martedì 26 giugno 2012

'DIRITTI E DOVER', RIFLESSIONI DI UNA DOCENTE SULLA MATURITA' 2012

Daniela Paganelli

Leggo e rileggo, a mente fredda, le tracce dei temi proposte ieri alla Maturità. Cerco e trovo qua e là commenti più o meno autorevoli, più o meno critici, più o meno provocatori; tutti, più o meno, disinformati sull’effettiva realtà della scuola. Nulla, comunque, che riesca a stemperare la penosa impressione provata ieri, i primi frustranti e arrabbiati pensieri.
 Dunque: non sto qui a discutere sull’opportunità di proporre una prosa di Montale (cosa di cui evidentemente si sono resi conto gli stessi estensori della traccia, se si sono sentiti in dovere di precisare che “è noto soprattutto come poeta”). Non commento la ripetitività dell’argomento per l’ambito tecnico-scientifico, già proposto – con poche variazioni – almeno quattro volte negli ultimi otto anni. Non mi voglio chiedere perché si sia sprecato un passo così lucidamente tragico di Hannah Arendt, che si prestava a ben altre considerazioni (bastava riflettere su quel titolo: La banalità del male), per giustificare la generica richiesta di soffermarsi (?) “sullo sterminio degli ebrei pianificato e realizzato dai nazisti”. Non commento infine la scelta di utilizzare un aforisma stile facebook (che poi si tratti invece dell’incipit di un romanzo, sconosciuto ai più, è ancora altra questione) in sostituzione di una traccia più ampia e articolata, come dovrebbe essere quella della tipologia D. Insomma non voglio fare inutilissime riflessioni sull’evidente, decennale scollamento tra le varie commissioni di ‘esperti’ che, ogni anno, preparano i temi per la Maturità e chi, nella scuola, ci lavora davvero. Peraltro, l’argomento per il saggio artistico-letterario era molto originale e stimolante, corredato di documenti significativi e facilmente utilizzabili. Inoltre, c’è da rilevare in positivo come sia stata confermata la tendenza ad allegare non troppi documenti, anche se alcuni di quelli proposti appaiono eccessivamente zeppi di dati e percentuali, altri unidirezionali, altri ancora sinceramente ben poco chiari in alcuni punti.

Ma non sono stati questi i primi pensieri di ieri.
Ieri ho pensato che era semplicemente triste, tristissimo, che la classe dirigente di un Paese chiedesse ai suoi giovani di riflettere su quanto in fondo è brutto avere vent’anni, di riflettere su un mondo “che ridurrà sempre più le ore dedicate al lavoro”, e che ne inventerà di inutili “per non lasciare sul lastrico milioni o miliardi di disoccupati”; una classe dirigente che sciorina dati e percentuali sulla disoccupazione giovanile, o sulla mancata “coerenza tra titolo posseduto e lavoro svolto”; una classe dirigente che, implicitamente, suggerisce di “trasferirsi […] all’estero per trovare lavoro” e che, come soluzione a una situazione drammatica, indica la ricetta di Steve Jobs, ovvero abbandonare gli studi (evidentemente inutili per emergere e diventare ricchi sfondati), partire per l’India o al massimo frequentare “corsi di calligrafia”. E il tema del labirinto, metafora della vita, non offriva certo prospettive migliori… Insomma una classe dirigente che, invece di lavorare per tentare di risolvere la situazione, si crogiola nel proprio fallimento e vomita addosso ai suoi giovani i dati di una crisi di cui quei giovani non sono responsabili; soprattutto una classe dirigente che forse, anzi certamente, pensa di aver dato prova in questo modo di preoccuparsi del problema, sgravandosi di una responsabilità che invece, appunto, non consiste nel riempirsi la bocca e la penna di dati e percentuali ma nel darsi da fare, dannandosi se necessario, per cambiare le cose.
In quale stato d’animo possono essere caduti ieri i nostri ragazzi, ragazzi che si aspettavano di veder valorizzati anni e anni di studio e invece si sono trovati a dover commentare il buio che li aspetta? Se fossi stata una di loro mi sarei alzata e me ne sarei andata. Che tristezza leggere, oggi, che circa il 63% dei maturandi ha svolto invece proprio la traccia sui giovani e la crisi o quella sulla frase di Nizan. Tutti quei ragazzi sono caduti - nella loro limpida, onesta, ingenuità - nella trappola tesa loro da chi, straparlando sull’incertezza del futuro, ha voluto dare l’impressione di aver chiaro il problema, di occuparsene, di averlo tra le proprie priorità, e invece si è solo alleggerita di un fastidioso fardello.
 E qui sta il motivo più profondo della tristezza di ieri.
Immaginiamo infatti di avere una persona cara, magari un figlio, gravemente malato e con poche probabilità di sopravvivenza. Ora, quale dovrebbe essere l’atteggiamento di un genitore? Cosa dovrebbe dire a quel figlio? Forse guardarlo passivamente dicendo “Eh sì, caro mio, ti resta proprio poco da vivere…”? O non dovrebbe piuttosto, quel genitore, innanzitutto cercare spasmodicamente le cure più aggiornate, più efficaci, più risolutive? Soprattutto, non dovrebbe quel genitore farsi carico di tutte le angosce, i dubbi, le paure del figlio, standogli accanto e rassicurandolo, sussurrandogli “Stai tranquillo, andrà tutto bene”? Si chiama pietas, si chiama amore. Un genitore, o uno Stato, dovrebbe assorbire e tenere per sé le preoccupazioni dei figli, specie quando non ha rimedi immediati da offrire, e non riversare sui figli stessi la propria impotenza o le proprie ansie, per alleggerirsene. Non si tratta di nascondere ipocritamente e colpevolmente la gravità di una malattia, o un futuro precario e buio, ma di assumersi la responsabilità del proprio ruolo di adulto, o di classe dirigente, che consiste anche nel prendere su di sé il peso di situazioni drammatiche senza scaricarlo irresponsabilmente ed egoisticamente su chi avrebbe invece bisogno di essere incoraggiato e tenuto per mano.
Per carità, non chiedevo, ieri, l’analisi di un ridicolmente obsoleto “La donzelletta vien dalla campagna…” (che comunque, se proprio si voleva far riflettere sulle aspettative dei vent’anni, non ci stava male…), e neanche la solita traccia su musica o New Media; però mi sarebbe piaciuto non trovare un pessimismo così martellante e ostentato, così liberatorio per chi l’ha esibito e così avvilente per chi ha dovuto subirlo.
Quali speranze mai potranno avere questi ragazzi, quale determinazione ad andare avanti, ad impegnarsi, se chi avrebbe l’onere di permetter loro di diventare adulti abdica in partenza ai propri doveri?
Cosa mai dovrebbero fare?
 E invece devono, devono, devono poter credere che tutto lo studio di questi anni, di questi giorni, servirà loro a qualcosa; devono poter sperare di costruirsi il futuro; soprattutto, devono poterlo desiderare. Sono tutte illusioni? Forse, anzi nella maggior parte dei casi certamente sì, ma è un loro diritto poter credere di aver in mano la propria vita, ed è un dovere di noi adulti permettere che sia così, non infrangendo prima i sogni che la vita stessa, e presto, si incaricherà di far svanire.
È un loro diritto, è un nostro dovere.
Ma tutto sta sbiadendo, e non ce ne accorgiamo.

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