Il 31 luglio 1944, a soli 44 anni, moriva lo scrittore ed aviatore francese Antoine de Saint-Exupéry. Poche ore prima della sua scomparsa, egli lasciava la sua ultima, lucidissima lettera, specchio dei tempi nei quali viviamo.
"Ho
compiuto ora un volo sul P.38. E' un bell' apparecchio. Sarei stato
felice di riceverlo in dono per i miei vent' anni. Oggi, riconosco con
malinconia che a quarantatre anni, dopo 6.500 ore di volo sotto tutti i cieli del mondo, non so più provare molto piacere in questo gioco.
E' solo, ormai, uno strumento di spostamento, e in questo caso,
di guerra. Se mi sottopongo alla velocità e alle alte quote ad una età
patriarcale per questo mestiere, è più per adeguarmi alle maledizioni
della mia generazione che non alla speranza di ritrovare le
soddisfazioni di un tempo. Forse è un pensiero malinconico, o forse no.
Sbagliavo certo quando avevo vent' anni. Nell'autunno del 1940, di
ritorno dall'Africa settentrionale dove ero emigrato col gruppo 2/33,
riposta in qualche polverosa rimessa la mia macchina esangue, venni a
scoprire il biroccino e il cavallo. E con essi l'erba dei sentieri, le
greggi e gli oliveti. Quegli oliveti avevano un altro compito che
quello di battere il tempo dietro i vetri a 130 chilometri all'ora. Si
mostravano nel loro ritmo vero, che consiste nel fabbricare lentamente
le olive. Le pecore non avevano per fine esclusivo di abbassare la
media. Ridiventavano vive. Facevano pallottole di sterco genuino e
fabbricavano lana genuina. Ed anche l'erba aveva un senso, poiché la
brucavano.
Mi sono sentito rinascere in quell'angolo unico al
mondo dove la polvere è profumata (sono ingiusto, lo è in Grecia come
in Provenza). E ho avuto l'impressione di essere stato, tutta la vita,
un imbecille.
Tutto questo per spiegarle che questa esistenza
da gregario nel pieno di una base americana, l'andirivieni tra i
monoposto da 600 CV, i pasti in piedi, frettolosi, in una costruzione
isolata dove ci si ammucchia in tre per camera, questo terribile deserto
umano insomma, non ha nulla che mi accarezzi il cuore.
Lo so.
Come le missioni senza profitto né speranze di ritorno del giugno del
1940, anche questa è una malattia da superare. Io sono ammalato per un
tempo sconosciuto. Ma non mi riconosco il diritto di non subire questa
malattia. Ecco tutto. Oggi sono profondamente triste e in profondità.
Sono triste per la mia generazione, che è vuota di qualunque sostanza
umana; che non avendo conosciuto altra forma spirituale di vita oltre
il bar, la matematica e le Bugatti, si trova ora impegnata in una azione
strettamente gregaria, senza più colore alcuno.
Prendiamo il
fenomeno militare di cent'anni fa. Quanti sforzi compiva per dare una
risposta alla vita spirituale, poetica o semplicemente umana dell'uomo.
Oggi essiccati come siamo più che mattoni, sorridiamo di tali
scempiaggini. Costumi, bandiere, canti, musiche, vittorie. Non ci sono
più vittorie al giorno d'oggi, nulla che abbia la densità pratica di una
Austerlitz. Non vi sono che fenomeni di lenta o rapida digestione.
Ogni lirismo suona ridicolo, e gli uomini rifiutano di lasciarsi
ridestare a una vita spirituale qualsiasi. Compiono onestamente una
specie di lavoro a catena. Come dice la gioventù americana: noi
accettiamo questo job ingrato onestamente, e la propaganda nel mondo
intero si batte i fianchi con disperazione. La sua malattia non proviene
da assenza di doti particolari, bensì dal divieto di appoggiarsi, sotto
pena di apparire pomposa, sui grandi miti refrigeranti. Dalla tragedia
greca l'umanità è precipitata fino al teatro di Louis Verneuil. Secolo
della pubblicità del sistema Bedau, dei regimi totalitari e degli
eserciti senza bandiere, né trombe né messe in suffragio dei loro morti.
Odio la mia epoca con tutte le mie forze. L'uomo vi muore di sete. Ah
generale, c' è un solo problema, uno solo per il mondo: ridare agli
uomini un significato spirituale, inquietudini spirituali. Far piovere
su di loro qualcosa che rassomigli ad un canto gregoriano. Se avessi la
fede, stia certo che, superata quest'epoca di "mestiere necessario e
ingrato", non potrei più tollerare altro che la vita monastica. Non si
può vivere di frigoriferi, di politica, di bilanci e di parole
incrociate, mi creda. Non più. Non si può vivere senza poesia, senza
colore né amore. Basta ascoltare un canto popolare del XV secolo per
misurare la china percorsa. Nulla resta, se non la voce della
propaganda. Due miliardi di uomini sentono il robot, capiscono solo il
robot, diventano robot. Tutti gli sconquassi degli ultimi anni non hanno
che due fonti: i guasti del sistema economico del XIX secolo e la
disperazione spirituale.
C'è un problema, uno solo: tornare a
scoprire che esiste una vita dello spirito più alta ancora di quella
dell'intelligenza, l'unica in grado di soddisfare l' uomo. Questo
supera il problema della vita religiosa, che ne è solamente una forma. E
la vita dello spirito comincia là dove un essere "unico" è concepito al
di sopra dei materiali che lo compongono. L'amore per la casa è già
vita dello spirito. E la festa del villaggio, e il culto dei morti...
Ah! che strana sera questa, che strano clima. Dalla mia camera
vedo accendersi le finestre di questa costruzione senza volto. Sento le
diverse stazioni radio sciorinare la loro musica balorda a questa folla
di sfaccendati venuti d'oltremare e che non conoscono la nostalgia. Può
accadere di scambiare questa accettazione rassegnata per spirito di
sacrificio o grandezza morale. Che errore! I legami d'amore che
stringono l'uomo d'oggi agli esseri come alle cose, sono così poco tesi,
così poco solidi, che l'uomo non avverte più l'assenza come una volta.
E' la parola terribile di quella storiella ebrea: "Te ne vai dunque
laggiù? come sarai lontano!" "Lontano da dove?" Il dove che hanno
lasciato non era altro che un fascio di abitudini. In quest'epoca di
divorzio, si divorzia con la stessa facilità dalle cose. I frigoriferi
sono intercambiabili. E le case pure. E la propria donna? E la
religione? E il partito? E' ormai impossibile essere infedeli: a che
cosa si potrebbe essere infedeli? Lontani da dove e infedeli a che
cosa? Deserto dell' uomo".
Antoine de Saint-Exupery