domenica 6 febbraio 2011

LE PAROLE E LA PAURA


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di Concita De Gregorio | tutti gli articoli dell'autore
Un soffio costante di vento. Un passaparola tra persone di carne, non il megafono della tv, ha convocato questa gente qui. Una manifestazione di cui nessuno, se non chi l’ha voluta e sostenuta, ha mai parlato. Nessuna televisione, i quotidiani nazionali – gli altri – da ultimo e per forza, giusto ieri una colonna. Eppure a mezzogiorno del primo giorno di sole, ieri, a Milano la metro era colma. Ragazze, moltissime. Famiglie. Coppie. Gente tranquilla, ridente, quieta. Alle due, un’ora prima della manifestazione, il Palasharp era pieno. Diecimila persone sedute. Moltissime altre, arrivate dopo, sono rimaste fuori. Non ho mai visto, in tanti anni di cronaca politica, una riunione così imponente di persone così poco rumorose. Applausi tanti, certo. Ma niente cori, nessuna canzoncina, niente insegne di nessun genere tranne qualche vessillo tricolore. Qualche cartello scritto a penna, portato da casa. Un silenzio, durante gli interventi, unanime e all’unisono. Il silenzio di chi ascolta. Era talmente avvertita, misurata, critica e attenta, la gente in sala, che questa volta l’incredibile comunicato congiunto scandito a memoria dai Cicchitto, Capezzone e varii altri valvassori che urlano sono «fascisti di sinistra, vogliono piazzale Loreto» risulta proprio fuori misura, come un vestito da sera al mare, precotto e non adatto all’occasione. Hanno preparato una risposta standard per qualcosa che immaginavano fosse come l’avrebbero fatta loro. Invece non era così. Hanno sbagliato, ancora una volta non hanno ascoltato. Se urlano così forte, del resto, vuol dire che hanno paura: questa volta hanno paura. Lo stesso capo in testa ce l’ha: non bisogna dal loro credito, ha detto. E poi ha dato disposizione al suo intermittente spin doctor di scatenare il Foglio contro la manifestazione del 13. Anche quella si sente crescere e lo innervosisce parecchio. Perciò hanno dato mandato ai loro scriba di far passare la cosa come un’assemblea di moraliste che ce l’hanno con le prostitute. Di nuovo: non hanno ascoltato, non hanno letto, non hanno seguito. Ma non da ieri: da anni. Potrebbero fare qualche ricerca d’archivio, o anche sfogliare gli editoriali e gli articoli recenti. Se ne guardano bene. Non è il dialogo né il confronto il loro obiettivo. È cercare e trovare lo slogan più efficace per demonizzare l’avversario e fare in modo che non sia ascoltato per principio, a priori e a prescindere. Temono più di ogni altra cosa la parola che porta il pensiero. È questo che li innervosisce. La possibilità che la parola, col tam tam, dilaghi sebbene fuori dal loro controllo. Proprio di questo, che è quel che avevamo scritto ieri qui e abbiamo ripetuto al Palasharp, hanno parlato tutti, ieri pomeriggio, con una misteriosa ed eloquente convergenza di pensiero. Bisogna invece ridare senso e dignità alle parole, ripartire dall’ascolto. Di questo hanno parlato Eco Saviano e Salvatore Veca, «l’uso sapiente e responsabile delle parole», la capacità di ascoltare e farsi sentire, il ponte con l’altra metà del paese. Sandra Bonsanti, una ragazza di settant’anni, ha dato la parola a Giovanni Farizzo, un ragazzino di 13. Le figlie di Biagi hanno letto parole del padre insieme sul palco. Milva, indomita, accanto a Irene Grandi, 50 anni di musica in mezzo. Susanna Camusso, sindacalista, ha spiegato che in tutto il paese, non solo ad Arcore, c’è qualche serio problema rispetto alla sessualità. Logiche da bar, da barzelletta al potere, ha concluso idealmente il suo discorso Lorella Zanardo, manager. Saviano ha parlato a braccio, a lungo, come se fosse a casa davanti a pochi amici. Paul Ginsborg da casa a Firenze, si sentiva il sorriso. Scalfaro in video, esortava le donne. Eco a Marcegaglia: io vado a letto tardi, signora, ma è perché leggo Kant. Molta ironia nelle parole serissime di Zagrebelsky, molto vigore in quelle del maestro Pollini così poco abituato all’oratoria pubblica. Ci vediamo il 13, dicevano tutti alla fine. E sì, ci vediamo in piazza il 13: faranno il diavolo a quattro, i servi del padrone, vedrete. È normale. Tranquilli. È solo che hanno paura. Lui ha paura, e loro – che sono utensili – fanno grancassa.

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