, almeno questo.
Al momento del crollo Fabio era da tempo sull’altipiano di Asiago (nessuno di noi l’aveva mai saputo), il luogo era già stato teatro di furiosi combattimenti tra il maggio e il luglio del 1916; nell’estate del ’17 aveva avuto quella che s’era poi chiamata battaglia dell’Ortigara e là tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sempre del ’17, poco più d’un mese dopo Caporetto nell’offensiva che la storia indicò come battaglia delle Molette, il 5 dicembre Fabio era caduto.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 189-192
FAUSTA CIALENTE: LE "MALE ARTI" DELLE DONNE
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli
Editori, Milano 1976, pp. 184-185
domenica 28 gennaio 2024
FAUSTA CIALENTE: MEGLIO LA GUERRA CHE IL SOCIALISMO
propaganda ufficiale seguitasse a presentarci la sua quotidiana mistificazione degli avvenimenti bellici e mentisse spudoratamente sulla psicologia del fronte e dell’interno, cioè dei combattenti e della popolazione, la verità si faceva strada, se non altro attraverso le lettere che giungevano dalle trincee alle famiglie. Non so in che modo riuscissero a gabellare l’arcigna censura giacché erano piene di rabbiosa amarezza e denunciavamo lungo il corso di quell’atroce 1916 l’inutilità e il grottesco d’una guerra che non era affatto per una “nobile causa”, scrivevano, e che serviva sopra tutto ad arricchire i pescicani, a saziare la loro ingordigia e a tener quieta una borghesia che ipocritamente li trattava da eroi e li colmava di lodi, ma era ben contenta, sotto sotto, che fossero occupati a scannarsi con gli austriaci e non liberi, invece, di sviluppare il temuto socialismo da cui si era sentita minacciata; ma essi, al fronte, pagavano con la vita quell’ignobile commedia, e le famiglie, all’interno, la pagavano con privazioni e stenti sempre maggiori. Poi si cominciò a dire di diserzioni e fucilazioni, probabilmente queste erano notizie che nessuno osava scrivere, le portavano dal fronte i soldati in licenza, ma poi non restavano sospese come nebbia nel chiuso delle famiglie, insidiosamente le parole circolavano, circolavano, erano come un orlo di fango che arrivava dappertutto.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 179-180
sabato 27 gennaio 2024
FAUSTA CIALENTE: IRREDENTISMO E DINTORNI
Ciò che più avrebbe colpito chi avesse
voluto esaminare da un punto di vista strettamente economico e sociale la
questione irredentista intorno agli anni di quelle liete vendemmie e quei balli
alla Filarmonica, avrebbe senza dubbio scoperto, o almeno imparato, come per
salvarsi dalla secolare oppressione di Venezia, Trieste aveva dovuto concedersi
ai duchi d’Austria pochi secoli dopo il mille; e per molto tempo aveva
vivacchiato sfruttando un hinterland
che le era completamente straniero, anche per il linguaggio, ma era il solo
retroterra di cui poteva disporre. Era quindi curioso, ma soprattutto
indicativo d’un certo carattere che una comunità tra il 1500 e il 1600 era
calata da dodicimila a cinquemila abitanti, avesse nondimeno continuato a
parlare in città e lungo tutto il litorale il suo dialetto veneto; e proprio
questo linguaggio avessero astutamente imparato, storpiandolo, i carniolini, i
carinziani, gli stiriani. I triestini, imperterriti, non imparavano nulla e
ostentavano già allora l’intenzione di condurre traffici e commerci adoperando
unicamente il loro dialetto. Ma se intanto non decadeva, Trieste, non era per
il buon volere o la generosità degli Asburgo ai quali s’era data in braccio, ma
per l’inarrestabile decadenza di Venezia; e se ciò la rendeva sempre più libera
di sviluppare i suoi commerci in terra e in mare, fatalmente la incorporava
sempre di più nel nascente impero austriaco e andava diventando la porta
occidentale d’un immenso retroterra orientale, un destino al quale sembrava
naturalmente, geograficamente legata; e la lingua tedesca, quella almeno,
avrebbe dovuto parlarla. Una storia così lontana nel tempo che i triestini
destinati all’irredentismo adriatico, anche se non l’ignoravano, preferivano
fingere d’averla dimenticata, o tutt’al più con l’avvicinarsi dei tempi moderni
si accontentavano di vantare, come immancabilmente faceva il padre, il
pittoresco cosmopolitismo della città, passato e recente, e quel “mitteleuropeo”
ch’era diventato il carattere peculiare di Trieste e della sua cultura. Troppi avvenimenti
s’erano accavallati nell’Ottocento che aveva visto nascere non soltanto il
padre e la madre, ma anche le loro quattro figliuole, e i sussulti che dopo la
bufera del ’48 avevano via via provocato la guerra del ’66, la compiuta unità d’Italia,
l’impiccagione di Oberdank, non avevano fatto altro che accrescere ed
esasperare l’irredentismo dei triestini non austriacanti, che l’unità
consideravano incompiuta, quindi notoriamente invisi al cattolicissimo
imperatore.
Era nata intanto, intorno al 1890. La Lega
Nazionale in sostituzione di un Pro Patria che Vienna aveva condannato con un
decreto di scioglimento perché s’era permesso d’inneggiare pubblicamente alla
nascita, in Italia, della “Dante Alighieri”; ma la nova associazione non
nascondeva affatto il proposito di continuare a raccogliere fondi per istituire
nuove scuole italiane là dove un sentimento d’italianità o d’irredentismo
sembrava indebolito o minacciato. Alla Lega avevano subito aderito con
entusiasmo il “maestro” e tutta la famiglia, anche le figlie giovinette, e più
tardi ancora i nipoti triestini. Era il tempo in cui il liberalmassone Felice
Venezian capeggiava l’irredentismo in Trieste, quindi anche la Lega Nazionale,
e il suo nome raggiava nella famiglia come una stella di sempre crescente
splendore.
Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 43-45
giovedì 25 gennaio 2024
MASSONI CELEBRI
(Grande Oriente) - “Sebbene sia ignoto ai più, molti dei grandi personaggi che hanno dato un sostanziale contributo alla storia dell’umanità negli ultimi tre secoli aderivano alla Massoneria…
(fonte: Gianmichele Galassi, Apprendista Libero Muratore, Secreta Ed. 2013)
IL PRIMO MASSONE D'ITALIA: ANTONIO COCCHI
Il primo massone d’Italia. Antonio Cocchi, mugellano per rivendicazione, beneventano per caso/ Il Sannio
(Grande Oriente) - La famiglia Cocchi era già presente in Borgo San Lorenzo (FI) nella prima metà del `500: un suo avo era il dottor Giovanbattista Cocchi, cancelliere podestarile.
Antonio, nacque casualmente a Benevento il 3 agosto 1695 giacché il padre Diacinto, notabile e funzionario nell’amministrazione del Granduca Cosimo III° de’ Medici, incaricato della gestione dei beni di Falco Rinuccini nobile fiorentino e marchese di Baselice, fu trasferito nella nostra città con la moglie Beatrice Bianchi di Baselice.
Tornati poco dopo in Toscana, i Cocchi iscrissero il figlio alla scuola degli Scolopi di Firenze, e Antonio iniziò quella lunga strada di scienziato, medico, antiquario, botanico, filosofo, che lo portò in tutta Italia e in diversi paesi europei come Inghilterra, Francia, Svizzera, Olanda e Germania.
Fortemente legato alla sua terra d’origine si firmò “Mugellano” da quando, iscritto nei moli dell’Ateneo di Pisa, aveva rivendicato le sue origini fiorentine. Il monogramma personale infatti mostra una M di Mugellano capovolta e una A di Antonio in essa incastonata. Di eclettica formazione e di poliedrica attività fu membro dell’Accademia della Crusca, fermo assertore di una scienza laica e libera, versatile letterato e anche massone.
Tra le sue molte opere ci occupiamo delle “Effemeridi”, il diario privato di Antonio Cocchi: sono contenuti appunti informali su disparati argomenti, in molte lingue antiche e moderne, con numerosi segni e disegni.
Nei 103 quaderni manoscritti autografi donati dagli eredi alla Biblioteca biomedica dell’Università degli studi di Firenze (un tempo Biblioteca dell’Ospedale di Santa Maria Nuova in Firenze) Cocchi racconta la sua vita dal 1722 al 1757 con dovizia di particolari: elenca le persone incontrate, i luoghi visitati, i libri e i codici manoscritti posseduti, i malati curati, le entrate e le uscite della cassa personale, quasi sempre vuota. Ne emerge uno spaccato assai interessante, che fa delle “Effemeridi” una testimonianza importante per la ricostruzione storica della medicina, della biblioteconomia, della filosofia, della politica, dell’arte e della letteratura del Settecento toscano. In una recensione del libro “Quaderno di cultura” degli autori Selvaggio e Pace, edito dalla Associazione Storica del medio Voltumo, Monica Longo parla della Massoneria in area sannita, territorio periferico, interno eppure, caratterizzato da feconde tradizioni esoteriche e stregonerie, accende curiosità grazie a spunti e particolari inediti. Come il nome e le generalità del primo massone principiato in Italia: Antonio Cocchi, nato a Benevento nel 1695, illustre clinico medico dell’Università di Pisa, avviato nella Loggia degli Inglesi di Firenze nel 1732. Primo massone iniziato in Italia, specifica Nicola Di Modugno nella postfazione, ma non primo massone italiano in quanto il primato è del violinista lucchese Francesco Saverio Geminiani, iniziato a Londra nel 1725.
Nell’articolo della Longo si fa riferimento a eventi singolari. C’è una significativa fetta di Sannio nella massoneria italiana. Il professore Di Modugno, storico della massoneria, riporta tra gli altri succosi aneddoti, quello riguardante Padre Pio e Raffaele De Caro. De Caro, nato a Benevento il 1883, iniziato nel 1911, insignito del grado di Maestro un anno dopo, deputato al parlamento, firmatario del Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, “nel 1957 ebbe un malore e, ritenendo vicina la sua morte, chiese a Guido (Guido De Caro, nipote e figlio adottivo di Raffaele, iniziato presso la Reale Loggia Manfredi di Benevento, di cui fu successivamente Maestro Venerabile) di recarsi a San Giovanni Rotondo a pregare Padre Pio, di cui era intimo amico fin dalla adolescenza, di venire a Benevento a dargli l’estrema unzione. Guido — si legge nella ricostruzione di Di Modugno — partì con l’autista da Benevento a mezzanotte e giunse a San Giovanni Rotondo alle quattro di mattina”. Padre Pio lo rassicurò e lo invitò a prendere la via del ritorno: “Vedrai Guido —gli disse — quando arriverai a Benevento lo troverai di nuovo bene”.
E così fu…La storia della Massoneria è stata attraversata da condanne, sospetti e pregiudizi; da corporazione di maestri d’opera diventa un corpo speculativo, ciò nondimeno è importante non dimenticare il suo contributo di matrice illuministica anticipando concetti quali la libertà, l’uguaglianza, la fraternità, la tolleranza religiosa, la dignità individuale, il libero pensiero. Nei confronti del personaggio mugellano, la Chiesa non poté fare a meno di riconoscere la sua vivida intelligenza e la sua profonda cultura. La storia ci ricorda tuttavia che Benevento è stata un’enclave dello Stato Pontificio all’interno del Regno di Napoli dal IX secolo al 1860, e quindi ad Antonio Cocchi, oggetto di attenzione del Tribunale dell’Inquisizione in quanto massone, è stata dedicata una strada Giuseppe Patrevita disabitata con solo tre numeri civici, di cui due con vetrina chiusa di negozio di abbigliamento. Di fronte al banco di Napoli al Corso Garibaldi c’è una stradina angusta di meno di cento metri che sbocca a Piazza Roma. E Via Antonio Cocchi tra il Palazzo dell’Aquila Bosco Lucarelli del XX secolo e lo splendido palazzo Collenea-Isernia appartenente al nobilato locale.
Un’ulteriore sberla al mugellano beneventano è assestata da Google Maps e Street View: si inquadra la lapide intitolata ad Antonio Cocchi ma a terra è evidente la scritta Via Odofredo, giurista di Bologna (1200-1265). Che dire…? Ci troviamo di fronte all’inconoscibilità del reale di cui ognuno può dare una propria interpretazione ma che può non coincidere con quella degli altri.
Così è la vita… E così è se vi pare. (A cura dell’Archeoclub di Benevento)