martedì 30 gennaio 2024

FAUSTA CIALENTE: CERTA BORGHESIA CI PREPARAVA IL FASCISMO

Verso il 20 ottobre i bollettini cominciarono a dar notizia di qualche movimento che doveva essere straordinario, la gente si eccitò leggendo che il nemico concentrava tutte le sue forze; anche le donne leggevano e mi sembrava che fossimo s’un palcoscenico (come le Wieselberger, nei bei tempi) dove sentivamo di partecipare a qualcosa di molto grosso o molto importante; qualcosa che finalmente soddisfaceva tutti. Forse si va verso la fine, forse era nel giusto chi aveva predetto “il prossimo inverno non più in trincea”. Di nuovo un “Natale tutti a casa”? C’era di che far venire la nausea. Anche i miei compagni erano pieni d’agitazione, la stessa che doveva essere nelle famiglie poiché tutti avevano qualcuno al fronte; ed io tacevo.

La catastrofe fu immediata. Ci sentimmo colpiti come se un’enorme trave ci fosse caduta sulla testa. La cosa peggiore fu l’inaudita rapidità della disfatta; le linee di difesa dalle quali sarebbero dovuti partire i nostri vantati attacchi, in pendenza o meno che fossero, ci sembrarono di biscotto, di marzapane, il nemico se le divorò in pochi giorni. Il 24 ottobre Caporetto era caduta, poi cadde anche il Monte Maggiore (eran nomi che giorno dopo giorno ci scottavano come cera bollente), le vie furono quindi sciaguratamente aperte; prima sentimmo annunciare che gli austro-tedeschi erano giunti a Cividale e i comandi ordinavano alle nostre armate di ritirarsi sul Tagliamento, poi la botta finale, tremenda: il 4 novembre s’erano ancora ritirate e fermate, sì, ma sul Piave! quello che avrebbe così a lungo “mormorato”.

E non era tanto l’idea della disfatta militare che significava, oltre i morti, centinaia di migliaia di prigionieri, tutte le armi cadute in mano al nemico, le vettovaglie perfino, quanto lo spettacolo dei poveri civili in fuga, le case, i campi, gli averi abbandonati, vecchi, donne e bambini gettati in furia allo sbaraglio; non erano certo diventati “profughi di lusso” come i nostri ricchi triestini.

Mio padre fu assai colpito ma rimase stranamente calmo, non ebbe in quei giorni nessuna delle furiose reazioni condite d’abbondanti invettive che ci avevano sempre amareggiato. In silenzio spostava le bandierine. Per il Piave disse: qui forse potranno veramente fermarsi e tenere.

Una specie di patriottismo s’era svegliato anche in me, ed era logico. Per quanto educata fin da bambina a vedere le cose in una luce realistica, e quasi mai dilatata la loro importanza, l’idea del “nostro suolo calpestato dal nemico” mi sconvolgeva, era un prezzo troppo alto che pagavamo all’imprevidenza e insufficienza dei comandi, all’ottusa stupidità dei governi e dei politici. Tuttavia non potevo allora capire, né, con me, i miei giovani amici, che la furibonda reazione di certa borghesia sedicente patriottica ci preparava il fascismo; c’era chi aveva ben calcolato quanto una disfatta poteva generarlo! Lo capimmo più tardi a guerra finita tornarono i combattenti e li vedemmo insoddisfatti, delusi e stomacati da ciò che trovarono nel paese: chi s’era tranquillamente imboscato o spudoratamente arricchito, altri avevano tutto perduto, e ai giovani o quasi giovani reduci la ricompensa che la nazione offriva dopo tanti rischi, rinunce e sacrifici era un avvenire incerto, deludente o misero addirittura; nulla da stupire quindi se tanti di essi, spesso in buona fede, qualche tempo dopo si lasciarono trascinare sulla via sbagliata.

Com’era da prevedere, dopo il clamore della disfatta restammo senza notizie di Fabio. Mia madre scriveva a Milano e pregava le sorelle di farci avere al più presto ciò che la famiglia avrebbe certamente ricevuto prima di noi. Cercavamo di dominare l’angoscia e di ammettere, ragionando, che nella confusione creata da un simile disastro le notizie sarebbero giunte con gran lentezza; tuttavia speravamo. Ch’egli fosse vivo, almeno questo.

Al momento del crollo Fabio era da tempo sull’altipiano di Asiago (nessuno di noi l’aveva mai saputo), il luogo era già stato teatro di furiosi combattimenti tra il maggio e il luglio del 1916; nell’estate del ’17 aveva avuto quella che s’era poi chiamata battaglia dell’Ortigara e là tra la fine di novembre e i primi di dicembre, sempre del ’17, poco più d’un mese dopo Caporetto nell’offensiva che la storia indicò come battaglia delle Molette, il 5 dicembre Fabio era caduto.

Le quattro ragazze Wieselberger, Club degli Editori, Milano 1976, pp. 189-192


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